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Autore: FlyingBird_3    06/11/2013    3 recensioni
Emilia Romagna, Agosto del 1944
Il generale Badoglio ha firmato l'armistizio con gli Alleati, lasciando però i soldati italiani senza un ordine preciso su come comportarsi con l’esercito tedesco.
Maria De Felice è una ragazza di 23 anni, italiana, nata in una famiglia di alta borghesia. Ha potuto studiare con insegnanti privati, ed il suo sogno è quello di seguire il padre nei suoi viaggi attraverso l'Europa.
Friedrich Schuster, ufficiale delle SS a 30 anni, onorato di molte medaglie al valore per le sue imprese di guerra, guida le truppe tedesche all'occupazione dell'Italia settentrionale.
Le loro storie si intrecceranno, sullo sfondo della seconda guerra mondiale, cambiando radicalmente le loro vite...
Genere: Guerra, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali, Dopoguerra
Capitoli:
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Da quel giorno in poi ogni volta che poteva, il comandante saliva nel sottotetto a farmi compagnia; mi chiedeva di parlargli della mia vita, di qualsiasi cosa avessi fatto prima dello scoppio della guerra.
Io gli parlai di come, da aristocratica bambina del centro città, ero diventata una signorina contadinella dei campi; di quanto avrei voluto viaggiare con mio padre e vedere posti nuovi; della decisione di ritirarmi in convento, fino all’arrivo delle sue truppe in città.
Gli raccontai delle prove che con Elena facevamo per testare i suoi futuri mariti: mille Lire fatte cadere per terra, falsi ritrovamenti di capelli chiari sulle loro giacche (che poi in realtà erano crini di cavallo), o le lunghe attese per farli aspettare.
Lui era sempre distaccato, rimaneva sulle sue; tuttavia quando raccontavo qualcosa di divertente, vedevo un piccolo sorriso aprirsi sulle sue labbra, e illuminargli gli occhi stanchi ma sempre attenti a tutto.
Passavo tutto il giorno nella speranza che arrivasse la notte; mi piaceva rimanere là con lui, mi faceva sentire come a casa. Finalmente avevo qualcuno con cui parlare, con cui condividere i miei pensieri.
Mi chiese anche se avevo ancora paura quando sentivo la sirena annunciare l’arrivo delle bombe; io gli dissi di si, ma un po’ meno. Non gli dissi che sentivo sempre un terrore indescrivibile e le uniche volte in cui si attenuava, erano quelle in cui lui era nella stessa stanza con me.
Più volte mi aveva rassicurata che non mi avrebbe fatto niente, e a differenza dei suoi compagni, non avevo paura di lui.
Il suo viso e la sua voce ormai mi erano diventati familiari; ogni volta che mi venivano a prendere per aiutarli con le traduzioni, e lui non era di sotto, sentivo la solita angoscia torcermi lo stomaco.
Quando poi riconoscevo la sua alta e imponente figura, un senso di sollievo mi scaldava il cuore, e mi sentivo subito più al sicuro.
Passarono circa un paio di settimane, ed alla fine dell’ultima lui mi annunciò che saremo partiti per Cuneo di lì a poco.
“Stavolta però non ci saranno tutti i soldati che ci hanno accompagnati fino a qui, rimarrà solo la mia squadra. Dobbiamo muoverci in fretta, è possibile che ci fermeremo lungo il tragitto. Gli americani non si lascerebbero scappare un’occasione del genere.”
Era seduto come al solito sulla sedia, fumando una sigaretta; il suo sguardo indecifrabile era fisso sui suoi stivali neri lucidi.
Io lo osservavo, e lo trovai affascinante quella sera. Non avrei dovuto pensare a cose del genere sui responsabili della morte della mia famiglia, ma capisco solo ora il ragionamento che era scattato in me: lui non ne era stato il responsabile.
Vidi l’ufficiale Hoffmann dare l’ordine di ammazzare mia sorella e poi lo vidi sparare a mia mamma; vidi i soldati con l’elmetto dare fuoco alla fattoria, e fare chissà cosa ai bambini e alla zia. Ma lui non fece niente, anzi, mi salvò da una pallottola diretta in testa.
Non lo vidi mai fare nulla di brutto; mi aveva salvata e mi aveva curata, portandomi da mangiare e chiedendomi di parlargli di me. Ero solo una ragazzina che aveva bisogno di affetto, di calore, e lo stavo cercando nell’unica persona che avevo vicino in quel momento.
“Sarà meglio ti porti via qualche coperta, potremo fermarci a dormire anche in mezzo al bosco se necessario.” Continuò lui, spostando il suo sguardo su di me.
Io non parlavo, la mia mente era in subbuglio: sarebbe cambiato qualcosa quando saremmo arrivati a Cuneo? E poi cosa sarebbe successo?
“Tutto bene?” mi chiese, probabilmente notando la mia silenziosità.
“Si… sono solo nervosa per il viaggio”
Lui fece un leggero segno di assenso con la testa, incrociando le braccia.
Un rumore leggero ruppe il silenzio; qualcosa di scuro stava rotolando verso di me, e lo fermai con la mano.
Lo guardai e vidi che era un bottone; Schuster avvicinò la sua mano verso di me per riprenderlo.
Io esitai un attimo, poi dissi: “Posso ricucirglielo se vuole”
“Ci riesci anche con questa luce?” mi chiese lui, accennando alla candela.
Io feci di si con la testa, e lui mi disse di aspettare che sarebbe andato a prendere l’ago e del filo.
Io lo aspettavo in piedi vicino alla scrivania dove poggiava la candela.
Tornò quasi subito, risiedendosi e guardando mettermi a lavoro.
Presi l’occorrente, e una volta fatto passare il filo nella cruna dell’ago e averlo legato, mi concentrai sul polso che il comandante mi stava porgendo.
Allungò la mano e gliela presi piano, cercando di toccargliela il meno possibile. La posai sulla scrivania vicino alla candela e mi chinai iniziando a ricucirgli il bottone.
In meno di un minuto avevo già finito, e richiusi il polsino in maniera perfetta.
Posai l’ago col filo sulla scrivania e mi stavo allontanando quando lui mi chiamò ancora: “Aspetta. Si stanno togliendo anche questi due davanti” disse, mostrandomene uno vicino al collo, e un altro al centro del petto.
Lo guardai un po’ titubante, ma lui era già intento a togliersi la camicia.
“Così vai meglio” disse.
NO!” quasi urlai, girando pudicamente il viso dalla parte opposta. Non sentivo più il fruscio dei suoi vestiti, ma non avevo il coraggio di girarmi di nuovo. Ancora quel pizzicore fastidioso mi infuocava il viso, e il battito del mio cuore era accelerato.
“Va bene. Dai vieni a finire” disse dopo un po’.
Mi girai e lo vidi seduto a guardarmi con la sua solita aria fiera; lo sapeva che mi stavo vergognando, eppure la cosa sembrava divertirlo.
Mi avvicinai piano al suo collo e presi il tessuto, iniziando a saldare bene il bottone quasi penzolante.
Dovevo avvicinarmi per vedere nitidamente i buchi del bottone, e soprattutto, per non fargli male quando bucavo il tessuto per far passare il filo di sotto.
Un vago profumo di dopobarba arrivò alle mie narici, e la vicinanza con il suo corpo fece ritornare quel tremolio alle mani che si era attenuato da un paio di settimane.
Strappai il filo con i denti, e guardai il lavoro finito: perfetto. Ora dovevo sistemare l’ultimo.
“Dovrebbe aprire… un po’ la camicia per poter cucire l’altro bottone” dissi, con sguardo basso.
Vidi le sue mani sbottonarsela fino ad arrivare al bottone da sistemare, in mezzo al suo petto.
Al di sotto della camicia portava una maglia bianca, pesante, probabilmente per proteggersi dal freddo di quel novembre.
Mi abbassai un po’ e iniziai a lavorare su quel bottone, sempre più a disagio. Speravo vivamente che non mi guardasse in viso, sennò avrebbe notato il mio forte rossore.
Quando finii, lui a sorpresa mi prese la mano, prendendo l’ago e il filo. Notai un altro anello nelle sue dita, un anello simile a una fede.
Mi girai a guardarlo, ma lui era intento a sistemare le cose dentro un astuccio.
“Comandante… è… è sposato?”
Non mi rispose finché non ebbe finito di sistemare le sue cose. Io intanto andai a sedermi di nuovo sul materasso.
“Si sono sposato”
Non aggiunse altro, e lo vidi accendersi un’altra sigaretta.
“Ha… dei figli?” dissi, un po’ titubante nel chiedergli quelle cose così personali.
Lui espirò forte il fumo e poi, senza guardarmi, disse: “Due”
Sentii come un colpo allo stomaco; il comandante era sposato con due figli. All’improvviso mi sentii triste; non gli chiesi più niente, e lui finì la sua sigaretta in silenzio.
“Il più piccolo credo abbia… un anno. Non mi ricordo nemmeno il nome. Non l’ho mai visto. Franziska mi ha mandato una foto, ma l’ho persa.”
Alzai lo sguardo, e lo vidi che fissava di nuovo gli stivali, coi pugni chiusi dietro alle braccia.
“E…l’altro?”
“Il più grande si chiama Hans, come mio padre. L’avrò visto tre volte se non ricordo male”
Rimasi scioccata da quella rivelazione. Il suo bambino aveva un anno e non l’aveva mai visto? E l’altro? Solo tre volte?
“Gli mancano?” chiesi, cercando il tono più riservato possibile.
Lui sospirò, sfregandosi gli occhi con la mano destra.
“Sono così impegnato col mio lavoro che non ho tempo per pensare a nient’altro”
Il suo tono era distaccato, neutro. Non era freddo, ma neanche amichevole. La cosa mi fece rabbrividire: anche papà fu spesso lontano per lavoro, ma quando eravamo nate, e soprattutto quando avevamo bisogno, lui ci fu sempre.
Come non potevano mancargli i suoi figli? Sangue del suo sangue?
Sono solo dei bambini, esseri così innocenti…
Avrei voluto chiedergli di sua moglie, ma mi sembrava troppo. Gli chiesi così se avesse un bel ricordo del giorno del suo matrimonio.
Lui si mise a ridere, ma non di una risata allegra, ma più secca, acida.
“È passato più di un mese perché si potesse firmare i documenti per attestare che lei fosse ariana. Io ero impegnato in Polonia, e dopo qualche mese sono andato via”
Ero sempre più scioccata: dov’era l’amore che tanto veniva professato? L’uomo che ama la moglie e la famiglia?
Solo in quel momento realizzai che avevo sempre parlato io nei nostri incontri, e lui sapeva ormai quasi tutto di me.
Cosa sapevo io di lui, invece? Oltre che era un comandante ammirato e plurimedagliato, e delle sue numerose esperienze, non sapevo nient’altro. Ora stava parlando di sé, e la cosa iniziava un po’ a spaventarmi; non era l’uomo che credevo fosse. Nascondeva qualcosa dentro.
Avrei voluto chiedergli se mi parlava un po’ di lui, ma i ruoli non si sarebbero potuti scambiare: lui era nettamente chiuso e riservato, io avevo paura a fare un passo in più.
Nonostante i miei ripensamenti, e il lungo silenzio che calò fra noi due, lui parlò per primo.
“Franziska è una brava donna. Non la conoscevo neanche fino ai vent’anni. Una volta arruolatomi nelle SS, trasferitomi stabilmente a Berlino e averla incontrata, lei espresse più volte il desiderio di conoscermi meglio. È bella e paziente, ma nonostante questo non mi è mai importato niente di lei, né di metter su famiglia. Mi concentravo sul lavoro e basta.”
Fece una pausa, poi ricominciò.
“Poi arrivò il momento di andare in Polonia. Avevo passato un periodo a Dachau, e mi fecero passare di grado. Qualche mese prima di partire, i miei superiori mi dissero esplicitamente che sarebbe stato meglio se mi fossi sposato prima di lasciare la Germania.
Dissero che avrei avuto un grande futuro davanti a me, e sarei dovuto essere un simbolo per i giovani tedeschi che guardavano l’esercito del Reich: un giovane soldato ariano, con una moglie e una grande famiglia, che serviva il suo paese con onore.”
Dei brividi mi corsero lungo la schiena mentre mi raccontava la sua storia, ma non avrei mai voluto che smettesse.
“Così la sposai. Credo l’abbia vista una decina di volte dopo il matrimonio, non di più. Sono sempre stato impegnato altrove. Mi spedì un sacco di lettere, ma non ebbi mai il tempo di leggerle. Così un giorno mi arrivò la notizia che aveva partorito. Quel giorno raggiunsi il titolo di Hauptsturmführer, così mi dimenticai completamente del bambino.”
Impedii alla mia bocca di aprirsi sempre di più, e rimasi a fissarlo con gli occhi spalancati: era veramente dedito al suo lavoro. Aveva accettato di sposare una donna solo perché l’innamorarsi di qualcun’altra avrebbe potuto distoglierlo dalla sua carriera?
Lui non disse più niente, così decisi di fargli una domanda.
“E lei… a lei piace quello che fa? È contento?”
Lo sentii sospirare ancora, come se il parlare di quelle cose lo trovasse faticoso.
“Sono fiero del mio lavoro.” Disse, semplicemente.
Non osai chiedergli più niente, e pensavo se ne andasse, dato che erano parecchie ore che era là con me.
Invece inaspettatamente rimase lì, dicendomi: “Cantami ancora quella canzone”
Io sapevo che si riferiva alla prima canzone che mi sentì cantare, quella di Mariù; seduta sul materasso, con le gambe vicino al petto, gliela cantai ancora.
Lui mise un braccio sulla scrivania e appoggiò la fronte sulla mano, come per riflettere. Dopo cinque minuti, sentii il suo respiro più leggero, regolare. Il petto sotto la camicia si alzava e si abbassava più dolcemente.
Mi alzai e gli andai vicino, scoprendo che aveva gli occhi chiusi: si era addormentato.
Lo guardai in viso per un tempo infinito; mentre dormiva sembrava davvero un uomo qualunque. Gli sfiorai piano la guancia, scoprendo una pelle ruvida con un poco di barba.
Mi avvicinai alla candela e con un soffio la spensi; ritornai sul materasso e chiusi gli occhi anch’io.
  
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