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Autore: Val_Ser    05/11/2013    1 recensioni
Tre storie brevi si sviluppano autonomamente seguendo le tracce dei colori primari.
Ad ogni colore è assegnato un corrispettivo Pantone. Ad ogni colore si legano una o più vite.
Robin e il rosso ardente. Hugo e il blu che nasconde. Hiroshi e il giallo per crescere. Paesi e situazioni diversi, momenti della vita -interiore e non- segnati tutti da una cromia determinante.
Rosso - Pantone 192: "Ma, alla fine, Robin creava le tele, vendeva le tele, abbandonava le tele. Harriet, in qualche modo, era sua. Non la creava, non la vendeva, meno che mai l’avrebbe abbandonata: Harriet era l’unica cosa che fosse mai stata realmente, sentitamente sua."
Blu - Pantone 541: "«Chi lo dice? Non possiamo avere qualcosa in comune? Siamo amici, no?» «Le persone non diventano amiche perché odiano i gatti.» «Ma potrebbero, se odiassero i gatti insieme.»"
Giallo - Pantone 121: "Erano quei colori accesi, quei tagli provocanti. I reggiseni imbottiti, le calze autoreggenti, i rossetti dai toni opachi. Erano quelli la felicità."
[Rosso - Pantone 192 ha partecipato al contest In una valle di lacrime di gunslinger_]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Blu
      Pantone 541      




            Lèo e Hugo erano soli nella cella. Non avevano una gran voglia di parlarsi. Lèo era seduto sulla cuccetta in alto a sinistra, silenzioso nel gettare sguardi obliqui a Hugo, disteso in quella in basso a sinistra.
            «A che ora verrà quella lì?» chiese Lèo.
            «Non lo so.»
            «Ma verrà?»
            «Non lo so.»
            «Come hai detto che si chiama? Ana? Anita?»
            Hugo guardò il materasso del letto sopra di lui. «Anaïs» rispose con un sospiro. Si concentrò sul ritmico grattare della matita di Lèo contro il temperino. Non capiva perché dovesse disegnare sempre. Sapeva che dall’alto del suo letto lanciava i trucioli per terra. Lo detestava. Sporcava. Quel posto era già abbastanza lercio senza il suo contributo, poi lui ci avrebbe messo sopra i piedi, e grazie tante Lèo, non voglio che sia chissà quale pezzo di gran casa, ma cazzo, un po’ di rispetto, ci vivo anche io qua.
            Lèo si mise a fischiettare tranquillamente. Hugo si voltò verso di lui.
            «Che canti?»
            «Come, non la riconosci?»
            «Ti ho chiesto che canti.»
            «La Marsigliese. Sai, l’inno di questo paese.»
            «Ma sentiti…»
            «Che?»
            «Sei in prigione e canti la Marsigliese. Sei scemo o cosa?»
            «Fatti gli affari tuoi, Hugo.»
            «E tu smettila di cantare.»
            Hugo si rigirò nel letto. Gli diede le spalle per un minuto, poi si girò di nuovo. Non riusciva a stare troppo tempo senza parlargli. E poi, in prigione ci erano finiti insieme. Lèo non era suo amico, ma erano legati. Dopo tutto quel tempo passato insieme, fuori e dentro, era inutile prendersela per quelle stronzate infantili.
            Lèo era più giovane di lui. Aveva quarant’anni. Hugo ne aveva cinquantatré.  Era da un po’ che sentiva di doverlo incontrare, quando un giorno era successo e basta. Si era presentato a casa sua. Erano diventati amici, per così dire.
            Hugo sapeva che non sarebbero mai stati amici. Come essere amici di un tipo come lui. E poi, forse, se non l’avesse mai incontrato, sarebbe stato fuori in quel momento. Hugo non voleva uscire. O sì, non ne era sicuro. Alla fine, mangiava, dormiva, pisciava, e fare l’amore era qualcosa di cui sentiva la mancanza.
            Lèo era stato con lui, non si era più tolto dai piedi. Hugo l’aveva accolto da subito, forse troppo in fretta. Però c’erano giorni in cui stavano bene insieme. Altri giorni Lèo spariva. Hugo non sentiva la sua mancanza. Anaïs, lei si che gli mancava. Era tanto dolce, era tanto buona. Anaïs entrava in lui dove Lèo non sarebbe mai arrivato, grazie a Dio.
            «Credi in Dio, Lèo?»
            «Boh. Che m’importa. Ma sì, dài, credo di sì.»
            «Sì o no?»
            «Sì. E tu?»
            «Sì. Anaïs no, però.»
            «Non mi piace, quella.»
            «Sta’ un po’ zitto.»
            «Non mi piace e basta.»
            «Non deve piacere a te.»
            «E allora che ne parliamo a fare?»
            Hugo si mise a sedere. Lèo posò il suo blocco da schizzi e la sua matita. Lèo disegnava molto bene. Aveva permesso a Hugo di vedere i suoi disegni di tanto in tanto. I tratti erano duri e un po’ infantili, però c’era qualcosa sotto le sue forme che attiravano l’attenzione di chiunque le vedesse.
            «Che hai disegnato?»
            «Non t’interessa.»
            Hugo si mise in piedi e rubò dalle mani di Lèo il blocco. Erano solo due occhi e una bocca, calcati profondamente sulla carta. Hugo sorrise appena.
            «Sembra Anaïs.»
            «Tutto ti ricorda Anaïs, Hugo.»
            «No, sembra proprio lei.»
            «Che cazzo, potevo fare meglio allora.»
            «Però non è lei.»
            «Deciditi, una buona volta.»
            «Anaïs ha un nastro per capelli. È blu.»
            «Cosa vuoi che mi importi?»
            «Importa a te tanto quanto importa a me.»
            «Invece no.»
            «Invece sì.»
            «Sei un vero stronzo, Hugo.»
            Hugo lanciò il blocco sul letto di Lèo e tornò a distendersi sul letto. Il silenzio era assoluto. Erano solo le tre del pomeriggio, alle quattro si sarebbe aperto l’orario di visita. Forse suo fratello sarebbe passato. Però voleva vedere Anaïs.
            Era bella, Anaïs. Quando c’era lei, improvvisamente il mondo gli appariva sotto un’altra luce. Era arrivata dopo la sentenza del giudice. Era comparsa anche lei, come Lèo. Solo che lei gli tendeva di tanto in tanto la mano attraverso le sbarre, gli suggeriva qualcosa da fare. Non era sicuro di ricordarlo alla perfezione, ma era abbastanza sicuro di averla scopata su quel letto dove ora si riposava.
            Anaïs non assomigliava affatto alla sua ex moglie. Ex perché l’aveva uccisa. Almeno, così dicevano i giudici, gli avvocati, tutti. Se solo fossero stati presenti, avrebbero capito che lui voleva difenderla. L’aveva trovata a litigare con Xavier. Lui e Xavier si conoscevano da tempo ma non erano mai andati davvero d’accordo. Xavier voleva violentare sua moglie. Era entrato in casa sua, forse, lui li aveva trovati lì. Marion piangeva, sanguinava, urlava. La porta di casa era spalancata. Urlava a Hugo di farlo smettere. Hugo si era ritrovato in prigione, coperto di contusioni e graffi. Di Xavier, nemmeno l’ombra.
            Anaïs probabilmente era abbastanza forte da sopraffare un uomo senza problemi. Era formosa e alta, aveva le mani grandi, forse avrebbe potuto addirittura strangolare un uomo. E portava un nastro per capelli blu.
            Di tanto in tanto, con Anaïs si presentava un bambino. Lucas, dieci anni tondi. Era silenzioso e tranquillo, non parlava molto con la gente. A Hugo non piaceva. Lui preferiva i bambini festosi, irrequieti, pronti a giocare in ogni momento. Bambini totalmente ignari di dover crescere, di dover diventare adulti.
            Hugo avrebbe voluto avere quell’innocenza. Talvolta credeva di averla ancora. La sentiva dentro di sé quando guardava Anaïs.
            «Voglio uscire, Hugo.»
            «Io invece voglio invecchiare e morire qui.»
            «Non sei divertente.»
            «Non intendevo esserlo.»
            «Voglio vedere altra gente. Vedere gli altri carcerati. Sono otto mesi che parlo solo con te, e che diamine.»
            Hugo rispose col silenzio.
            «Hugo?»
            «Mh?»
            «Secondo te perché non possiamo vedere altra gente?»
            «Non lo so, Lèo.»
            «Così vecchio e saggio e non sai niente.»
            «Non è vero che non so niente.»
            «In che città siamo?»
            Hugo corrucciò le sopracciglia. Che domanda inutile e scema. Certo che lo sapeva. Era dove aveva sempre vissuto. Si girò verso Lèo. Lo vide con i piedi penzoloni, un sorriso beffardo sul volto. Aveva quarant’anni e si comportava come un bambino.
            «Non lo sai.»
            «Lo so.»
            «No, non lo sai. Tolosa, Hugo. Tolosa.»
            «E allora? Che importa. Non vivo mica a Tolosa, sono solo in questa cella di merda.»
            «Non sei solo. Ci sono io.»
            «Lo so benissimo che ci sei.»
            «Martin, stai ancora parlando?» La guardia che faceva il giro delle celle si fermò davanti alla loro porta. Dalla finestra, Hugo vide solo i suoi occhi scuri e penetranti.
            «È Lèo che mi dà da parlare.»
            «Martin, smettila o chiamo qualcuno.»
            «Al diavolo!» urlò Hugo. «Sono sempre io, vero? A Lèo non dite mai niente!»
            «Non c’è niente da dire, Martin. Torna a dormire. Fra un’oretta tocca a te.»
            La guardia se ne andò. Hugo seguì il suono dei suoi passi finché il proprio respiro non fu più forte del loro flebile sfumarsi nel silenzio.
            «Martin è un bel cognome.»
            «Un cognome come un altro.»
            «I cognomi fanno la differenza. E anche i nomi.»
            «Io non so il tuo cognome.»
            «Non importa, il mio cognome.»
            «Sei indisponente, Lèo.»
            «Uh, che paroloni!»
            «Dico sul serio: vaffanculo.»
            «Dovresti cominciare a pulire il tuo linguaggio, grand’uomo. Ormai hai una certa età.»
            Hugo si alzò in piedi. Era scalzo. Fece qualche passo verso Lèo ma pestò i trucioli di matita. Si fermò. Indietreggiò, tremante, si sedette sul letto di nuovo. Guardava le piante dei propri piedi alle quali erano appiccicate quelle spirali di legno e grafite. Cominciò a spazzarle via furiosamente, il respiro corto, continuò fin quando tutti i piedi diventarono rossi.
            Lèo non si era minimamente scomposto. «Volevi dirmi qualcosa?»       
            «Fottiti.»
            «No, dico sul serio. Che volevi dirmi?»
            «Ti credi tanto migliore di me, vero?» urlò Hugo. «Ti senti questo gran pezzo di persona, ma sei solo una testa di cazzo. In prigione ci sei finito anche tu, quindi smettila di dire queste puttanate.»
            «Perché non me lo vieni a dire qui in faccia?» Lèo scese dal letto con un salto, pestando a sua volta i trucioli. «Forza, Hugo.»
            «Non posso scendere.» Hugo si rannicchiò contro la parete.
            Lèo rise. «E sarei io il pezzo di merda.»
            «Vaffanculo, Lèo.»
            «A te, mio vecchio amico.»
            Hugo lo osservò torvo, mentre l’uomo risaliva sul materasso con la stessa agilità con cui ne era sceso. Si cinse le gambe con le braccia e cercò un po’ di conforto nel proprio calore.
            «Noi due non siamo amici.»
            «Ah no?»
            «No.»
            «Però siamo sempre insieme. Da quanto ci conosciamo, Hugo?»
            Hugo non avrebbe saputo dirlo. «Tanto. Troppo.»
            «Ecco. Non puoi non essere amico mio.»
            «Non sei amico mio. Tu sei come Xavier.»
            «Non ti ucciderò nel sonno, Hugo, non temere. Non ti violenterò. E non ti porterò via Anaïs. Io non la conosco. Non mi piace, ma non la conosco. Credimi quando ti dico che siamo amici.»
            «Non posso essere amico di un maiale stronzo come te.»
            «Invece lo sei. Io c’ero quando hai sposato Marion, c’ero quando hai incontrato Xavier, e quando è spuntata Anaïs con quel bambinetto. Abbiamo passato tante cose insieme.»
            «Ho sposato Marion a vent’anni.»
            «E quindi?»
            «Quindi tu avevi sette anni all’epoca.»
            «Credi che non ci fossi, Hugo?»
            Hugo stette in silenzio per un attimo. Non ricordava Lèo al suo matrimonio. Non ricordava molti dettagli, a dirla tutta, c’era solo Marion nel suo vestito dalle pieghe infinite e bianchissime. Bella come poche persone al mondo, più bella di Anaïs sicuramente. Ma Lèo dov’era? Sì, probabilmente c’era Lèo. Da solo, vicino a lui, in un posto all’ombra ma a pochi passi dal sole. Lèo c’era.
            Hugo ebbe un tremito alle spalle, gli parse di udire il miagolio di un gatto. Si prese la testa, spalancò gli occhi. Attese un momento. No, sembrava di no.
            «Ci sono gatti qui?»
            «No, Hugo, non possiamo avere gatti.»
            «Mi pareva di averlo sentito.»
            Lèo alzò le spalle. «È la prima volta?»
            «Che sento un gatto?»
            «Sì.» 
            «No, non è la prima volta. Ti piacciono i gatti?»
            «A te piacciono?»
            «No, li detesto. Sono animali terribili.»
            «E allora neanche a me piacciono.»
            «Non siamo la stessa persona, Lèo.»
            «Chi lo dice? Non possiamo avere qualcosa in comune? Siamo amici, no?»
            «Le persone non diventano amiche perché odiano i gatti.»
            «Ma potrebbero, se odiassero i gatti insieme.»
            Un altro miagolio. Hugo rantolò, infilando la testa sotto il cuscino. Al solo pensiero di una sagoma di un gatto, aveva brividi di freddo e spasmi. Odiava, odiava, odiava quei sacchi di pulci dagli occhi troppo grandi. Erano terrificanti.
            «Togli la testa da lì, prima che ripassi la guardia. Penserà che ti stai uccidendo.»
            «Non voglio.»
            «Forza, Hugo.»
            «No.»
            Lèo gli tirò il temperino, colpendogli il gomito. Hugo si ritrasse di scatto, appiattendosi contro il muro, togliendo tuttavia la testa da sotto il cuscino.
            «Non voglio neanche uccidermi.»
            «Se non l’hai fatto quando è morta Marion, non vedo perché farlo ora.»
            «Ma non posso più stare qui. Mi manca la luce del sole, Lèo. Anche se qui ne abbiamo a sufficienza. Mi mancano i supermercati e il traffico e le gite in campagna la domenica.»
            «Tuo fratello potrebbe portartici, appena esci.»
            «Mio fratello non viene da un mese.»
            «Magari al posto di Anaïs verrà lui.»
            «Non voglio che qualcuno venga al suo posto.»
            «Se lei fosse qui, adesso, te la scoperesti?»
            Hugo portò istintivamente la mano al cavallo dei pantaloni elasticizzati. Nessuna reazione dal suo sistema circolatorio. «Vorrei farlo. Mi manca. Vorrei scopare Anaïs con la stessa felicità con cui scopavo Marion. Sembrava volessimo fare quanti più figli possibili e invece non ne è venuto fuori nemmeno uno.»
            «Magari con Anaïs sarà diverso.»
            «Se uscirò, vorrei che diventasse mia moglie.»
            «E se Xavier tornasse?»
            «Lo ucciderei.»
            «Finiresti di nuovo in prigione.»
            «Ma Xavier ha ucciso Marion. Xavier ha ucciso Marion» ripetè Hugo.
            Dalla finestra, qualche uccellino si cimentò in un canto breve, prima di tornare a volare nel cielo. Diversi metri più sotto, un giardino fiorito mostrava le proprie bellezze di fine inverno. Le fronde germogliate erano appena visibili dalla finestra. Hugo le guardava con la coda dell’occhio.
            «Tu hai ucciso Marion.»
            Hugo si voltò lentamente verso Lèo. Sembrava pensoso, assorto. Guardava il pavimento come se contenesse le risposte ai grandi dilemmi del genere umano.
            «Come hai detto?»
            «È molto semplice, Hugo. Tu hai ucciso Marion. Xavier non è esiste. Xavier è morto nel momento stesso in cui Marion è morta. Sei tu che l’hai assassinata però ancora non lo sai.»
            «Che cazzo stai dicendo, Lèo?»
            Hugo si alzò di scatto, afferrò una gamba di Lèo e lo fece cadere sul pavimento. Lèo non reagì. Hugo lo picchiò forte, lo picchiò a sangue. La sua pelle era fredda e dura come il pavimento sotto di lui.
            «Io non ho ucciso Marion, io non ho ucciso Marion!»
            Lèo rideva sguaiatamente, il labbro inferiore spaccato. «Stai diventando pazzo, Hugo, completamente pazzo!»
            Hugo si alzò, stagliandosi sopra di lui come un titano. Urlò, urlò a lungo, ruggì dal profondo del cuore, sputò i polmoni in quel grido diabolico. Non era vero non era vero non era vero non era vero
            Non era così Marion non era così vero Marion perdonami Marion
            E Anaïs Anaïs Anaïs lei lo sapeva certo che lo sapeva sapeva che Marion l’aveva amata e Xavier e quegli errori e Lèo non se ne sarebbe andato e Lucas mandalo via non mi piace Lucas che bambino strano non mi piace no portalo via Anaïs ti prego portalo via
            Anaïs quanto ci metti a venire è tardi ti prego Anaïs vieni vieni sopra di me e facciamo l’amore mi manchi voglio strapparti quel nastro blu dai capelli con i denti e morderti e baciarti Anaïs portami via io non ti conosco ma portami via
            Anaïs quanti anni hai picchia Lèo per me lo sai fare lui mente non sa non sa niente non sa come sono dice che è amico mio ma non è vero sei forte Anaïs sei la donna più forte che io conosca Anaïs Anaïs Anaïs non Ana non Anita il tuo nome è Anaïs ed è perfetto ma vieni qui che non resisto più
            Dal cielo o dall’inferno cosa importa Baudelaire Anaïs che mi importa vieni vieni vieni vieni senza di te non funziona nulla qua soffoco qua muoio qua non ce la faccio tu la sai la verità Anaïs e mi ami perché sai che io Marion non l’ho uccisa mi ami per questo vero mi ami per questo e perché anche io ti amo Marion ti amo e ti sposerò Marion Marion Marion Anaïs
 
 
*
 
 
            «Martin. Martin, mi senti?»
            Il dottor Leclair aveva degli occhiali dorati e un camice bianco. Era un uomo rispettabile, era un uomo strano.
            Hugo aprì gli occhi lentamente. Lentamente. Li aprì di colpo. La bocca era asciutta. Al braccio destro era attaccata una flebo di una sostanza trasparente che precipitava velocemente.
            «Hai avuto una crisi, Martin, ora va meglio?»
            Hugo annuì, lentamente. Aveva un leggero senso di nausea, la testa pesante, le membra intorpidite.

            «Come ti chiami?»
            «Dottore, lei…»
            «Come ti chiami?» ripeté il dottore.
            «Hugo Martin.»
            «Quando sei nato?»
            «Quattordici luglio 1960.»
            «Come si chiama tuo fratello?»
            «Bastien Martin.»
            «Bene.» Il dottore si raddrizzò. Hugo non aveva nemmeno notato che era piegato verso di lui. La stanza dove si trovavano era quella della terapia psichiatrica. Hugo ricordò. Ricordò di aver picchiato Lèo. Ma non poteva stare là, Anaïs stava per arrivare da un momento all’altro, forse avrebbe portato Lucas con sé. Doveva stringere un qualche legame con quel ragazzino, sentiva di doverlo ad Anaïs. Ma quella nebbia confusa davanti agli occhi, perché non voleva andarsene via?
            «Dottore…» Hugo si umettò le labbra. Si sentiva sul punto di svenire. «Dottore, ho un appuntamento tra poco. Anaïs verrà qui, è l’orario delle visite.»
            «Chi è Anaïs?» chiese il dottore.
            Hugo scosse la testa. Non avrebbe saputo spiegarlo, non aveva voglia di raccontare come fosse apparsa per salvarlo dalla solitudine e dalla disperazione di una condanna per omicidio.
            Il dottore, vedendo la sua riluttanza, fece un cenno con la mano come per lasciar perdere. Prese una sedia, si posizionò davanti a lui e sorrise dolcemente.
            «Anaïs ti è mai venuto a trovare, Hugo?»
            «Non nella sala visite. Qualche volta era di fronte alla mia cella. Qualche volta è entrata.»
            «Ma non si può entrare nella tua cella, Hugo. È la cella di isolamento. E non ci sono donne nel personale di quella parte del carcere.»
            La voce del dottore era così calma e melodiosa che Hugo si sentiva pronto per addormentarsi. Non sognava da tantissimo tempo. Non dormiva tranquillamente da ancora più tempo.
            «Volevo chiacchierare un po’, se te la senti.»
            Hugo annuì.
            «Mi hai parlato di diverse persone negli ultimi mesi. Lèo, Anaïs, Lucas, Marion e anche un certo Xavier. Ho parlato con tuo fratello. Sembra che tu non conosca nessuno con questi nomi.»
            «Mio fratello non sa niente…» mormorò flebilmente Hugo.
            «Hai vissuto con tuo fratello per tutta la vita, Hugo. Non ricordi?»
            Hugo strinse le labbra, cercando di ricordare. «No, non è vero. Ho sposato Marion. Ho sposato Marion a vent’anni.»
            «Hugo.» Il dottore inspirò a lungo. «Hai sempre vissuto con tuo fratello Bastien. Abbiamo i documenti che lo riportano, i tuoi moduli per l’invalidità mentale. L’anno scorso…» Il dottore sembro esitare. Si schiarì la voce. «Hai violentato e ucciso una donna, Emma Richard. Te lo ricordi?»
            Hugo sentì i suoi muscoli contrarsi, per quanto quella sostanza che scorreva nelle sue vene glielo permettesse. «No. Xavier ha ucciso Marion. Ero sposato con Marion. Marion Perrot.»
            «Abbiamo controllato, Hugo.» Il dottore sorrise un po’ di meno. Con la coda dell’occhio, Hugo lo vide aumentare la velocità di somministrazione della flebo. «Non sei mai stato sposato. Non hai mai conosciuto Marion Perrot.»
            «È una bugia…» sussurrò Hugo. Perché voleva dormire? Non doveva dormire. Certo che aveva sposato Marion. L’amava. L’amava tantissimo, avevano una famiglia, insieme.
            Il dottore non rispose. Sembrava confuso. Hugo lo era altrettanto. «Questa Anaïs di cui parli, chi è? L’hai nominata solo di recente, chi è?»
            «Esistono. Tutti loro esistono. Lèo è in cella con me. Lèo è vero.»
            «Chi è Anaïs?» ripeté il dottore.
            «Anaïs ha un nastro blu tra i capelli.»
            Il dottore cercò di estrapolare qualche frase sensata dai suoi discorsi sconclusionati. Hugo non riusciva a smettere di ripetere il nome di Anaïs. Il suo nastro blu era vividissimo nella sua memoria. Si confondeva tra i lunghi capelli lisci e neri. Anaïs esisteva. Amava il blu. Le stava così bene.
            Anaïs.
            Mentre perdeva conoscenza, poteva vedere il suo sorriso, le sue mani grandi, il suo seno abbondante. Anaïs era la verità assoluta, lei esisteva.
            Anaïs.
            Anaïs.
            Anaïs.
 
 
*
 
 
            «Signora Martin, è tardi per gli amici immaginari. Io credo che Hugo abbia bisogno di parlare con qualcuno. Non vorrei allarmarla ma può capitare che i bambini, talvolta, necessitino di un aiuto di tipo… psichiatrico. Non è così poco comune come si potrebbe pensare, a dir la verità questo genere di… cose, passa spesso inosservato, soprattutto nei pazienti più giovani. Però, insomma, è evidente che qualcosa non va. Probabilmente l’ha notato anche lei.»
            Anaïs Martin si voltò verso suo figlio. Il suo bambino guardava in aria, agitava le mani, parlava con qualche invisibile presenza davanti a lui. Sussurrava così piano, ma sua madre l’aveva tenuto in grembo per nove mesi, l’aveva cresciuto: avrebbe sentito i suoi sussurri rimbombare come campane fino all’altro lato del mondo. Chiamava qualcuno. Chiamava Lèo. Hugo non conosceva nessun Lèo.
            «Capisco, signorina» rispose Anaïs, ricacciando indietro le lacrime. «Ha picchiato spesso i suoi compagni?»
            «Non spesso, però è successo. Fino alla settimana scorsa. Io non voglio emarginare suo figlio per questo, non credo ci sia bisogno di un insegnante speciale, almeno fino ad adesso. Però è innegabile che se le cose stessero così, necessiterebbe un aiuto in più. È un bambino molto intelligente, ma questi… momenti di perdizione, chiamiamoli così, sono più frequenti di quelli di lucidità. A casa non ha notato niente?»
            La madre e l’insegnante si guardarono per un secondo. Anaïs si vergognava profondamente. Come non farlo: il padre dei suoi figli se ne era andato ormai da tempo, e il suo figlio minore aveva reclamato –fino a quel momento– molte più attenzioni del maggiore.
            Cosa fare con Hugo? E Bastien? Cosa significava tutto quel discorso? Psichiatri, analisi, diagnosi, pillole. Quella era la pazzia, allora? Era entrata nel corpo di suo figlio come una mosca entra dentro una casa? Le mosche sembrano ignorare la finestra dalla quale sono entrate.
            Hugo. Hugo. Hugo.
            Piccolo, dolce, grande Hugo.
            Anaïs si legò i capelli con un nastro blu. Non era una bella donna: i suoi capelli erano l’unico vanto. Curarli era  per lei un momento di raccoglimento. Strinse il nodo molto lentamente. Non sentiva il bisogno di rispondere alla domanda dell’insegnante.
            «La ringrazio, signorina.»
            Anaïs si alzò, si diresse verso suo figlio e lo guardò a lungo. Hugo continuava a sussurrare parole incomprensibili a bassa voce.
            «Vieni, Hugo» sussurrò lei. «È ora di andare a casa.»
            «Andiamo a casa?» chiese Hugo.
            «Sì, amore mio.»
            Hugo rise. Gli occhi brillarono, avvamparono. Sussurrò qualche parola all’aria, coprendosi la bocca con una mano, poi prese la cartella e strinse la mano di sua madre.
            Anaïs e Hugo uscirono dalla classe sotto lo sguardo triste della maestra.
            Era un pomeriggio di fine inverno.








 
A/N: Nota tecnica in arrivo. Dunque, dovrei precisare due o tre cose.
1) Questa storia non era prevista per Blu. Avevo pensato di scrivere qualcosa sulla malattia mentale ma non pensavo di fare una one-shot di Primari a riguardo. Si è infilata con prepotenza e io ho lasciato fare -al mio solito-. Per di più, volevo scrivere una storia che avesse come elemento centrale il dialogo, quindi possiamo considerarla anche un esperimento stilistico.
2) Nonostante potessi documentari molto di più sulla patologia di Hugo (che si potrebbe definire, penso, disturbo dissociativo di personalità o schizofrenia, non ne sono sicura), ho deciso di mantenermi più libera e lasciare che la storia fluisse. Volevo fosse verosimile, ma non estremamente accurata, spero che questo non disturbi nessuno. Se qualcuno se lo stesse chiedendo, ho più o meno cercato di dare un senso alle personalità di Hugo. Lèo è il primissimo sintomo della malattia, Anaïs la trasposizione di sua madre, Marion la donna che ha ucciso, Xavier la sua parte omicida, Lucas il bambino che non era mai stato. Non immagino quanto possa risultare scientificamente scorretto tutto ciò, ma immagino molto *mea culpa*.
Non si tratta della stessa tipologia di Rosso, anzi, non potrebbe esserne più lontana. Chi leggerà, vedrà anche con Giallo. Spero vi sia piaciuta, grazie per essere arrivati fin qui :) 
A presto <3

Ps: se qualcuno volesse trovarmi su FB, sempre a disposizione: here!
   
 
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