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Autore: Turo    04/11/2013    1 recensioni
Voglio dire, non è che fossi una di quelle che piangeva tutti i giorni la morte dei propri genitori, specialmente se erano passati parecchi anni. Ma , in fondo, meglio così, no? Seduta qua, avvolta in una felpa di pile del mio fratello non biologico, con i capelli raccolti in una crocchia spettinata, ci sono io. E sono viva.
Orfana, ma viva. Sana , magari non mentalmente, con una casa, con delle fantastiche persone che mi fanno da genitori e , purtroppo, con un’iscrizione ancora incompleta ad una delle scuole più prestigiose di Londra, la Bloomsbury.
“Ancora non capisco cosa ci vada a fare una persona come te in quella scuola” fu il commento acido di Zayn quando, rassegnata, appoggiai la testa sui palmi delle mani.
“E’ bello poter contare sul tuo supporto morale, Zayn” risposi io osservando il moro che si muoveva in cucina davanti a me.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi alzai stranamente in orario e- ancora più stranamente, di buon’umore. Spostai le coperte pigramente, avvertendo la temperatura di una delle classiche mattinate Londinesi infreddolirmi le ossa. Costrinsi i miei piedi a muoversi, appoggiandosi sul pavimento della mia camera. Feci leva sulle braccia per alzarmi in piedi, abbandonando così il mio fantastico letto. Mi stiracchiai la schiena, osservando sullo schermo della sveglia quanto tempo avevo per prepararmi: tre quarti d’ora. Perfetto. Sospirai, ancora mezza intontita dal sonno, per poi avviarmi verso l’armadio di legno scuro in fondo alla camera. Aprendolo, diedi inizio alla fase “cosa mi metto oggi?” facendo saettare il mio sguardo su ogni capo d’abbigliamento presente in quel casino che era il mio guardaroba. Gonna? Assolutamente no. Se c’erano  delle cose che odiavo più dei funghi porcini, quelle erano le gonne. Ma allora perché ne ho ben quattro nell’armadio? Sospirai, passando ai pantaloni.
Grigi, neri, bianchi. Ma dei jeans normali no? Cominciai a tirare fuori ogni cosa mi capitasse sottomano: maglioni, canottiere, calze, magliette, fino a trovare un paio di jeans mezzi sgualciti, schiacciati in fondo al cassetto. Li portai davanti agli occhi, osservando le pieghe calcare il tessuto scuro. “Pazienza” dissi scrollando le spalle e lanciandoli sul letto sfatto. Procedetti alla selezione della parte superiore, trovandomi nuovamente in crisi.
“Questa l’ho messa e rimessa” dissi prendendo una semplice maglietta verdone.
Il bussare alla porta  mi fece distrarre  dalle maglie per un attimo, facendomi girare verso Harry, che si stava richiudendo questa alle spalle. Feci una smorfia, tornando a concentrarmi sul mio abbigliamento. Osservai con la coda dell’occhio il riccio che si sedeva sul mio letto, guardandomi in modo divertito.
“Quella è carina” disse facendo riferimento alla maglia che avevo appena tirato fuori dal cassettone, e che stavo fissando interrogativa.
“Dici davvero? E’ verde fluo. Non voglio sembrare un semaforo” lo avvertii, rimettendola a posto.
“Non vuoi dare troppo nell’occhio, eh?” chiese lui. Io annuii svogliatamente, cercando di fare intendere a Harry di non immischiarsi “Allora quella direi che non va bene” proseguì indicando la maglietta con lo scollo a V che stavo esaminando.
“Perché?” chiesi girandomi in sua direzione, incontrando il suo sguardo.
“E’ troppo scollata” rispose semplicemente, girando il viso verso la finestra che dava sul giardino. “Sai com’è, potrebbe cadere l’occhio” sghignazzò lievemente.
“Hai ragione” sbuffai, rassegnata “Non so cosa scegliere. Possibile che non abbia niente da indossare?” mi lamentai.
“Ma se hai l’armadio pieno!” ribatté lui.
“Sembri una madre, Harry” lo rimproverai cercando ancora tra le maglie “Mi puoi lasciare stare?” chiesi.
“Scusa, cercavo di essere utile” sospirò lui alzandosi dal letto e dirigendosi verso la porta, afferrando con forza la maniglia.
“Aspetta!” lo richiamai, scattando in piedi e correndogli incontro “Hai ragione, scusa. Sono solo un po’ nervosa, tutto qua” sorrisi debolmente. “Ho paura di cosa possa pensare la gente di me”
“Da quando ti interessa?” domandò lui, arrabbiato.
“Dovrò pur farmi degli amici, no? Non ho solo voi cinque. Poi Louis mi ha promesso che questa è l’ultima scuola che cambio e , visto che dovrò passarci due anni, mi conviene trovare qualcuno. Quindi devo fare una bella impressione.” Spiegai facendomi catturare lo sguardo da una maglietta blu mare stesa sul letto che evidentemente non avevo visto.
“La verità è che tu ti vergogni di noi, quindi non vedi l’ora di scaricarci per i tuoi nuovi amici” sibilò velenoso,  additandomi. Lo guardai sbalordita mentre usciva dalla stanza, facendo sbattere la porta.
Ma era ubriaco? In quel momento non sapevo né cosa dire né cosa fare, riuscivo solo a stare immobile dove Harry mi aveva lasciata, assaporando piano piano quelle parole.
“Ti vergogni di noi”. Che gran stronzata. Non ci avevo mai nemmeno pensato ad una roba del genere, mentre avevo fatto capire ad Harry che quella fosse la realtà. Sbuffai, rassegnandomi all’idea che con Harry non ci avrei parlato per qualche ora- anche a causa della scuola, e mi avviai in bagno.
*
Entrai nel grande edificio che era la Bloomsbury, zigzagando tra i ragazzi di prima che si preoccupavano che tutto andasse bene almeno il primo giorno, coppiette che si staccavano la lingua a vicenda, amiche che non si vedevano da mesi e si raccontavano ogni dettaglio, fumatori incalliti, professori con pezze enormi sotto alle ascelle già alle otto e mezza di mattina, e persone come me, senza sapere cosa fare esattamente. Mi guardai intorno, alla ricerca della segreteria, ma il mare di studenti che inondava il corridoio non me lo permetteva. Mi feci strada, tirando – e facendomi tirare, qualche gomitata a causa della fretta.
Ma tutta questa voglia di entrare in classe da dove la tiravano fuori?
Per poco non inciampai sul trolley di uno che aveva avuto la fantastica idea di piantarsi in mezzo al corridoio per legarsi le scarpe. Tirai un sospiro di sollievo quando, dietro a due ragazze prese a scambiarsi opinioni sul nuovo servizio fotografico di Zac Efron, scorsi finalmente la scritta “segreteria”.
“Buongiorno” dissi in direzione della vecchia signora che si trovava dietro al bancone. Lei alzò lo sguardo dal suo computer malmesso, e mi vide. Mi squadrò da capo a piedi da dietro le sue lenti spesse, in rigoroso silenzio.
Mi fece cenno di avvicinarmi velocemente, evidentemente già scocciata dall’idea di dover stare la dietro un anno intero e di dover sopportare migliaia di studenti che, come me, erano nuovi. “Tu sei?” chiese rivolgendomi poca attenzione.
“Arielle Murray” risposi semplicemente osservandomi la punta delle scarpe. Avrei dovuto lavarle da tempo, ma così davano un’aria più vissuta. Osservai la donna picchiettare qualche tasto al computer con la leggerezza di un elefante africano, per poi concentrarsi su di me. “D’accordo Arielle, hai l’iscrizione?”.
“Oh certo” sorrisi gentilmente io aprendo la zip dello zaino e cercando velocemente il foglio. Come buon proposito per l’anno nuovo sarei dovuta diventare più ordinata. E responsabile. Non che non lo fossi già, ma un tantino di più sarebbe comunque servito in casi come questo.  Nel mio zaino c’erano solo un quaderno, il portapenne e il diario, quindi i posti dove potevo averlo imboscato non erano molti.
“Ah!” esclamai “L’ho trovato” presi il foglio di carta e lo porsi alla signora, che lo esaminò accuratamente.
“La firma c’è.. ok. Bene, questo è il tuo orario.” Disse lei consegnandomi un foglio e una chiave “E quella ti serve per l’armadietto. Numero 718” concluse poi tornando al computer.
“D’accordo. Grazie mille!” tentai io, sfoderando uno dei miei migliori sorrisi – per quanto migliori potessero essere definiti. Lei non mi si filò di striscio, così infilai lo zaino su entrambe le spalle e andai a cercare la mia prima classe. Ovviamente ero in ritardo.
Ci misi dieci minuti buoni prima di trovare la mia classe a causa della grandezza dell’edificio. Arrivata di fronte alla porta, bussai timidamente e attesi una risposta.
“Si?” chiese una voce dall’interno. Calma. E’ solamente una nuova classe, come ogni anno. Fregatene di ciò che possono pensare gli altri di te, e concentrati nel camminare. Già, quando ero nervosa tendevo ad inciampare sui miei stessi piedi, sembrando subito una ragazza goffa. Cosa che non ero. O almeno, non del tutto.
“Salve” dissi fermandomi sull’uscio della porta, costringendo il mio sguardo sulla professoressa seduta sulla cattedra con le gambe che penzolavano. “Sono Arielle. Arielle Murray” ripetei.
“Oh Arielle!” l’espressione della donna cambiò di colpo, facendo spuntare un sorriso accogliente sul suo volto “Finalmente sei arrivata!” cinguettò scendendo dal tavolo piuttosto agilmente e venendomi incontro “Stavo giusto spiegando il programma di quest’anno. Ti va di accomodarti li al primo banco?”
“Certo” biascicai mantenendo la testa bassa per l’imbarazzo, puntando al mio posto. Voglio dire, il primo banco? Ma stiamo forse scherzando? In tutta la mia carriera scolastica non ero mai stata più avanti del terzo banco, e ora mi ritrovavo addirittura al primo.
Mi abbandonai sulla sedia, appoggiando lo zaino ai piedi del tavolo in modo che non cadesse. Cosa dovrebbe succedere in queste occasioni? E’ semplice: dovrei girarmi verso il mio compagno di banco, che puntualmente dovrebbe essere un figo assurdo, e cercare un modo di farci amicizia o di farmi notare. Oppure, nel più comune dei casi – sogni impossibili parlando- lui dovrebbe presentarsi a me, innamorandosi sul momento della nuova arrivata. Povera. Piccola e innocente. Bene, nel mio caso da sfigata cronica, non può andare così.
Mi girai timidamente verso il ragazzo al mio fianco, facendo scoppiare in un attimo il palloncino di sogni e film mentali che mi ero puntualmente gonfiata  e trovandomi un occhialuto. Fantastico.
Lo osservai meglio con la coda dell’occhio e notai che, l’unica cosa carina in quel ragazzo, erano gli occhi azzurri che saettavano sul foglio già pieno di appunti nero su bianco. Insomma, uno sfigato.
Sospirai sperando che il mio stereotipo di compagno di banco figo entrasse da un momento all’altro in classe, prendesse il secchione di fianco a me con le sue braccia forzute e lo spostasse più lontano possibile da me. Concludendo tutta la scenetta con un bel sorriso ammiccante.
Guardai la porta, poi il mio compagno. Ancora la porta. Compagno. Porta. Mi venne l’impulso di sbattere forte la testa contro il banco, ma non potevo subito farmi etichettare come una malata di mente. Non il primo giorno. Passai l’ora a guardare le lettere scritte in perfetta calligrafia che uscivano dalla penna del mio compagno, formando frasi su qualche argomento scientifico a me sconosciuto.
*
Fu il suono della campanella a salvarmi dall’abbiocco improvviso. Dopo l’ora di scienze era seguita quella di storia, durante la quale mi ero messa  a pasticciare sul quaderno degli appunti sperando di non farmi beccare dal professore. Mi alzai pigramente dal banco, raccogliendo lo zaino da terra e appoggiandolo sul banco per sistemare le cose al suo interno.  Il mio compagno si alzò e si avviò verso la porta, lasciandomi praticamente sola in classe. Mentre infilavo la biro blu nel portapenne avvertii un tonfo alle mie spalle, seguito dal rumore di fogli volanti. Mi girai incuriosita, trovando il mio compagno a terra, ricoperto di fogli a quadretti mezzi scritti e mezzi no. Vidi tutti i restanti studenti allontanarsi da lui come se non fosse successo nulla e come se lui fosse invisibile, passando addirittura con i piedi sopra i suoi appunti. Mi avvicinai a lui titubante, cercando qualcosa da dire.
“Va tutto bene?” chiesi cercando di non sembrare troppo invasiva.
Lui si alzò da terra, pulendosi i pantaloni con le mani e aggiustandosi gli occhiali sul naso. Mi guardò e mi sorrise gentile “Si, grazie mille” disse poi chinandosi nuovamente per raccogliere i fogli. Avanti Ari, non stare ferma a guardare.
Istintivamente mi piegai sulle ginocchia e iniziai a prendere qualche foglio sparso qua e là, per poi passarlo al ragazzo al mio fianco, che ringraziava ogni volta.  Cinque minuti dopo, tutti i fogli erano nel raccoglitore e io ero in piedi, non sapendo se fosse meglio andarsene o restare per vedere se aveva ancora bisogno.
“Comunque io sono Cody” sorrise tendendomi la mano “Cody  Wilkinson”
Gliela strinsi frettolosamente, presentandomi a mia volta. “Bene, sarà meglio che io vada o farò tardi a casa. Ciao Cody” sorrisi debolmente, salutandolo con la mano.
“Ciao Arielle e buona giornata” ricambiò lui, ma io ero già uscita dalla classe.
“Dio benedica le giornate di due ore durante i primi giorni di scuola” pensai mentre mi avviavo verso il portone della Bloomsbury.
Chiusi la zip della felpa non appena avvertii il fresco esterno, totalmente diverso dal caldo accogliente che c’era dentro scuola. Sospirai osservando il cielo, constatando che di li a poco si sarebbe messo a piovere. Ma una giornata di sole no eh? Non sapevo esattamente in quanto sarebbe iniziato il diluvio universale, ma sicuramente dovevo muovermi. Passai tra un sacco di studenti presi a chiacchierare nel cortile della scuola prima di arrivare al grande cancello in ferro battuto sul quale era inciso il nome della scuola. Sorpassato, girai a sinistra, imponendo alle mie gambe di muoversi o mi sarei bagnata. 


Angolo scrittrice.
Vorrei ringraziare tutti quelli che seguono la storia, chi la recensisce e i lettori silenziosi!
Spero vi sia piaciuto, un bacio.
@brunostalent
  
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