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Autore: Val_Ser    03/11/2013    1 recensioni
Tre storie brevi si sviluppano autonomamente seguendo le tracce dei colori primari.
Ad ogni colore è assegnato un corrispettivo Pantone. Ad ogni colore si legano una o più vite.
Robin e il rosso ardente. Hugo e il blu che nasconde. Hiroshi e il giallo per crescere. Paesi e situazioni diversi, momenti della vita -interiore e non- segnati tutti da una cromia determinante.
Rosso - Pantone 192: "Ma, alla fine, Robin creava le tele, vendeva le tele, abbandonava le tele. Harriet, in qualche modo, era sua. Non la creava, non la vendeva, meno che mai l’avrebbe abbandonata: Harriet era l’unica cosa che fosse mai stata realmente, sentitamente sua."
Blu - Pantone 541: "«Chi lo dice? Non possiamo avere qualcosa in comune? Siamo amici, no?» «Le persone non diventano amiche perché odiano i gatti.» «Ma potrebbero, se odiassero i gatti insieme.»"
Giallo - Pantone 121: "Erano quei colori accesi, quei tagli provocanti. I reggiseni imbottiti, le calze autoreggenti, i rossetti dai toni opachi. Erano quelli la felicità."
[Rosso - Pantone 192 ha partecipato al contest In una valle di lacrime di gunslinger_]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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"I colori sono azioni della luce, azioni e passioni. 
In questo senso possiamo attenderci da essi chiarimenti intorno alla luce.
Colori e luce stanno anzi in rapporto strettissimo, ma dobbiamo rappresentarci l'una e gli altri
come appartenenti all'intera natura:
poiché è proprio essa che, tramite loro, si svela per intero
in particolar modo al senso della vista."

Della teoria dei colori, Johann Wolfgang von Goethe.




Rosso
Pantone 192
 
                  Il vento si abbatteva sul paesaggio del Wisconsin, impietoso. Robin guardava oltre l’orizzonte, pensando ai boschi della Northern Highland State Forest, diverse miglia più a nord. Tra casa sua e quell’oceano di alberi purpurei c’erano strade, pick-up, cartonati di taglialegna a dimensioni gigantesche, e dalla grande finestra a giorno del suo studio non si poteva godere che di una vaga, stagnante imitazione fatta di betulle sparute che lo separavano dall’autostrada.
            Quella casa era appartenuta a sua nonna. Quando era morta, l’anno prima, i suoi genitori l’avevano ristrutturata completamente, mettendogli a disposizione duecento metri quadri di bianco, linoleum e soffitti segnati da travi di legno. L’odore di medicine e di cibo precotto ormai era sparito, ma con loro anche il vecchio profumo nelle boccette dai tappi sferici e l’aroma di cannella dei corridoi.
            Robin strinse la tazza tra le dita, seduto ad un centimetro dalla finestra. Aveva acceso il riscaldamento al massimo, rimanendo con una vecchia maglietta stinta e sporca, mentre fuori la pioggia cominciava a scendere.
            Fuori o dentro, non faceva differenza.
            Dentro Robin pioveva così spesso, e così forte, che non se ne accorgeva più da anni. L’odore di trementina ormai gli bruciava nei polmoni più della nicotina o di qualsiasi sostanza avesse mai provato, le dita erano graffiate dalla punta secca e dal tagliabalze, la pelle arrossata per i frequenti sfregamenti nel tentativo di togliere le macchie secche di olio; che piovesse o meno, che importava?
            Posò la tazza per terra. La tisana ai frutti di bosco, non sapeva perché l’avesse fatta. Perché l’aveva fatta?
            No, non si ricordava, però in quel momento non voleva altro calore in corpo. Era autunno, i gradi si abbassavano sempre più, ma era come se stesse bruciando. Più il calore veniva a mancare, più bruciava, come le stelle: tanto più freddo è il colore dell’astro, tanto è più forte la sua temperatura.
            Robin pensò ad Harriet, ai suoi capelli rossi, al capellino grigio e al giorno in cui l’aveva incontrata. Nella sua tasca, il telefono continuava a vibrare. Significava solo una cosa: lei. Stava tornando. Si passò una mano sugli occhi, sfregandoseli fino a farsi male.
            Un brivido gli percorse la schiena.
            Non ci sarebbe stato più bisogno di farsi male.
 
 
*
 
 

            Harriet studiava  architettura, sei anni prima. Mancavano pochi esami alla laurea. Era carina, durante la Welcome Week, nella sua felpa con una grande W rossa. Robin pensava che fosse un accostamento mortificante nei confronti dei suoi capelli: lunghissimi, rossi, quasi infiammati, dalle sfumature simili ai tramonti sui Grandi Laghi.
            Lui aveva già terminato la Scuola d’Arte, cercava in qualche modo di organizzare mostre ed eventi insieme ad un paio di amici. Erano loro, Clare ed Emil, ad averlo trascinato all’università, lontano dalle sue amate tele. Non aveva protestato: gli serviva un po’ di aria fresca. Emil avrebbe dovuto esporre delle fotografie insieme a Robin, e se lui non si era ancora preoccupato era tutto a posto, un giorno di vacanza poteva permetterselo.
            Clare era una matricola di Lettere e stava con Emil da tempo immemore. Robin aveva sempre pensato che il suo amico doveva essere pazzo ad uscire con una ragazza così giovane, ma ormai erano entrambi maggiorenni e, insomma, erano pur affari loro.
            C’era tanta, tantissima gente. Robin si divertiva a guardare i ragazzini freschi di diploma, saltellanti e pieni di vita: tirava ad indovinare se si sarebbero laureati, in cosa, chi si sarebbe sposato, chi no, chi avrebbe fatto successo, chi sarebbe stato il prossimo Presidente.
            Avevano passato la mattinata a girovagare tra gli stand delle varie facoltà, quando Harriet irruppe nella sua vita. Anzi, nella vita di Clare per prima.
            Harriet si piazzò davanti a lei, allungandole un volantino.
            «Università del Wisconsin, ottima scelta se vuoi diventare un architetto o lavorare nel settore del design.»
            Aveva una voce entusiasta, ma non squillante o fastidiosa come la maggior parte delle ragazze bionde in felpa e pantaloncini degli altri stand. Harriet però non era come la maggior parte delle ragazze. Non era neanche bionda, e non aveva nemmeno dei pantaloncini.
            Robin la squadrò in pochi secondi. Non guardò le sue forme o il suo sorriso, che era in ogni caso il più bell’insieme di labbra, denti e pelle che si potesse immaginare. Era quel cappellino grigio che gli fece aggrottare le sopracciglia. Perché nascondere quella cascata di fili dorati e vermigli? Era un colore talmente strabiliante che avrebbe voluto usarlo per dipingere la sua stanza, la sua casa, il mondo intero.
            «Oh, io non saprei mettere insieme quattro linee, figuriamoci fare l’architetto!» Clare rise, e Harriet con lei. Clare aveva la strana abilità di farsi amici semplicemente con una frase ironica e un trillo della voce.
            «Hai scelto già il tuo corso di studi?» chiese Harriet. Sembrava sinceramente interessata alla risposta.
            «Lettere» rispose Clare. «Antropologia e Sviluppo dei beni culturali come materie supplementari.»
            «Buona fortuna, allora!» Harriet sorrise, rivolgendosi poi verso Robin ed Emil: «E voi, ragazzi?»
            «Ti sembriamo forse dei bambinetti?» chiese Emil, beccandosi una gomitata da Clare, che odiava quando il suo ragazzo non metteva in pratica i suoi ideali di eterna gentilezza e simpatia indiscriminata.
            «Scuola d’Arte» rispose Robin.  «Usciti da poco.»
            Harriet si voltò verso di lui. I suoi occhi blu, blu di Prussia, blu reale, incontrarono gli occhi di Robin, neri, nero fumo, nero di Marte.
            «Carino!» Harriet si aprì in un sorriso ancora più raggiante. «Siete fortunati, eh? Io dovrei finire quest’anno e non vedo l’ora.»
            «Sì, be’, tanti auguri per i tuoi studi.» Emil la liquidò con un sorriso, trascinando via Clare. Robin rimase fermo per un secondo.
            «Ehi, se esponete qualcosa vi vengo a vedere» continuò Harriet, incurante del comportamento di Emil. «Mia madre lavora in un museo, se ne intende, diciamo. Piacerebbe anche a me imparare qualcosa dell’argomento: al di là di planimetrie e colonnati, non sono una cima in arte.»
            «Fra tre settimane, all’Overture Center, Madison.» Robin rispose senza riflettere.  Stava studiando la linea del suo naso, ed era così carino con quelle lentiggini leggere.
            Harriet arcuò le sopracciglia, schiudendo le labbra in un’espressione sorpresa. «Wow, non pensavo foste così avanti!» Si scostò una ciocca di capelli dal viso, infilandola sotto il cappello con un gesto rapido. «Allora ci vediamo lì. È stato un piacere!»
            Pochi metri più avanti, Emil e Clare, basiti, avevano assistito alla scena. Quando Robin li raggiunse, si beccò uno schiaffo sulla nuca.
            «Ma sei impazzito? L’Overture Center?» Emil era impallidito e inviperito al tempo stesso. «Bello, se volevi fare colpo su una ragazza le proponevi il body painting, non l’Overture Center. Non riusciamo ad esporre al centro commerciale, figurati in una galleria d’arte!»
            «Sei stato un po’ avventato» disse Clare, mordendosi un labbro. «Pensi davvero di farlo?»
            Robin alzò le spalle, continuando a camminare. «In qualche modo si farà.»
            La risposta fece imprecare Emil in un tono di voce non proprio smorzato, ma Robin non lo sentiva. Camminava tra la folla con gli occhi pieni, ricolmi, traboccanti di rosso, sapendo che in tre settimane avrebbe fatto tutto, sarebbe stato disposto ad uccidere, pur di riempirseli di nuovo di quel colore.
 
 
*
 
 
          Harriet era venuta.
          Harriet aveva visto i quadri di Robin.
          Harriet aveva baciato Robin.
          Robin e Harriet avevano fatto l’amore.
          Era successo troppo in fretta, in maniera troppo casuale, le ultime tre settimane erano state folli. Robin aveva falsificato una lettera di raccomandazione del rettore della Scuola d’Arte, si era presentato all’Overture Center ed era stato tutto facile, incredibilmente facile.

            Emil aveva cominciato a stampare le fotografie migliori, a correre da un fotografo all’altro per avere consigli su quanto saturare qui e quanto sgranare là.
            Robin aveva dipinto. Aveva usato, soprusato, abusato dei colori e dei pennelli: alla fine della prima settimana aveva realizzato quattro tele, buttato due barattoli vuoti di acqua ragia e tre pennelli. La seconda settimana ne aveva realizzate altre due. Avevano tutti soggetti diversi: figure umane, animali, paesaggi, copie reinterpretate di quadri celebri. Tutti erano accomunati da un particolare rosso. Robin aveva mescolato i colori furiosamente, sulla tavolozza e su se stesso: quando dimenticava di usare un supporto, spremeva il tubetto sui suoi jeans da pittura e mescolava le tinte lì, finché la trementina non trapassava il tessuto e gli bruciava la pelle. Non aveva pensato, non aveva riflettuto: ogni quadro gli era venuto automatico, quasi surreale.
            Robin non pensava mai quando dipingeva. Forse era proprio quel dettaglio a rendere ogni suo quadro un’opera irripetibile. Sei tele non erano abbastanza: aveva preso vecchi disegni e con acrilici e acquerelli aveva aggiunto rosso, rosso dovunque. Era persino riuscito a convincere Emil a trattare alcune foto con filtri rossastri. Sembrava che qualche pazzo si fosse svenato sopra le loro opere.
            «Mi piace quel quadro.» Harriet fumava con leggerezza, come una vera donna di classe, apparendo più grande della sua età. La luce della lampada sul comodino le regalava un’ombra morbida che scendeva sul viso, le spalle curve, i seni nascosti dalle gambe raccolte vicino al petto.
            «Mh.» Robin, disteso, la guardava come se la stesse guardando per la prima volta. Forse era davvero la prima volta, a pensarci bene. Seguì il suo sguardo fino al quadro appeso dal lato opposto al letto. Era una copia della Venere allo specchio. «L’ha fatto una mia ex. Primo anno, grande talento. Grandissimo, tanto che dopo la laurea è completamente sparita. Credo sia in Europa, adesso.»
            Harriet non si scompose minimamente al sentire nominare un’altra ragazza. Anzi, sorrise. Teneramente o distrattamente, però sorrise. «Ti deve piacere molto il rosso.»
            «Non lo so» ammise Robin. «È un colore come un altro. Sto imparando a conoscerlo.»
            «Ma i quadri di oggi erano tutti rossi.» Harriet gli porse la sigaretta, Robin la gettò in un bicchiere con un fondo d’acqua.
            «Infatti: sto imparando a conoscerlo.» Robin guardava le coperte, osservando sovrappensiero i tenui chiaroscuri delle pieghe. «Vorrei conoscere te.»
            Harriet si voltò come illuminata, scoppiando in una risata sommessa. Qualche stanza più in là, i genitori di Robin dormivano senza sapere nulla della sua presenza. «Mi hai portata a letto, credi di non conoscermi?»
            «No, ovviamente.»
            «Si può capire molto di una persona da come fa sesso.»
            «Abbiamo fatto sesso?»
            «Non lo so, dimmelo tu.»
            Harriet si chinò su Robin, la cascata di capelli ricadde sul suo petto. Robin ne afferrò una ciocca, rigirandosela tra le dita, un’onda di Mar Rosso scappata dalle acque.
            Si guardarono a lungo, si sorrisero, si diedero un bacio a fior di labbra, fin troppo casto in confronto alla maniera forte, impetuosa, quasi selvaggia con cui si erano uniti un’ora prima.
            «Quindi io sono rosso» decretò Harriet. Si mise a sedere a gambe incrociate, svelando senza misteri il fiore della sua giovinezza.
            «Sei infinitamente rosso.» Robin sorrise, accarezzando con i polpastrelli la linea del suo polpaccio. Si issò su un gomito, sporgendosi verso di lei. «Rosso, rosso, rosso.»
            Harriet si avvicinò al suo viso. Odorava di menta e nicotina, di shampoo e sudore. «Che tipo di rosso?»
            Robin si ritrasse appena. Sentiva il suo sesso indurirsi contro il cotone delle lenzuola. «Rosso…» disse con voce tremante. Le dita salirono dalla gamba al fianco, alla pancia, al seno, alla clavicola, ai capelli. «Rosso borgogna. Rosso amaranto.»
            Harriet gli si avvicinò. Gli baciò il petto, il collo. Robin ansimò.
            «Rosso cardinale, rosso veneziano, rosso di Persia.»
            «Mh.»
            «Rosso… ah!»
            Harriet tolse di scattò le lenzuola, scendendo giù, sulla pancia, ancora più sotto.
            «Rosso corallo… mhh… scarlatto…»
            Il respiro si fece più affannoso. Il rosso vorticava nelle vene, sotto forma di sangue, nel cervello, nelle venature del suo pene. Il rosso era ovunque, sulle labbra di Harriet, sulle proprie labbra.
            «Cremisi.»
            Sospiro.
            «Ruggine.»
            Ancora un sospiro. Una pausa. Gli occhi chiusi per godere appieno di quel piacere che le labbra dolci di Harriet sapevano dargli come mai nessun’altra prima d’ora.
            «Cadmio-ah! Oh, Dio!»
            Strinse le labbra, la lingua attaccata al palato, la mascella serrata. Prima di venire, riuscì a mormorare qualcosa. Harriet lo sentì bene, gli occhi chiusi e i sensi amplificati: «Rosso porpora.»
 
 
*
 
 
          Robin si guardò le mani. Tremavano. Tremavano forte. Stava cominciando. Era una questione di minuti, presto sarebbe finita.

            Non avrebbe staccato gli occhi dalla finestra, non fintanto che poteva ricordare. Era un modo come un altro per ignorare i cavalletti rovesciati, le macchie di vernice che si allargavano sul tappeto etnico che a Harriet era piaciuto tanto.              E allora compriamolo, questo tappeto, che male ci sarà, starà qui spesso, facciamola diventare casa nostra.
            Gli dispiaceva aver combinato tutto quel casino. Era una morsa che stringeva il cuore, scuoteva le spalle e inumidiva gli occhi. Voleva chiederle scusa un’ultima volta, e piangere tutte le sue lacrime e prometterle una vita di amore e meraviglie, una vita che non le avrebbe mai dato se non in quel modo.
            Pessima modalità per una promessa così felice.
            Robin doveva scomparire per lasciare ad Harriet tutta la serenità e la gioia del mondo. Una gioia che nasceva da lei, viveva in lei e sarebbe, probabilmente, morta con lei.
            La pioggia aumentava e dilaniava le fronde degli alberi. Gli uccelli volavano bassi, saltando temerari da un ramo all’altro.
            Sì, Harriet era la gioia del mondo.
 
 
*
 
 

            Robin si chiedeva se Harriet fosse poco dotata, poco intelligente, senza senso di competizione o semplicemente se fosse solo sfortunata: sembrava non ce la facesse e basta. Non aveva detto nulla ai suoi genitori, così si era ritrovata a vivere da Robin, con altri genitori, altri fratelli.
            Christie, la sorella di Robin, la trovava dolce, bella, simpatica. Tutte qualità che Harriet dimostrava sinceramente e costantemente di avere. I genitori  di Robin non ne erano tanto convinti. Erano ormai sei mesi che viveva con loro, senza aprire il portafoglio neanche una volta. Era una persona cortese ed educata, troppo per dirle di andarsene, ma sembrava che ogni suo curriculum o ogni suo progetto non funzionasse mai, non andasse bene, mancasse sempre di qualcosa di fondamentale.
            Robin vendeva. Non molto, ma vendeva. Usciva di casa e ritornava in orari totalmente casuali –le tre di notte, le cinque di pomeriggio, le dieci di sera– e ogni tanto portava Harriet con sé. Erano, in qualche modo, felici. Facevano spesso l’amore, imparavano a conoscersi, litigavano e mangiavano i dolci di Christie la domenica sera, sul divano.
            Di tanto in tanto uscivano con Clare ed Emil, ma le visite e le telefonate si fecero sempre più scarse.
Passarono due anni.

            La nonna di Robin si ammalò di cancro, la casa improvvisamente si svuotò. Christie aveva dato fondo agli ultimi risparmi frequentando l’università in un altro Stato, ma aveva trovato un lavoretto lì e viveva di quello che riusciva a racimolare.
            Robin e Harriet si trovarono soli.
            Senza adulti a cui dare spiegazioni, si trovavano sempre più distanti. Harriet stava a casa, di fronte alla televisione, sfogliava libri di architettura svogliatamente, di tanto in tanto provava qualche colloquio. Robin non avrebbe mai voluto che rinunciasse ai suoi sogni, ma quando tornava a casa la sera, dopo aver dipinto tutto il giorno in un garage immerso nell’odore soffocante dei prodotti chimici, avrebbe voluto trovarla sveglia, per amarla, farci l’amore, oberarsi di tutti i suoi problemi e risolverli, quantomeno provarci.
            Harriet era clinicamente depressa. Più rifiuti otteneva, meno lavorava. Robin l’aveva trascinata a fatica da un terapeuta, avevano preso la prescrizione delle pillole insieme, e insieme erano andate ad acquistarle in farmacia. Harriet non le prese mai.
            Il rosso di Robin era morto, insieme al rosso di Harriet. Era così bella e stupenda e promettente ed esplosiva qualche anno prima e in poco tempo era stata recisa, era appassita.
            Robin cominciò a chiedersi se non fosse stata colpa sua. Troppo lavoro, troppa distrazione. Avrebbe dovuto dedicarle tutta la propria anima, dedicare ogni momento della propria esistenza claudicante al rinvigorimento della sua, al limite della vita degna di essere vissuta.
            Passarono ancora i mesi.
            Ancora un anno.
            La fortuna girò.
            Harriet ce la fece. Era una compagnia minore, era un progetto di gruppo, era un lavoro finalmente. Quando ricevette la lettera d’assunzione, Harriet la lasciò cadere sul pavimento, crollando insieme a lei, gli occhi improvvisamente animati da un’elettricità nuova. Robin guardò la lettera. Si inginocchiò accanto a lei.
            Nell’ingresso di casa, con addosso i vestiti e il viso abbigliato di lacrime di gioia e di sollievo, fecero l’amore in maniera sconsiderata. Robin non ricordava di averla mai sentita così. Era bastata la combinazione di ventisei lettere a darle quell’infusione di vitalità, che neanche il più sentito dei suoi ‘ti amo’ era riuscito ad ottenere.
            A Robin non importava. Era Harriet che voleva. La bellezza bruciante di Harriet. L’avrebbe avuta, ancora, a lungo.             Ma nella sua testa si fece strada un pensiero: non sarebbe mai riuscito a salvare Harriet da solo. Aveva avuto bisogno di qualcosa che fosse diverso da lui, ed era comprensibile. Harriet non poteva vivere di solo amore, come lui non viveva di sola arte.
            Ma, alla fine, Robin creava le tele, vendeva le tele, abbandonava le tele. Harriet, in qualche modo, era sua. Non la creava, non la vendeva, meno che mai l’avrebbe abbandonata: Harriet era l’unica cosa che fosse mai stata realmente, sentitamente sua.
            Era lo stesso per lei?
 
 
*
 
 

            «Robin!»
            Harriet bussava alla porta e suonava il campanello contemporaneamente. Robin sapeva che si era tagliata i capelli da poco. L’aveva presa male: si era chiuso in bagno e aveva pianto. Lei non lo sapeva, e non l’avrebbe mai saputo.
 
            «Rob, ho dimenticato le chiavi, aprimi!»
            Robin sentiva il suo corpo fuso con il pavimento. Fuori pioveva ancora. Harriet almeno era sotto il portico. Forse non si stava bagnando troppo. Ma perché l’aveva chiamata?  No, non era affatto giusto. Non doveva vederlo in quello stato.                    Non doveva vedere il tappeto. Il tappeto. Sarebbe stata infinitamente triste, lo poteva immaginare benissimo.
            «Robin, ho visto le tue chiamate, dài! Non farmi preoccupare!»
            Robin inspirò a lungo, contrasse il diaframma. «La porta sul retro!»
            La voce gli uscì troppo forte, vibrante, con una nota strana. Il suo riflesso alla finestra sfumava la forma del suo viso, le occhiaie pesanti, la sua magrezza estrema. Avrebbe voluto una sigaretta, forse.
            Sentì la porta secondaria aprirsi.
            Trattenne il respiro.
 
 
*
 
 

            «Cosa significa?»
            Harriet posò il mestolo, spense il fornello. Guardava dritta davanti a sé. La televisione mandava in onda le repliche di qualche assurdo talk show, riempiendo il silenzio che si era venuto a creare.
            «Guardami, Hattie.»
            «Non chiamarmi Hattie.»
            «Guardami.»
            Harriet si voltò. Robin stava seduto, col capo chino, una bustina di plastica contenente della polvere marroncina davanti a se.
            «Sono due settimane che sto cercando di evitare. Però è dura. Ho bisogno di te.»
            Harriet era accigliata. Aprì un cassetto, prese un fiammifero, una sigaretta, l’accese, si sedette. La stanza si colmò presto dell’odore di fumo. I suoi capelli sapevano sempre più di catrame e nicotina, ma a Robin non era mai dispiaciuto.
            «E quando hai iniziato di chi avevi bisogno?»
            «Di te, Harriet.»
            «E io dov’ero?»
            «Qui, Harriet.»
            «Allora perché?»
            Robin alzò lo sguardo. Si vergognava, come vai in vita sua. Si vergognava di se stesso per tutto, per gli anni precedenti, per aver intristito Harriet. Si chiedeva come avesse potuto, ma non aveva una risposta. Lei era tutto ciò che aveva e tutto ciò che gli sfuggiva. La dipendenza lo stava attanagliando da mesi ed era ora di smetterla. Per lei. Era durata troppo: troppo poco per lui, troppo a lungo per nasconderlo ad Harriet.
            «Ho finito i soldi delle ultime tele. Forse col tuo stipendio potremmo pagare l’affitto per un mese o due.»
            Harriet battè un pugno sul tavolo, furiosa. «Che cazzo dici, Robin? Mi prendi in giro? Sei sempre chiuso nel tuo garage di merda a fare cosa? Da quanto non dipingi, Robin?»
            Lui non disse nulla. La guardò. Pianse, forse. Non era sicuro di quello che stava succedendo dentro di lui. Aveva freddo.
            Harriet capì.
            «I tuoi genitori?»
            «No. Sono troppo impegnati con la nonna.»
            «Christie.»
            «Mai. Non lo deve sapere.»
            «Robin» sospirò Harriet. Si portò le mani ai capelli, scuotendoli, stringendoseli. La cenere della sigaretta cadde sul tavolo bianco immacolato. «Io… io non so cosa fare.»
            «Pensavo…» Robin si fermò. Si passò una mano sulla barba incolta. Non l’aveva mai portata, adesso era già tanto se si guardava allo specchio la mattina.
            «Pensavi che avrei risolto tutto? Che avessi una bacchetta magica? Abbiamo mai avuto qualcosa di garantito, noi due, Robin?»
            Robin poggiò la testa sulle braccia incrociate sul tavolo. «No.»
            L’orologio ticchettava i secondi. Robin ne contò tredici prima di rialzare il capo: «Ho rivisto Emil, qualche mese fa.      Lui e Clare si sono lasciati. Mi ha fatto provare e… sembrava la cosa giusta da fare.»
            «Emil» ripetè Harriet.
            «Già.»
            Altri tredici secondi.
            «Io ti amo da impazzire, Harriet» disse di colpo Robin. «Ti amo follemente. Ti amo come ho amato il rosso, come ti ho amato a ventitrè anni quando ne avevo venticinque. Ti ho amato e ti amo adesso. Proprio perché ti amo ti chiedo, ti supplico di aiutarmi.»
            Harriet sorrise appena. Ritornò subito seria, scosse la testa. «Non puoi dormire qui, stasera. Ho bisogno di schiarirmi le idee.»
            «No…» Robin si alzò, corse accanto a lei e si buttò in ginocchio ai suoi piedi. «Harriet. No. Non farmi andare via.»
Harriet si ritrasse, gentilmente. Si alzò, sfregandosi la fronte sovrappensiero.

            «Ti prego, Harriet…»
            «Dormo fuori io. Ho una collega che vive qui vicino. Domani mattina vedremo il da farsi.»
            La mattina dopo non successe niente. Passò una settimana prima che Harriet tornasse a casa.
            Aveva due condizioni molto semplici: che lui entrasse in un centro di recupero e che ricominciasse a lavorare. Qualsiasi cosa facesse, disegni, incisioni, dipinti, sculture, fotografie, qualsiasi cosa l’avrebbe data ad Harriet. Forse tramite sua madre sarebbe riuscita a contattare qualcuno, magari avrebbero fatto più soldi di quanto pensassero.
            Robin fece entrambe le cose. La sua dipendenza non l’aveva mangiato dall’interno come le altre persone alla riabilitazione, ed aveva ancora qualche idea. I suoi dipinti erano cambiati. Non c’era rosso. Non c’era felicità. Non c’era neanche tristezza.
            Erano corpi vuoti, paesaggi vuoti, la morte di ogni evoluzione artistica. Sarebbe dovuto essere nel pieno della sua produzione. Aveva trent’anni e lo sguardo di un uomo anziano sul punto di morire. Aveva trent’anni di scelleratezza e amore senza confini: se da una parte alcune scelte lo avevano straziato e dilaniato, lo avevano umiliato e colpevolizzato, dall’altra l’amore per Harriet era totalitario, non ammetteva ulteriori errori.
            Voleva sposarla, voleva amarla. Voleva condividere ogni sfumatura della vita con lei.
            Guardava i propri quadri in silenzio.
            Quello che voleva dividere con Harriet, tuttavia, sembrava essersi spento.
            Il rosso era sbiadito in arancione, poi in giallo, poi in bianco. Era diventato trasparente. Davanti ad una tela bianca, ormai, vedeva troppo e vedeva poco. Non c’era nulla da narrare perché tutto era stato già narrato. Si era esaurito in fretta? C’erano ancora tonalità da scoprire, interpretare? Una volta gli era piaciuto giocare col colore. Aveva amato le forme e le dimensioni, la prospettiva, tutto ciò che rendeva un quadro tale.
            Ora amava solo Harriet: allora come mai non aveva più niente da dipingere?
 
 
*
 
 

            «Robin. Robin. Cristo, ROBIN!»
            Harriet lanciò via la borsa, non si tolse neanche il cappotto. Il corpo di Robin era riverso per terra, ancora caldo. La stanza era torrida. Harriet si scivolò sulla vernice versata sul tappeto. Non lo notò nemmeno. Non notò il caos dilagante, non notò la tisana rovesciata sul pavimento. Le labbra di Robin erano pallide, tutto il corpo era diafano, quasi trasparente.             Lo sollevò come una Madonna durante una Deposizione, lo strinse a sè.
          Il suo corpo era scosso da tremiti e singulti. Doveva immaginarlo. Avrebbe
dovuto. Era Robin, come aveva fatto a non capirlo? Era Robin. Era. Robin. Robin.
       «Robin, amore mio, devi svegliarti, devi svegliarti, hai capito?»
       Aveva la tragica sensazione di parlare a se stessa. Prese il telefono dalla tasca di Robin e compose con dita tremanti il numero d’emergenza. Diede le indicazioni per raggiungere la casa. Temeva un’overdose. In cuor suo, lo sapeva già.
       Gettò via il telefono, strinse a se il corpo dell’uomo che l’aveva resa una donna. La sua verginità era stata presa da qualcun altro. Aveva amato prima di lui, ma mai quanto lui. Robin era rosso, era silenzio, era frastuono, era ‘vattene!’ ed era ‘resta con me, sei l’unico che può rimanere’.
       Robin.
       Robin.
       «Dobbiamo stare insieme, amore mio» sussurrava mentre gli baciava i capelli. «Stiamo ricominciando, sono passati sei anni, ne possono passare altri sessanta. Insieme, amore mio, insieme.»
       Le lacrime le appannavano gli occhi. A tentoni cercò la sua mano. Era fredda, immobile. La strinse, la riscaldò nel suo palmo, la sfregò fino a farsi male. «Robin, Robin, Robin.»
       «Scusa…»
       Harriet sobbalzò. Prese tra le mani il volto di Robin. Gli occhi erano chiusi ma le labbra erano appena dischiuse.
       «Scusa per il tappeto…»
       Harriet scoppiò in un pianto disperato. «No…» gemette, mentre premeva le labbra sulle sue. Il rumore di una sirena si avvicinava sempre di più. Harriet si distese accanto a Robin. L’odore di trementina le fece bruciare il naso. Chiuse gli occhi, si strinse al corpo immobile.
       Rossa. La luce della sirena era rossa.
 
 
*
 
 
            Harriet,
amore mio. Spero di essere morto, quando leggerai questa lettera. Avrò almeno raggiunto il mio scopo.
            Non piangere per me. Sono stato la causa di troppe lacrime in questi sei, splendidi anni. Ti ho amata come Dio ha amato il mondo al momento della creazione, se un Dio esiste.
            Vorrei non esistesse, ad essere sincero: vivere ancora, come spirito, come anima, è l’ultimo dei miei desideri. Perché quest’anima è marcia, Harriet. Sei stata tu a tenerla in vita. Tu me l’hai donata da principio. Ma se un Dio esiste, allora vivrei mille purgatori per rivederti alla fine. Patirei l’inferno per riunirmi a te.
            Forse è questo il mio inferno, il mio atto finale.
            Scusami la melodrammaticità, le pillole iniziano a fare effetto. Sonniferi e gin, se te lo stessi chiedendo o se ancora i medici non ti hanno detto niente. Sono un codardo anche nella morte: avrei potuto spararmi, gettarmi da un ponte, morire soffrendo. Forse dentro di me sono convinto di aver sofferto abbastanza.
            Sono stato un codardo tutta la mia vita. Non mi sono mai impegnato abbastanza nell’arte, tranne nel momento in cui ho deciso che ti avrei rivista, in qualche modo; non ho saputo amarti come avrei voluto mentre non riuscivi nei tuoi obiettivi. Ho preferito una dose ad un giorno con te, e sono state molte le dosi e molti i giorni persi. Me ne pento fino nel profondo dell’anima, se ne ho una.
            Sei la donna della mia vita, Harriet, e lo sarai sempre. Io non sono l’uomo per te. Ho trentun anni e non ho saputo fare altro che amarti tantissimo, dimostrandoti solo la metà di quello che avresti meritato. Non piangere per me. So che lo farai, ma dopo un po’ –ti prego– chiudi gli occhi quando pensi a me. Ignorami. O amami ancora. Ma vivi l’amore che non ti ho saputo dare. Da qualche parte c’è un uomo pronto ad innamorarsi del tuo rosso. Rosso corallo, rosso cremisi, rosso porpora.
            Fatti ricrescere i capelli per me: è l’unica cosa che ti chiedo.
            Credevo che il tuo rosso fosse finito. In realtà ero io a non vederlo più. Che stupido sono stato. So che c’è del rosso sotto i tuoi occhi blu, sotto il tuo cappello grigio, sotto la vecchia felpa dell’università che usi per dormire. C’è del rosso sulle tue labbra, c’è la perfezione del tuo amore e del tuo desiderio. Vorrei esserne ancora accecato, come sei anni fa.
            Sei perfetta, amore mio. Ti ho amata in ogni tua espressione, in ogni centimetro della tua pelle. Ti amo, Harriet.
                                                          Disperatamente tuo,
                                                                                   Robin








N/A:  Dopo tanti anni di 'no no no io su efp non ci pubblico più, non scrivo più!' sono tornata. Spero che nessuno si ricordi del mio vecchio account (tale DarkPandora, credo/temo) e della mia fallimentare prima storia. Mi sono decisa a scrivere di nuovo principalmente grazie a due mie amiche, babyjenks e Kaite. In queste settimane sono lentamente rientrata nel mondo delle fic originali e avevo bisogno di uno svago dal mio 'progetto principale'.
Volevo scrivere già da tempo una storia sui colori. Sia 'Primari' che 'Complementari' sono a buon punto, mancano solo Giallo -che è a metà- e Arancione -ancora tutto da definire. Rosso è uscito fuori spontaneamente. Raramente delle storie mi sono suonate naturali e 'vere' come in questo caso. L'idea di scrivere 'Primari' e 'Complementari', poi, è stata consequenziale.
Essendo entrambe raccolte di one-shot, le storie singole saranno totalmente slegate tra loro tranne che per il logico filo conduttore. Non escludo però approfondimenti, spin off o cose simili. 
Via la maschera dell'educazione e risultiamo più simpatiche: apprezzo tantissimo le recensioni (nonostante io sia una marrana millantatrice ed infingarda che promette recensioni a destra e manca e poi si ritrova a fangirlare in silenzio, mea culpa, flagellatemi) e qualsiasi tipo di critiche, commenti, quello che vi capita, non vi verrò a tirare le uova sotto casa in caso di feedback negativo... credo. *w* Qui trovate il quadro citato, Vergine allo specchio di Tiziano!
Entrambe le raccolte dovrebbero essere tutte pubblicate per fine Novembre, Accademia permettendo. Grazie mille per essere arrivati fino a questo punto, il mio cuore si scioglie già come una noce di burro sulla piastra!

Alla prossima <3
   
 
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