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Autore: _Kore    10/11/2013    1 recensioni
[Una storia di Agnes Dayle, Emily Alexandre e Lyra Winter]
Chi non conosce il mito di Persefone? In questa storia, però, non siamo nell'antica Grecia e non si parla nemmeno di Dei. In questo racconto siamo in una New York che attraversa tre epoche diverse: il 1920, il 1969 e il 2013. Persefone, poi, ha tre volti differenti: Maia, la beniamina delle serate alcoliche in barba al Proibizionismo; Merope, l'eterea pupilla estranea al mondo underground degli anni sessanta e Taigete, energica figlia pronta a guidare una grande società.
La loro esistenza, in quell'Olimpo che è stato creato da chi le ha precedute, sembra perfetta, ma basta un nulla perché il gelo dell'inverno faccia breccia in quella perenne estate. In effetti, basta un incontro: lui è Ade, che ha un unico scopo - sedurre Persefone e attrarla nel suo mondo - e tre arti differenti per realizzarlo: la pittura, la scrittura e la recitazione.
Né Ade né Persefone, però, hanno fatto i conti con la maledizione che grava sulla famiglia Core... Una maledizione antica come la famiglia, di cui l'unica traccia sono una collana di diamanti rossi e un diario.
Genere: Erotico, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Storico
Capitoli:
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Atto

2


 

 

 

Agosto 2013

 

 

Una mattina, circa dieci giorni dopo la festa di fidanzamento, Alistair si stava godendo il dormiveglia degli ultimi minuti di sonno, crogiolandosi nel tepore dei raggi che prepotenti filtravano attraverso le tende della camera quando, voltatosi verso il lato del letto nel quale dormiva Tai, lo trovò vuoto.

 

Rotolò sulla schiena e si stropicciò gli occhi, sospirando profondamente: qualcosa in Tai non andava, sebbene lei si ostinasse a liquidare la faccenda con la scusa delle troppe cose da gestire contemporaneamente. “Ed é proprio questo il problema”, si ripeteva giorno dopo giorno osservandola uscire di casa sempre prima il mattino e rientrare ogni giorno più tardi: Tai aveva sempre affrontato prima lo studio, poi il lavoro, con una costanza e un metodo che sfioravano lo stacanovismo, ma mai avrebbe rinunciato a quei piccoli momenti che le servivano a dimenticare, per qualche ora, gli oneri che comportava essere l'erede diretta di un'azienda come la Demeter. Mai avrebbe rinunciato all'ora di corsa a Central Park il mattino prima di andare in ufficio, o a rientrare in tempo per godersi qualche istante di meritato riposo a leggere o guardare un film o semplicemente a gustare un bicchiere di vino insieme a lui o agli amici di una vita. Tutte piccole cose, certo, che però facevano apparire chiaro a chiunque un aspetto fondamentale della personalità della ragazza: sin da quando aveva annunciato che avrebbe studiato Economia all'Università, per subentrare a sua madre in azienda, Tai non si era mai risparmiata dall'assumersi le responsabilità che le spettavano, ma aveva sempre cercato di sottolineare e precisare, con le sue scelte e il suo modo di fare, che la sua vita non erano né la Demeter né tantomeno gli eventi a cui sua madre si sarebbe sempre aspettata che prendesse parte, in quanto giovane debuttante dell'alta società newyorkese. Era per questo che non si era meravigliato e non aveva obiettato quando la fidanzata aveva lasciato che fosse la madre a gestire la loro festa di fidanzamento e le loro nozze regali, per dedicarsi interamente alla sistemazione dell'appartamento in Park Avenue di cui i suoi genitori avevano fatto loro dono per le nozze. Per una vita l'aveva osservata farsi scivolare le usanze di un mondo che le stava stretto addosso, giorno dopo giorno, ancorandosi alle piccole cose che le davano conferma di avere ancora un minimo di controllo sulla sua vita: casa, tempo libero, amici e lui, ovviamente.

 

Dal giorno della festa, invece, Tai si era buttata con frenesia e inusuale zelo nei preparativi del matrimonio, affiancando una sgomenta Erin in ogni dettaglio dell' organizzazione. Il fatto, pensava Alistair, già di per sé abbastanza sconvolgente, assumeva la portata di un cataclisma se si considerava che da quando avevano cominciato a lavorare per la Demeter, la sua fidanzata non si era assentata nemmeno quando, l'inverno precedente, era stata colpita dall'epidemia di influenza che aveva costretto a letto quasi l'intero ufficio amministrativo. O forse era il fatto che vederla rientrare con i campioni di colore delle tovaglie per il ricevimento lo straniva al punto che più e più volte si era domandato se per caso Taigete non fosse stata rapita e sostituita con un clone allevato dalla madre a sua immagine e somiglianza.

Persino il trasloco, che non doveva concludersi prima di un mese, era ormai ultimato, tanto che lui  stesso si era trovato a ricercare i suoi calzoncini da tennis per ore, prima di scoprire che erano già stati portati nel nuovo appartamento di Park Avenue. La furia con la quale lei, ad un debole tentativo di protesta, gli aveva risposto che il trasloco poteva farselo da solo se aveva qualcosa da obiettare, l'aveva convinto a tacere finché non avesse trovato il momento giusto per indagare sul motivo di tale rabbia.

Il tutto era avvenuto mentre la ragazza si faceva sempre più assente e rapita dalla frenesia degli eventi che si susseguivano giorno dopo giorno, senza che lui trovasse una via per fermarla e capire cosa la turbasse a tal punto da trasformarla, in pochi giorni, nell'esatto contrario di ciò che aveva sempre dimostrato di voler essere; sembrava che su di lei fosse gradualmente scesa un'ombra che l'angustiava a tal punto da dovere affrontare la quotidianità con il costante livello di ansia e frenesia che le permettevano di non fermarsi mai a pensare.

 

Fu proprio per questo che quando, alzatosi, si diresse verso la cucina per prepararsi la colazione prima di finire di inscatolare gli ultimi libri rimasti in sala, si sorprese di trovarla in assorta contemplazione del panorama immobile di quell'afosa mattina d'estate, con le gambe nude rannicchiate a sé e una tazza di caffè intoccato in mano.

 

-Niente bomboniere da ordinare o posti a tavola da decidere, stamattina?- le domandò depositandole un bacio leggero sulla guancia e sedendosi accanto a lei.

 

Tai sbuffò senza rispondergli.

 

-Tai, sai che non voglio forzarti, ma è evidente che c'è qualcosa che non va. Ti comporti in modo strano dal giorno della nostra festa di fidanzamento. Ora, capisco che ci siano state cose che nemmeno a me sono andate giù e non ti nascondo che ho avuto più volte l'istinto di usare modi poco galanti nei confronti dei nostri genitori, ma potresti dirmi qual è il problema? Comincio seriamente a pensare di essere io....

 

Nell'istante in cui formulò la domanda, si rese conto che non era così pronto alla risposta che la fidanzata avrebbe potuto dargli. Era così impegnato a pensare a cosa, nello svolgimento della serata, fosse andato storto, che non si era mai fermato a pensare seriamente che Tai nascondesse un malessere nei suoi confronti. E se lei si fosse buttata a capofitto nei preparativi delle nozze per convincersi di stare facendo la cosa giusta sposandolo? Se fosse stata una di quelle persone che, dopo anni e anni di fidanzamento, al momento decisivo si rendevanoq conto volere altro? Per un attimo ebbe la tentazione di pregarla di ignorare la sua richiesta, ma nell'esatto istante in cui prese coraggio lei, finalmente, gli rispose.

 

-Al, ti ricordi di Eugene Aderley?

 

Il respiro gli si mozzò in gola. Sentì uno strano calore propagarsi dal collo alle guance, fino alle orecchie, mentre il cuore gli rimbombava in petto.

 

-Hai...un altro?- le domandò con un filo di voce e la bocca prosciugata dall'angoscia.

 

Tai si voltò di scatto a guardarlo, fissandolo con sguardo incredulo.

 

-Ma sei serio?- gli domandò infine scoppiando a ridere nel vedere il suo viso terrorizzato.

 

-Ma non lo so! Prima ti comporti come una pazza, poi, quando ti chiedo spiegazioni tiri fuori...mi spieghi come ti é venuto in mente Aderley?

 

-Rispondimi,- lo esortò.

 

-Certo che me lo ricordo, Tai. Era il migliore amico di Ben a Cambridge. Da bambini frequentavamo persino la stessa scuola, ma poi lui e sua sorella sono stati mandati in Inghilterra a studiare e non ne ho più avuto notizie, se non da Ben, di tanto in tanto. 

 

-E dopo?

 

-Dopo...dopo l'incendio, intendi? Mah, quando ero alla London Business avrei giurato di averlo incrociato una volta nei dintorni di Soho, ma non credo che qualcuno ne abbia notizie da quando gli Aderley hanno depennato senza troppe cerimonie il suo nome dalla linea di successione. Poveretto...Se é davvero innocente gli é toccata una sorte peggiore di...- Alistair si interruppe, consapevole di star dicendo qualcosa che avrebbe fatto infuriare Tai oltre ogni dire.

 

-Stavi per dire di Ben?- gli domandò infatti lei con voce stridula, -Credi davvero che essere così disperato al punto di buttarsi giù per un dirupo con l'automobile sia un destino meno crudele?

 

-Non lo sappiamo se si é ucciso davvero, Tai... Per quanto ne sappiamo, potrebbe essere ancora vivo, lo hai sempre detto anche tu!

 

-Appunto!- gridò la ragazza balzando in piedi e cominciando a battere l'intero perimetro della sala, -Io non ci capisco più niente, Al, mi sembra di impazzire! Sono giorni che tento di venirne a capo, ma più ci penso, più qualcosa mi sfugge!

 

-Tai, calmati, non riesco a capire... A cosa ti riferisci?

 

Due identiche lacrime di stizza sfuggirono veloci dagli occhi di Tai, seguite immediatamente da altre due, finché la ragazza non proruppe, finalmente, in un pianto liberatorio:

 

-Al, quando sono sparita alla festa,- decifrò Alistair fra un singhiozzo e l'altro,- È apparso questo tizio. All'inizio non l'avevo riconosciuto, ma poi si è presentato e...era Ade...cioè, Eugene, che si era presentato come Ade, per questo non avevo capito chi fosse…

 

La ragazza fermò il suo confuso racconto, rendendosi conto che il discorso che nella sua testa aveva un senso, forse non appariva così chiaro, intervallato com’era da pause e lacrime. Si passò una mano sugli occhi respirando profondamente per calmarsi e infine cominciò a raccontare l'incontro avvenuto la sera della festa.

 

Alistair stette ad ascoltarla assorto, mordicchiandosi sempre più perplesso il labbro, fino a che lei non si sedette nuovamente accanto a lui e, strizzando freneticamente la tazza fra le mani, non gli domandò con un filo di voce: -Cosa ne pensi, allora?

 

Il giovane rimase interdetto qualche istante. Non si era aspettato una simile reazione né avrebbe mai potuto immaginare che il turbamento di Tai fosse dovuto a fantasmi del passato che si erano materializzati, così d'improvviso, nella sua vita.

 

-Io...penso che se quello che dice é vero, dovresti andare a fondo alla faccenda,- le rispose lentamente dopo una lunga pausa.

 

-Come?

 

-Partendo.

 

La ragazza sgranò gli occhi incredula: -Stai dicendo davvero?

 

-Certo. Tai, questa storia ti darà il tormento in eterno, ne sei consapevole? Ben é sempre stato il fratello che non hai mai avuto; il vostro era un legame così esclusivo e totalizzante che andava oltre persino a quello che io stesso ho sempre avuto con mia sorella. Perderlo ha significato perdere una parte di te stessa e non avrai pace finché non lo troverai. O finché non avrai la conferma che quella parte di te é morta davvero con lui.

 

Tai cominciò a martoriarsi una pellicina, dubbiosa.

 

-Taigete, per favore! Fai qualcosa di impulsivo, per una volta nella tua vita! Sei sempre così fottutamente controllata e impeccabile che prima o poi impazzirai davvero! Parti e vallo a cercare o passerai tutta la vita con il rimorso di non aver fatto nulla perché lui tornasse da te.

 

Erano esattamente le parole che le aveva rivolto Ade la sera della festa. Prive di impertinenza e scherno, ovviamente, ma che veicolavano lo stesso messaggio che, da giorni, l'aveva tormentata al punto da spingerla a buttarsi freneticamente in qualunque attività le permettesse di sedare la voce della sua coscienza: se vi era una possibilità, anche minima che Ben fosse vivo, doveva percorrerla a tutti i costi.

 

-Cosa dirò a mia madre?- gli domandò infine esitante.

-A quello penserò io. Le dirò che sei dovuta partire all'improvviso per Parigi  perché...perché quella piattola di Sam si é lasciata per l'ennesima volta con Guillaume e non sa come fare in una città sconosciuta senza di te.

 

La ragazza sorrise, tirando su con il naso in un gesto così infantile che Alistair non poté fare a meno di stringerla a sé, intenerito.

 

-Però facciamo un patto,- le domandò dopo averla baciata a lungo. Tai aprì gi occhi, incuriosita.

 

-Se tu e Aderley partite insieme, in aeroporto ti accompagno io.

 

-Non sarai mica geloso?- gli domandò lei facendo cascare le braccia che gli aveva buttato attorno al collo.

 

-Ti piacerebbe! No, povera anima tormentata, devo istruirlo su un paio di cosette necessarie da sapere prima di mettersi in viaggio con te. Sarà anche scampato a un incendio, ma non sono altrettanto sicuro che abbia le abilità necessarie per poter sopravvivere alla giovane marmotta maniaca di controllo che si impossessa di te, quando metti piede fuori da New York.

 

-Ma...- obiettò lei

 

-Niente ma. Adesso il maniaco del controllo voglio essere io. Ti ricordo che, visto l'atteggiamento da schizzata che hai assunto negli ultimi giorni, io e te non abbiamo ancora festeggiato a dovere...

 

Tai sorrise e lo tirò a sé, avvertendo con sollievo il nodo che le aveva attanagliato lo stomaco cominciare a sciogliersi, -Cosa avevi in mente?- gli domandò infine.

 

-Primo: neutralizzare il nemico. Il ragazzo si allungò sopra di lei, afferrò il telefono sul tavolino di legno scuro accanto al divano e compose il numero dell'ufficio del padre alla Demeter.

 

-Papà,- disse tappandole la bocca con la mano per soffocare la sua risata,- ci hanno appena chiamato dall'impresa edile che segue i lavori della casa nuova... C'è stato un malinteso e arriveranno a portare la cucina proprio oggi. Stamattina né io né Tai verremo in ufficio, tanto voi riuscite ad arrangiarvi comunque con i giapponesi, vero? Grazie, scappo ché sta arrivando il taxi!

 

-E secondo?- gli domandò Tai, mentre, abbandonati il telefono sul pavimento, Al cominciava a baciarle delicatamente la pancia scoperta.

-Improvviserò...

 

 

***

 

 

Stava volando verso l'ignoto.

 

Il cielo fuori dal finestrino era di un nero secco e brillante. Tai amava volare di notte, le dava l'impressione che tutta quell'oscurità cancellasse le coordinate spazio temporali che di norma scandivano un viaggio; erano gli unici attimi, nella vita, in cui le sembrava di potersi fermare, senza uno scopo preciso, chiudere gli occhi e immaginare di essere nel mezzo di una corsa senza meta o fine. Con gli occhi semichiusi e i pugni serrati fissava i bagliori tremolanti della pista dell'aeroporto di Heathrow allontanarsi sempre di più da loro, mentre le luci si facevano più rarefatte e divenivano infine invisibili man mano che prendevano quota. Se non fosse stato per l'immagine che le restituiva il vetro attraverso il quale aveva puntato lo sguardo avrebbe giurato di essersi smarrita, cullata dal ronzio continuo del motore, nell'oblio del nulla che li avvolgeva.

E invece il profilo di Ade che si rifletteva sul finestrino le ricordava, come un curioso monito, il folle motivo per cui si trovava seduta su quel sedile, con le gambe rannicchiate a sé e i piedi incastrati fra il suo sedile e quello dove lui dormiva profondamente. Non aveva fatto altro dal momento in cui avevano messo piede sull'aereo che li avrebbe condotti da New York a Londra, per poi dirigersi verso Atene, dove a quanto pareva vivevano degli amici del college in grado di fornire loro dettagli più puntuali su Ben. Tai lo fissava attraverso il suo riflesso con profonda invidia: più volte era scivolata nel sonno, ma ogni volta strani e inquietanti sogni a metà fra il subconscio e la realtà l'avevano turbata al punto che erano ormai ore che non riusciva a chiedere occhio. L'immagine di sua madre mentre sfilava dal cofanetto la collana di diamanti, che improvvisamente cominciava a muoversi avvolgendosi attorno al suo collo, fino a soffocarla, si accavallava a quella di mille volti dai lineamenti sfuocati, avvolti da bagliori rossastri che piano piano li facevano scomparire e riapparire, confusi nella moltitudine di rumori penetranti, finché, nitido fra tutti, non comparivano il viso di Ben e le sue mani tese verso di lei. Poi tutto si perdeva, nell'oscurità di uno sguardo scuro e profondo, da cui non riusciva a distogliere il pensiero. Più e più volte si era destata di soprassalto, finché, alla fine, non si era svegliata del tutto, tremante e con il respiro affannato, con la sensazione che qualcuno la stesse svegliando, scuotendola violentemente. Il più delle volte non era altro che un sussulto dell'aeromobile, o la voce di un' hostess che richiamava l'attenzione dei passeggeri per comunicazioni di servizio. Ma ogni volta che aveva aperto gli occhi, l'immagine di Ade profondamente addormentato riflessa sul finestrino l'aveva ricondotta bruscamente alla realtà: l'abbassarsi lento del suo petto e le labbra leggermente socchiuse avrebbero dovuto infonderle tranquillità, ma l'unica cosa che Tai riusciva a sentire era il crescere in sé dell' l'ansia per l'ignoto verso il quale si stava dirigendo, mossa dalla follia di un gesto che non aveva nulla di razionale.

 

-Signorina, le é caduto il taccuino.

 

Abbassò lo sguardo verso il diario di sua nonna, scivolato ai suoi piedi, rimanendo a fissarlo per qualche istante in silenzio.

La sera prima, mentre preparava lo zaino, aveva scorto l'oggetto che spuntava sotto la pila di calzini: se ne era quasi dimenticata, nella frenesia degli ultimi giorni. Eppure, quell'ammasso di pagine ingiallite esercitava un'attrazione magnetica ora che le era riapparso sotto gli occhi.

Sua nonna Merope aveva costituito, per lei, un mistero lungo una vita: appariva felice e realizzata, al fianco di suo nonno, eppure aveva sempre avuto l'impressione che ogni suo sorriso, ogni sua parola o gesto fossero velati dall'impalpabile malinconia di chi non era riuscito a vivere a pieno la sua vita. Era stata lei la prima a sussurrarle in un orecchio, il giorno del suo diciottesimo compleanno, di trovare la forza per essere ciò che voleva nella vita; e così Tai aveva fatto. Si era laureata a pieni voti ad Harvard, specializzata in Europa, aveva amato Al con tutta sé stessa, ignorando le malelingue che dicevano che stesse con lei solo perché obbligato dal padre, aveva viaggiato da sola e in compagnia del padre, girando il mondo spesso senza un vero scopo, aveva corso a perdifiato scalza per il bosco della tenuta della famiglia del padre, rientrando con le gambe livide e piene di graffi, cavalcato fino a lasciarsi andare esausta sull'erba umida, fatto il bagno nelle acque ghiacciate delle acque del Quebec, la regione d'origine della sua famiglia paterna. Tutte cose che avevano fatto infuriare, il più delle volte, sua madre, ma che la rendevano orgogliosamente diversa da lei. Eppure...eppure, guardando alla sua vita, spesso non riusciva a fare meno di sentirsi in trappola, come se dei fili lunghissimi la riportassero a una realtà a cui non desiderava appartenere. Per quanto lontana potesse andare, questi alla fine l'attanagliavano, l'avvolgevano, la soffocavano, finché non tornava indietro, vinta dall'angoscia e dalla paura di soccombere sotto la loro presa.

Non si era mai sentita realmente capita, o forse aveva sempre avuto l'impressione di non riuscire a comunicare a qualcuno le sue sensazioni fino a che, nel fondo di un baule nel sottotetto dell'appartamento di Park Avenue, non aveva trovato il diario di sua nonna: aveva cominciato a leggerlo, assaporandone piano piano ogni parola, trovando queste quasi fastidiosamente empatiche e confortevoli. Era stato così che, senza pensarci due volte, appena qualche istante prima di uscire da casa, aveva infilato il taccuino nella tasca esterna dello zaino, assieme all'inseparabile copia dell'Amleto che l'aveva accompagnata sin dal suo primo viaggio in Thailandia con il padre e Ben, e il Kindle pieno di libri: si era ripromessa di leggere un giorno, per ognuno trascorso in viaggio alla ricerca di suo cugino.

 

-Grazie,- rispose con un sorriso, chinandosi a raccogliere il diario ai suoi piedi, per poi assicurarselo in grembo, dove non avrebbe rischiando di perderlo di vista un'altra volta.

 

 

***

 

 

 

-Ade...Ade!

-Dannazione, vuoi darti una mossa?

-Ade!

Il fumo gli penetrava nelle narici, mozzandogli il fiato, il caldo lo atterriva mentre tentava di scostarsi il sudore che dalla fronte gli colava sugli occhi, bruciando, facendolo brancolare in un'oscurità tagliata da luci accecanti, bollenti. Una mano che lo tirava per la camicia, stracciandola con un rumore secco.

 

-Ade!

 

Era la camicia o il petto ad essersi squarciato?

 

-Vuoi svegliarti?

Si sollevò di scatto, sbattendo violentemente le ginocchia contro il sedile davanti a lui.

-Stai bene?

Nel sentire una mano appoggiarsi sulla sua, l'uomo si voltò con aria smarrita, senza capire dove si trovasse. Accanto a lui, Tai lo scrutava con aria perplessa e vagamente preoccupata.

-Ah sei tu,- le disse con tono scocciato, massaggiandosi le ginocchia e maledicendo mentalmente le compagnie low cost e tutti i loro mezzi a misura di Hobbit.

-Hai cominciato ad agitarti nel sonno e a mormorare cose incomprensibili. Mi sono preoccupata...vuoi un fazzoletto?- gli domandò accennando alla fronte imperlata e al ciuffo di capelli che gli si era incollato alla pelle madida.

 

Ade annuì in silenzio, tentando di ricordarsi il motivo che lo aveva destato di soprassalto. Più si sforzava, tuttavia, più le immagini sfuggivano, facendosi confuse e sfumate finché, ad un certo punto, tutto ciò che vide fu l'immagine del suo viso sconvolto riflessa sul vetro alle spalle di Tai.

 

-Un incubo, suppongo. Non ricordo, sinceramente,- rispose infine abbandonandosi indietro e chiudendo gli occhi per scacciare gli ultimi, inquietanti rumori che ancora aleggiavano nei suoi ricordi confusi.

 

-Siamo quasi arrivati.

 

Tai ora gli dava le spalle mentre, con il viso perso oltre il finestrino, guardava la pista di atterraggio avvicinarsi sempre di più, fino a divenire con uno scossone violento, suolo sotto le ruote dell'aereo. La osservò a lungo, mentre imperterrita, fissava la pista sulla quale erano appena atterrati, con una mano sotto al mento, l'altra ancora appoggiata sulla sua, come dimentica di chi fosse il suo compagno di viaggio. Sorrise imbarazzato, immobilizzato da quel gesto innocente, finché il piccolo oggetto che teneva in grembo non catturò la sua attenzione.

 

-Scrivi le tue memorie?- le domandò accennando al consunto taccuino.

 

-Come?- gli rispose lei sovrappensiero.

 

-Il diario...

 

-Oh...no, é solo...il diario di mia nonna Merope,- gli spiegò Tai stringendo le spalle.

 

-Ah. Non mi sembravi il tipo che si mette mille problemi su un diario, infatti.

 

-In che senso?

 

-Mi sembri più una di quelle persone impulsive, che prima agiscono, poi riflettono, piuttosto che una che si spara mille viaggi su un diario.

 

Tai lo fissò turbata: - E questa...è una cosa positiva?

 

Ade fece spallucce: -Boh.

 

Poi, senza lasciarle il tempo di replicare o di riflettere sull'osservazione fatta, si alzò e lasciò cadere la conversazione, cogliendo l'opportunità di aiutare la signora al suo fianco a recuperare la valigia dal vano porta oggetti sopra la loro testa.

 

-Sibillino,- commentò lei fissandolo dubbiosa. Scosse la testa perplessa poi, infilando il diario nella profonda tasca della felpa che indossava, si accinse a seguirlo, quando lo sguardo le cadde sulla tasca posteriore dei jeans di Ade da cui spuntava un libretto consunto e stracciato in più punti.

 

Le persone non fanno viaggi, sono i viaggi che fanno le persone. (1) Recava la scritta familiare che spiccava sulla prima pagina, lasciata scoperta dalla copertina strappata. Affondò lentamente la mano nella tasca e ne estrasse un libricino identico a quello che Ade teneva nella tasca, ma meglio conservato.

 

Alla mia piccola Tai, per ricordare il primo viaggio con gli uomini della sua vita. La scrittura sbiadita di suo padre le bruciò gli occhi, al punto che dovette spalancarli, per respingere le lacrime che erano affiorate con prepotenza a intorbidire i suoi occhi chiari. Allungò tremante la mano verso la tasca di Ade, sperando che le chiacchiere con la vicina lo distraessero abbastanza perché lei riuscisse a scoprire completamente la scritta in copertina.

 

Al mio piccolo, grande nipote, nella speranza che questo libro lo accompagni sempre nel viaggio della vita.

 

La copia di Ben.

Incapace di trattenerla, una lacrima le corse infine lungo la guancia, prima che lei potesse anche solo accorgersi di aver cominciato a piangere in silenzio. Chiuse il libro in fretta e lo fece sparire asciugandosi il viso appena in tempo, prima che Ade si voltasse e la esortasse distrattamente a seguirlo, prima di rimanere incastrati nella comitiva di diciottenni che non avevano smesso di schiamazzare e urlare per tutta la durata del viaggio.

 

 

 

 

Una risata beffarda spiccò nitida su un’armonia di rumori dissonanti che lo nauseavano anche se intrappolati dietro la retina metallica del microfono di un cellulare.

-Potresti smettere di giocare con quella candela, per favore?

Nel buio, due mani pallide, un bagliore e quel tatuaggio. "Il buono e il cattivo dipendono dal pensiero di chi li rende tali," (2) recitava.

Ade distolse lo sguardo, fissando il nulla dinnanzi a lui: alla fine tutti loro, ragazzi immaturi e irresponsabili, avevano imparato a distinguere la sottile differenza fra il bene e il male, a loro spese. A qualche fortunato era stata data la fortuna di non vivere abbastanza a lungo per essere condannato a vedere tutto il buono che c'é nel mondo trasformarsi in marcio, sgretolandosi sotto le proprie, impotenti dita. A chi era rimasto, invece, tutto ciò che aveva riservato la vita altro non era stato che un' esistenza ai margini di un mondo che li avrebbe sempre ripudiati, disgustato, e un abisso fatto di errori, orrori, incubi e tormentati ricordi.

Sorrise amaramente, sfiorandosi l'impercettibile gonfiore che un tempo era stato un tatuaggio del tutto simile a quello che si vedeva sull polso dell'uomo del video: se solo avessero saputo che sarebbero stati condannati a rimanere, avrebbero bruciato quel copione, anziché eternarlo per sempre sulla loro stessa pelle.

-Dai, smettila! Non mi interessa se non senti dolore, finirai per bruciare tutto...-

 

-Respira, Ade...- mormorò fra sé e sé, strofinandosi gli occhi.

In fondo, avrebbe dovuto fare solo quello che gli riusciva meglio: raccontare, evocare un passato sepolto, che credeva di aver lasciato alle sue spalle.

E poi fare silenzio, finalmente libero.

 

-Ben, cosa fai lì in un angolo da solo?  Vieni qui ché penso ci sia qualcosa che ti interessa!

 

Un ultimo sguardo allo schermo, un sospiro. Gli girava la testa e aveva l'impressione che un martello pneumatico gli penetrasse lentamente le tempie; spense il telefono, facendolo sparire lentamente nella tasca dei jeans, poi si alzò e si accinse a raggiungere Tai, che lo attendeva impaziente all'entrata, stringendo al petto, come se fosse un tesoro dal valore inestimabile, il diario di sua nonna.

 

-...e poi potrai fare silenzio.








1969

Alla televisione, un’adorabile famiglia stava chiacchierando allegra intorno a una tavola piena di prelibatezze: tutti prodotti di cui la Demeter garantiva bontà e genuinità. Ogni volta che guardava quello spot, Merope cercava di dissimulare la sua insofferenza: spesso si ripeteva che quel moto di fastidio non aveva nulla a che fare con le abitudini di casa Core, dal momento che da quando aveva memoria aveva sempre fatto colazione in compagnia dei soli camerieri. Piuttosto, tendeva a imputare quella reazione all’evidente anacronismo della pubblicità voluta da sua madre: in un periodo in cui le donne cercavano di crearsi uno spazio in un mondo che fino a quel momento era stato pensato da e per soli uomini, l’immagine che usciva fuori da quello spot era quanto mai fastidiosa. Ancora di più se si pensava che a sceglierla era stata proprio Chloe Core, una donna pronta a relegare il marito alla gestione delle filiali più lontane e a condurre praticamente da sola l’impero Core.

 

-Miss Core, sua madre le ha lasciato il promemoria per la giornata.

 

Merope prese il biglietto dalle mani della cameriera e diede una rapida occhiata. Quel giorno avrebbe dato qualsiasi cosa per non uscire da casa, per spezzare quella routine che da qualche settimana le era stata imposta dalla sua famiglia, ma c’erano troppi impegni e lei doveva dimostrare di essere all’altezza delle aspettative di tutti: c’era un matrimonio sfarzoso da organizzare nei minimi dettagli; la ricandidatura spinosa del sindaco Lindsay, amico di lunga data dei Core; c’era un posto in amministrazione ad attenderla.

 

Merope provava a interessarsi, ad uscire fuori da quella campana in cui sembrava nata, ma tutte le volte sentiva il familiare senso di inadeguatezza, quel qualcosa di indefinito che riusciva sempre a insinuarsi nei suoi pensieri e a farla sentire minuscola dentro. Come qualche giorno prima, quando lei e Duncan avevano partecipato per la prima volta al consiglio d’amministrazione della società. Fino a quel momento loro si erano sempre trattati da pari a pari, scambiandosi opinioni su ciò che avrebbero fatto per la Demeter per adeguarla al mutare dei tempi: in quegli scambi Merope finiva sempre con l’offrire a Duncan punti di vista interessanti, innovativi, moderni. Eppure… Eppure durante quel consiglio d’amministrazione e per quelli successivi, aveva finito con lo stare in silenzio, accanto a un Duncan che le sembrava sicuro come non mai, brillante come lei non avrebbe mai saputo essere.

 

Fece un respiro profondo, un po’ tremolante e andò nella sua camera per scegliere gli abiti che avrebbe indossato quel giorno, ma a quanto pareva qualcosa di lei non riusciva proprio a non ribellarsi: era distratta da immagini che si rincorrevano nella sua mente, pensieri foschi che la portavano a fissare con aria assente la cabina armadio piena di abiti cipria e giacche pastello. Alla fine scelse qualcosa senza prestarci troppa attenzione e, in un moto di stizza, sentì di detestare tutto ciò che aveva davanti: sua madre le imponeva di indossare la collana dei Core, ma non aveva praticamente nulla da indossare che avesse abbastanza carattere per quel gioiello così cupo.

 

Si preparò con la solita calma e, una volta pronta, mise le mani sul portagioielli che la madre le aveva regalato insieme alla collana. Se la collana si tramandava di madre in figlia da diverse generazioni, quella del portagioielli era una tradizione di gran lunga più recente: era splendido e per Merope significava molto più della collana, perché quella fitta trama dorata su uno sfondo nero e il prezioso giglio intarsiato le parlavano di una persona cara quanto sfuggente. Nonostante per diversi anni il cofanetto fosse rimasto nelle mani di sua madre, quando si faceva scattare la chiusura si poteva avvertire un’essenza familiare, frizzante ma elusiva.

 

-È quasi una beffa,- aveva commentato Chloe quando l’aveva vista contemplarlo,— Lei non riesce a stare ferma per il tempo di un battito di ciglio, ma il suo profumo ti rimane comunque addosso.

 

-Non è solo il profumo,- aveva risposto lei, lisciando i contorni del giglio, -Nonna è ovunque in questo portagioielli.

 

Chloe l’aveva guardata stranita. -Mi ha raccontato che l’ha ideato lei e l’orefice ha dovuto accontentarla in ogni più piccolo particolare.

 

Era così assorta nei suoi pensieri che quando iniziò a squillare il telefono sobbalzò facendo cadere il cofanetto a terra. Nel panico, vide che qualcosa si era staccato e si piegò sulle ginocchia per contemplare il guaio che aveva fatto.

 

-Miss Merope, il suo fidanzato al telefono.

 

Fece un frettoloso cenno d’assenso alla cameriera, mentre affranta allungava le mani verso il pezzo che si era separato dallo scrigno nella caduta. Stranita, notò che in realtà si trattava di un cassettino e che forse non aveva fatto nulla di irreparabile.

Rincuorata, decise di non fare attendere Duncan e andò al telefono.

 

-Pronto.

 

-Ciao Silvery,- la salutò la voce familiare e rauca di Duncan.

 

-Ciao Ambroser,- gli fece il verso.

 

-Per oggi è meglio se ce ne stiamo a casa.

 

Merope si illuminò tutta, ma finse indifferenza quando chiese: -Come mai?

 

-I soliti scansafatiche hanno bloccato le strade e tua madre mi ha sconsigliato di farci vedere nei pressi della Demeter. A quanto pare, siamo troppo bianchi, troppo ricchi e troppo patriottici per passare tra loro indisturbati.

 

Merope sbuffò divertita: -Li detesti proprio, eh?

 

-Non li detesto, ma disprezzo chi va contro ciò che rende gli States il Paese più potente al mondo. Sono dei perdenti, Merope… Persone che si crogiolano in utopie irrealizzabili o nel loro basso status sociale, senza nemmeno provare a cambiarlo.

 

-Molti di loro sono reduci del Vietnam. Chi più di loro ha diritto di essere ascoltato?

 

Duncan sbuffò: -Non ti metterai anche tu a inneggiare all’amore, adesso?

 

Merope sollevò lo sguardo al cielo: -E se anche fosse?

 

-No, intendiamoci, per me va bene… sono un grande sostenitore dell’amore! Purché riguardi me e te, una bottiglia di champagne e un letto comodo.

 

-Duncan!- lo rimproverò, paonazza.

 

Lo sentì ridere dall’altra parte del telefono. Era quella risata bassa che le piaceva tanto, quella che sapeva trasmetterle dei brividi per lei poco familiari, come se fosse la promessa di qualcosa di proibito che lei non conosceva ancora.

 

-Silvery…- mormorò a voce bassa.

 

-Che c’è?- chiese mordendosi un labbro e guardandosi attorno con aria colpevole.

 

-Non vedo l’ora che tu sia mia.

 

-Ma lo sono già,- obiettò.

 

Di nuovo quella risata roca.-No, non ancora…

 

 

 

***

 

 

 

“Tra le dee, Demetra aveva il dono più prezioso: creava vita dove vita prima non c’era. Senza dolore, partoriva creature perfette pronte a venerarla per tutta la loro esistenza: robuste querce, pericolosi rovi, delicati gigli, succose mele. Tuttavia, l’armonia del suo creato non era sufficiente alla dea, desiderosa di qualcosa che non avrebbe dovuto mai desiderare: una creatura a sua immagine e somiglianza. La chiamò Persefone e, quando si rese conto che nascendo la nuova dea le aveva sottratto il suo dono, non ebbe modo di odiarla: era troppo perfetta, troppo uguale alla lei che era stata un tempo. Tramite Persefone, Demetra continuò a elargire il dono, illuminando la Terra di vita senza mai davvero posare i suoi occhi sulla figlia. Persefone sfioriva nel sonno, privata della luce che la sua stessa madre le aveva donato e poi tolto…”


Un suono insistente si fece strada nell’intricata trama di parole, immagini e pensieri che era la sua mente. Ci mise qualche momento per individuarne la fonte: prima si dovette stropicciare gli occhi, poi si obbligò a mettere giù la penna che aveva stretto fino ad allora, quindi si guardò intorno per qualche secondo. La realtà aveva la forma di una mano che bussava con forza alla porta, il suono di una voce che lo chiamava per nome.

Andò ad aprire, senza curarsi del fatto che fosse praticamente nudo.

 

-Cuveé, potrai attizzare le donne dell’alta società, ma ti prego di vestirti in mia presenza.

 

-James…— mormorò con voce arrochita dal mancato utilizzo,- Che ci fai qui a quest’ora?

 

-A quest’ora?- domandò il rampollo dei Core divertito, -Non sono ancora a conoscenza del fuso orario del Village, ma dalle mie parti mezzogiorno è un orario più che accettabile per fare visita a qualcuno che te ne ha fatto espressa richiesta.

Julian lo guardò senza capire bene cosa volesse dire.

 

-Si può sapere che stavi facendo?- domandò a quel punto, mentre con un’occhiata catturava l’intero monolocale. Era una stanza grigia, scarna di mobili ma piena di libri, dischi e fogli imbrattati di inchiostro. Gli unici beni di un qualche valore erano un giradischi che gli era stato regalato, un’opera d’arte di quello che per molto tempo era stato il suo mecenate e una macchina da scrivere risalente a prima della sua nascita.

 

Scosse la testa nel tentativo di schiarirsi le idee: -Credo di aver scritto tutta la notte.

 

Andò verso il letto e indossò i pantaloni che la sera prima vi aveva lasciato cadere. Fu allora che si rese conto che il corpo era infreddolito, che aveva bisogno di bere e mangiare qualcosa.

 

-Quando ti ho detto di venire qui?- gli chiese dopo essere tornato dal bagno.

 

James scosse la testa, incredulo. -Ieri sera!

 

Vedendo che non ricordava, si decise a raccontargli: -Sei venuto nel salottino privato del Max’s, mi hai interrotto mentre ero in compagnia di Giselle per dirmi che oggi dovevo fare qualcosa per te. Hai blaterato qualcosa su un regalo da consegnare. Quando ti ho mandato a fanculo e ti ho detto che un Core non fa da postino a nessuno, mi hai minacciato di far sapere ai giornali e alla mia famiglia delle mie prodezze alla Factory e mi hai dato appuntamento a stamattina, esattamente a mezzogiorno!

Mentre James blaterava nel suo solito modo insensato, Julian si era avvicinato alla cucina e aveva preso delle fragole che qualcuno gli aveva lasciato lì. Mentre le mangiava, soppesava con lo sguardo l’altro.

 

-Già, ho qualcosa per casa Core.

 

James strinse le labbra, infastidito. -Cosa vuoi dalla mia famiglia?

 

-Tranquillo, non mi interessa la tua famiglia, ma quella dei Core splendenti… Anzi, per la verità, me ne interessa una sola.

 

-Oh, Merope…— realizzò l’altro,— Te l’ho già detto, è fidanzata e non ha mai avuto occhi per qualcuno che non fosse Ambroser.

 

Julian sollevò le spalle indifferente. Non gliene fregava davvero nulla: non era un interesse fisico quello che provava per la ragazza Core. Era molto di più, ai suoi occhi: era quella spinta che lo aveva indotto a stare ore e ore con una penna in mano a cercare di descrivere la luce abbagliante che aveva scorto quella famosa sera, quella stessa luce che era sembrata affievolirsi man mano che la giovane stava a contatto con i suoi simili. La voleva per sé, in quella squallida stanza, per vedere se quella luce sarebbe stata in grado di illuminare lui o se invece sarebbe perita come tutto ciò che lui aveva toccato nella sua vita. La voleva, presto.

 

-Non importa. Dovrai solo farle avere questo pacchetto e gli altri che ti darò poi.

 

 

 

***

 

 

Dopo un’intera giornata trascorsa in casa, immersa nella lettura e nella musica, era stato particolarmente difficile il giorno dopo tornare alla routine ormai consolidata.

 

La mattina, aveva dato inizio a quella che prometteva di essere un’estenuante ricerca dell’abito da sposa, perché nulla sembrava convincere sua madre e l’immancabile cugina Daphne. Agli occhi divertiti di Merope, il cipiglio con cui sua madre accoglieva ogni abito era degno di uno stratega intento a pianificare una battaglia particolarmente difficile.

 

-Ti stanno tutti bene, Merope,- aveva commentato indispettita,-Ma cerco qualcosa che ti faccia brillare davvero.

 

Dopo pranzo, lei e Daphne avevano dovuto presenziare a un evento organizzato per la campagna elettorale del sindaco Lindsay. Quello stupido – così lo appellava sua madre in sua assenza – negli ultimi mesi del mandato aveva fatto una sciocchezza dietro l’altra, cominciando dalla manifesta incapacità a gestire scioperi e manifestazioni fino ad arrivare alla cattiva gestione della nevicata di febbraio, quella che gli aveva fatto guadagnare il nome di Lindsay Snowstorm e che rischiava di fargli perdere le nuove elezioni. Ciononostante i Core avrebbero continuato a credere in lui e a finanziare la sua candidatura. Tuttavia, per non compromettere eccessivamente la famiglia, Chloe aveva affidato alle due cugine il compito di stare sul palco insieme al sindaco.

 

Merope aveva fatto tutto ciò che le avevano chiesto, quel giorno: aveva sorriso, aveva indossato decine di abiti, aveva conversato e aveva parlato a un microfono. Ma la sua mente non era dove Chloe avrebbe voluto: era rimasta altrove, agli accadimenti del giorno prima.

Terminata la telefonata con Duncan, era tornata indietro per vedere se il danno al portagioielli era davvero risolvibile come aveva pensato in un primo momento. In effetti, non c’era stato alcun danno: la caduta doveva aver azionato un meccanismo che aveva fatto aprire uno scompartimento segreto. Lì dentro si trovava nascosto un autentico tesoro: un diario le cui pagine intatte – scritte in una calligrafia elegante e appariscente – recavano un lieve profumo di limone, tra le quali si celavano i pensieri e i segreti della giovane Maia Core Myrthus.

 

La prima tentazione era stata quella di farsi trascinare dalle pagine e di leggere il diario tutto d’un fiato, ma quello non era un libro, scritto per essere compreso da tutti. Era una raccolta di pensieri fugaci, frasi criptiche, opinioni su persone o eventi che l’autrice aveva ritenuto degni della sua volubile attenzione. Una lettura rapida non avrebbe mai permesso un’adeguata comprensione, cosa che per Merope aveva acquisito troppa importanza per rinunciarvi così facilmente. Così si era imposta una lettura più lenta, che le consentisse di riflettere meglio su ciò che leggeva e, dopo tutto quelle ore, non si era pentita affatto della sua decisione: sua nonna si approcciava alla scrittura con la stessa disposizione d’animo con cui viveva, cosicché finiva con il descrivere con dovizia di particolari abiti, pettegolezzi e scandali e con il liquidare con scarne ed ermetiche parole ciò che all’occhio attento di Merope sembrava colpirla davvero.

Tuttavia, non era stato solo il diario di sua nonna a distrarla nel corso di quella giornata impegnativa. Anche in quel momento, mentre stava seduta accanto a sua cugina Daphne, non riusciva a non pensare a ciò che era successo la sera prima e a come aveva trascorso gran parte della notte.

 

Merope si era appena ritirata in camera dopo una cena con sua madre, Duncan e i cugini, quando la cameriera le aveva portato un pacchetto sottile e leggero che qualcuno aveva lasciato sul mobile all’ingresso. Su di esso una calligrafia spigolosa recava il suo nome. Stranita, aveva strappato la carta senza troppe cerimonie, per ritrovarsi in mano quello che aveva tutta l’aria di essere un vinile. Ma c’era qualcosa di assurdo sulla copertina: innanzitutto, sapeva fin troppo bene che nonostante la sua versatilità Andy Warhol non era affatto un musicista; in secondo luogo, quella banana fin troppo matura che vi era disegnata non aveva nulla a che vedere con la musica.

 

Aveva dovuto ascoltare le prime tracce  per ricordare di un album che pochi anni prima aveva fatto scalpore per poi sparire subito dalle radio. Era un gruppo che si diceva avesse acquisito notorietà solo grazie all’appoggio di Warhol e alla modella che li affiancava, Nico, se ricordava bene.

 

Mentre ascoltava la voce maschile sottile e quella femminile piuttosto rauca cantare testi dal contenuto così indecente da ringraziare l’ennesimo impegno che aveva portato sua madre a uscire, Merope si era sentita sempre più imbarazzata, sempre più scossa. Eppure non era riuscita a indignarsi: c’era qualcosa di morbido in quella musica capace di toccarla dentro, in una carezza a cui non avrebbe saputo rinunciare. Quelle voci, che da decise si facevano basse e seducenti, le parlavano di un mondo a lei del tutto sconosciuto: un mondo sporco, sicuramente, fatto di droga e perversioni che avrebbero dovuto inorridirla, di donne fatali e veneri in pelliccia che avrebbero dovuto farle arricciare il naso. Ma era un mondo che la incuriosiva, spingendola ad ascoltare alcune canzoni più delle altre, nel tentativo di decifrare i significati più indecenti e oscuri.

Alla fine, era stato proprio il disegno sulla copertina a distogliere la sua attenzione dalle canzoni. Mentre lo studiava si era resa conto che si trattava di un adesivo e, una volta che aveva tolto la pellicola gialla, aveva strabuzzato gli occhi nel trovarsi la figura rosa shocking di quello che doveva essere senza dubbio un…

Scosse la testa per cacciare via l’imbarazzo che quel ricordo ancora le destava. Quel disegno era a dir poco osceno!

Sconcertata, si era alzata dal letto per nascondere il vinile, quando aveva notato che sul retro qualcuno aveva scritto: “And what costume shall the poor girl wear to all tomorrow’s parties?” Subito sotto, c’erano delle indicazioni per quello che sembrava essere un appuntamento: un indirizzo, una data, un’ora.

 

-Mer, sei sicura di non volere compagnia?

 

Daphne sembrava piuttosto preoccupata mentre guardava fuori dal finestrino. Che non fosse abituata all’atmosfera stravagante del Village si poteva indovinare facilmente da come stringeva le labbra e teneva gli occhi sbarrati. D’altronde, anche Merope doveva avere quell’espressione in viso mentre fissava il luogo che era stato indicato sul vinile.

 

-Starò dentro solo per qualche minuto.

 

Aprì lo sportello e scese dall’auto, con gli occhi fissi sul continuo via vai di gente colorata che entrava e usciva dalla palazzina dall’aria cadente che aveva di fronte.

 

Nessuno – né sua madre né Duncan né tantomeno i suoi cugini – avrebbe mai creduto Merope capace di avvicinarsi a un luogo a lei estraneo. Era sempre così terribilmente prevedibile, in fondo. Eppure avvertiva con estrema chiarezza che il giorno prima qualcosa era riuscito a innescare un impercettibile cambiamento: forse erano stati i fugaci pensieri di una donna spontanea e vitale; forse le note intense e sanguigne della musica di quel vinile. Il risultato era che, per una volta, anche Merope voleva osare.

Si avvicinò alla palazzina e, senza voltarsi indietro, ne varcò le porte.

 

 

 

Accanto al suggestivo dipinto che da anni occupava la parete della casa di campagna,

ne era apparso uno nuovo, che non riusciva ad essere altrettanto coinvolgente:

la cornice era deliziosa, finemente cesellata e decorata.

Il soggetto, però, le faceva storcere il naso.

Era un paesaggio dai colori tenui, senza alcun elemento degno di nota che potesse catturare l’attenzione.

Lo paragonò a quello ben più antico e interessante e, quando riportò l’attenzione su di esso, vide che il paesaggio era stato macchiato da una goccia di un rosso cupo.

Un cambiamento: un chicco di melograno.




 

1920

All’apparenza, le ville dei ricchi newyorkesi non erano cambiate poi molto con la guerra, ma bastava varcare le imponenti soglie per rendersi conto dei vuoti che avevano lasciato mobili e quadri che i proprietari erano stati costretti a vendere per rimanere a galla durante il conflitto. Con quasi tutte le imprese chiuse o modificate per usi bellici e la maggior parte dei giovani al fronte, anche gli Stati Uniti avevano risentito fortemente di quella guerra oltreoceano. Certo, in quegli ultimi due anni, chi poteva si era affrettato a riportare le abitazioni all’antico splendore ma il risultato, nella maggior parte dei casi, era lo stesso ottenuto con gli abiti cuciti più e più volte: apparentemente impeccabili, ma mai perfetti.

 

Villa Core, d’altro canto, non solo sembrava non aver risentito in alcun modo della crisi, ma si era addirittura ampliata, seguendo nelle nuove ale l’architettura neoclassica della dimora originaria. La Demeter, dopotutto, era stata una delle poche società a non aver chiuso, rifornendo i civili e i militari di beni alimentari di prima necessità e i Core ne avevano guadagnato in patrimonio e influenza; lo stesso Nathanael, chiamato alla leva obbligatoria, era stato dispensato perché necessario alla guida della società.

La sala da pranzo era l’angolo più illuminato dell’intera villa, con tre muri composti di sole vetrate e un enorme tavolo ottocentesco al centro. Come tutte le mattine, la colazione era stata serviva per tre, benché difficilmente la piccola di casa avrebbe desinato con il padre e il fidanzato alle otto del mattino; quanto alla signora, la colazione le veniva servita a letto, come era in uso tra le nobildonne inglesi.

Lady Potnia aveva lo spirito pragmatico delle sue connazionali, ma in cuor suo aveva sempre agognato di appartenere all’elite inglese, così elegante e sofisticata, carica di storia e tradizioni; diversamente dalle donne Core che l’avevano preceduta, così come da sua figlia, Potnia non si sentiva totalmente americana e attingeva alle usanze inglesi ogni qual volta ne aveva l’occasione.

 

Quella mattina, comunque, due giorni dopo la festa di fidanzamento, una delle porte-finestre si aprì all’improvviso, lasciando entrare la frizzante aria primaverile… E l’odore di limone. Olivier guardò per un istante la figlia, le gote imporporate dall’aria e i capelli che le cadevano scomposti sulle spalle, poi osservò lo sguardo adorante del futuro genero; non aveva mai osservato sua moglie in quel modo, il loro matrimonio era stato deciso  dal suo defunto suocero che aveva destinato l’erede della Demeter ad uno dei migliori rampolli della società newyorkese, ricco ed istruito nelle migliori scuole della nazione. Un’unione a cui entrambi avevano acconsentito, comprendendo i benefici che ne sarebbero derivati, ma che non aveva mai contemplato l’amore, né qualcosa che vi si avvicinasse: al contrario, aveva sempre avuto la sensazione che Maia e Nathanael, al contrario, benché il loro fidanzamento fosse stato deciso da altri, ad un certo punto delle loro vite si fossero scelti, innamorandosi l’uno dell’altra.

Lo si sarebbe potuto ritenere un bene, che da un’unione programmata fosse nato l’amore, ma Olivier si era sempre chiesto se l’amore fosse davvero una benedizione, o fosse, invece, una forza devastante che ottenebrasse il giudizio umano.

Le osservò il collo e, benché non si fosse ancora totalmente abituato alla presenza della collana, notò la sua mancanza nel medesimo istante in cui, invece, il futuro genero si preoccupò di dove fosse andata a quell’ora del mattino.

Maia sorrise e rispose ad entrambi guardando il fidanzato –Ero in un posto in cui non sarebbe stato indicato indossare la collana di melograno. In soffitta.- aggiunse dopo un istante.

Nathanael era perplesso: difficilmente Maia si avventurava in luoghi della casa che non fossero i soliti indispensabili per la sopravvivenza.

 

-Sono andata a cercare gli abiti dimenticati.- spiegò con semplicità.

 

Gli abiti dimenticati, quegli istanti di vita passati, frammenti di donne Core che nei secoli avevano camminato tra quelle mura: li avevano trovati una notte, quando Maia aveva tredici anni e Nathanael stava iniziando a non considerarla più una bambina. L’aveva invitata a provarli, ma la fanciulla si era rifiutata, preferendo conservarli per un’occasione particolare.

Gli bastò uno sguardo perché Maia comprendesse la sua muta domanda.

 

-Il ritratto.

 

-Hasmal non ha ancora acconsentito.

 

-Ma lo farà.- gli rispose lei, sedendosi a tavola e servendosi il tè. –Non ho alcun dubbio.

 

Nathanael aveva sempre affermato di essersi innamorato della fidanzata in un museo italiano. Era stato durante la Santa Pasqua del 1911: i Core e Abbie avevano ritenuto Maia abbastanza grande perché il promesso sposo si decidesse a conoscerla davvero, andando oltre i rapporti strettamente convenzionali che avevano tenuto fino ad allora, considerando la giovane età di lei, così lo avevano mandato in Inghilterra per tre settimane. Il programma era semplice: un viaggio sulle orme del Grand Tour, con camere separate e la cameriera di Maia sempre presente, in veste di chaperone

 

In quei giorni Nathanael e Maia avevano avuto modo di conoscersi e di visitare posti di cui fino a quel momento avevano solo sentito parlare: attraversarono la Manica e giunsero a Calais per proseguire fino Parigi, visitando la città e la reggia di Versailles, poi scesero verso Lione e Marsiglia e finalmente arrivarono in Italia, che ammirarono da Milano fino alla Sicilia, passando ovviamente attraverso Roma e il Vaticano.

Il mondo era ai loro piedi, le porte delle case nobiliari si aprivano davanti ai due sofisticati ospiti americani e la giovane coppia si avvicinava sempre di più, città dopo città; Rafael, amante dell’arte che però da sempre aveva avuto poco tempo da dedicarle, osservava con tenerezza Maia mentre cercava di contenere l’irrequietezza: la giovane Core apprezzava gli intrattenimenti in cui il fidanzato la coinvolgeva, eppure nessun libro, opera teatrale o concerto riusciva a catturare la sua attenzione per più di un quarto d’ora. Tuttavia, conscia di quanto questi fossero invece importanti per Nathanael, si sforzava di non darlo a vedere.

Eppure, nella Pinacoteca dell'Accademia di Brera, Maia era rimasta immobile per più di mezz’ora davanti al Bacio del pittore veneziano, contemplando estasiata la sensualità dei due innamorati, il contrasto tra il colore freddo dell’abito di lei e quello caldo degli indumenti del giovane, il piede di lui poggiato sul gradino come se fosse un bacio rubato al tempo sfuggente, un istante cristallizzato che trasmetteva più amore di quanto fiumi di parole non fossero capaci di fare.

E lì Nathanael l’aveva baciata per la prima volta, con buona pace delle convenzioni e del cuore della povera cameriera. E Maia si era lasciata baciare, sentendosi a casa per la prima volta in vita sua, tra le braccia dell’uomo che sarebbe stato suo marito e quel quadro come testimone dei loro sentimenti.

 

A Roma Nathanael aveva perso il conto degli artisti che avevano implorato Maia di poterla ritrarre, ma la fanciulla si era sempre rifiutata ed aveva mantenuto quella decisione ferma fino a pochi giorni prima. Fino ad Hasmal. Sembrava che quel ritratto avesse sconvolto entrambi: Rafael sapeva che, qualsiasi cosa li legasse, era sepolto negli abissi dell’oceano, e non comprendeva se la risposta ai molti interrogativi lo spaventasse o semplicemente lo incuriosisse.

 

-Quali sono i tuoi programmi per oggi?

 

Maia si voltò verso il padre, distogliendo finalmente l’attenzione dal fidanzato.

 

-Devo recarmi all’atelier di Thompson, credo voglia propormi un abito da indossare alla prossima sfilata, poi sono attesa per un tè all’Astoria ed infine devo andare a controllare che tutto sia in ordine per la mostra sulla Settima a cui farò da madrina domani.

 

Olivier Myrthus storse il naso alla prospettiva del primo incontro, ma sapeva che i tempi erano cambiati con la guerra e che sfilare per uno tra i più importanti stilisti di New York indossando l’abito di punta non era più ritenuto sconveniente; era solo visibilità per Maia e, dunque, per tutti loro.

 

-Stasera abbiamo appuntamento a casa di Ellie, te ne ricordi?

 

Maia annuì. –Certamente. Ora scusate, ma devo andare.

 

E con la stessa rapidità con cui era arrivata se ne andò, abbandonando una tazza di tè a metà.

 

***

La soffitta era un posto della villa che, chi vi viveva da più tempo, aveva dimenticato e della cui esistenza gli ultimi arrivati non erano affatto a conoscenza.

Il tempo l’aveva resa il deposito di tutto ciò che non serviva più, di cimeli appartenenti al passato, condannati all’oblio tra quelle mura ormai rese nere dallo sporco e destinati in scatole che, di tanto in tanto, qualcuno buttava senza neppure curarsi di cosa contenessero. La finestra di legno era chiusa, ma una persiana rotta permetteva ad una lama di luce di filtrare benché non fosse sufficiente per illuminare alcunché, né per far circolare l’aria che puzzava di polvere e sporco; non vi era elettricità lì su e Maia dovette faticare, respirando con la bocca nel tentativo non soffocare, per aprire la finestra e rendere quel posto vivibile almeno per il tempo necessario ai suoi scopi.

 

Alla fine, benché bisognosa di un bagno e con la netta sensazione di avere più di una ragnatela tra i capelli, aveva trovato ciò che cercava… E qualcosa che non stava cercando, che in quel momento giaceva sul pavimento della sua camera. L’abito prescelto era splendido, ma necessitava di essere affidato a mani esperte che lo riportassero all’antica bellezza, mentre il secondo cimelio sembrava talmente antico che non sapeva decidersi se aprirlo o meno.

La curiosità alla fine ebbe la meglio e, delicatamente per paura che le pagine si sbriciolassero tra le sue mani, lo aprì, svelandone un odore così antico da sembrare irreale e una data.

 

Londra 1553.

 

Le parole, fitte ed eleganti, le ricordavano le opere di Shakespeare che Nathanael aveva insistito per farle leggere, nonostante l’incostanza di Maia; alla fine, naturalmente, aveva vinto lui, almeno per le opere più famose, nonostante le avesse interrotte e riprese almeno una decina di volte l’una. Ad ogni modo, la data e la familiarità che poteva leggere tra quelle pagine lo segnalavano decisamente come un diario.

L’autrice, perché di donna si trattava, si firmava Pleis.

 

La cameriera richiamò la sua attenzione nel bel mezzo del ballo di fidanzamento della misteriosa autrice –che fosse anche il giorno del suo compleanno aveva destato in Maia una certa inquietudine, che però si era affrettata a scacciare-, e la giovane Core raggiunse l’auto che l’attendeva all’entrata per condurla da Thompson, ma portò il diario con sé, totalmente rapita dal racconto della giovane inglese.

 

Di quella giornata, degli incontri programmati, Maia ricordava poco, mentre nella sua mente si accavallavano di continuo le parole del diario, istanti di vita appartenuti ad una fanciulla vissuta moltissimi anni prima di lei che, però, per una serie di circostanze, sentiva particolarmente vicina.

 

Chiffon, tulle, seta e organza catturarono per alcuni istanti la sua attenzione all’atelier di Thompson il quale, sulla scia della moda di cui era regina incontrastata mademoiselle Coco, aveva abbandonato i rigidi abiti dell’anteguerra per cavalcare l’onda delle linee più morbide ed essenziali, che lasciavano alla donna maggiore libertà di movimento. Abiti da sera impalpabili, senza maniche e con spalline sottilissime, arricchiti da perline e frange: le donne erano cambiate molto di più in quei pochi anni rispetto a quanto non avessero fatto in decadi e Maia voleva essere parte di quel mondo. Essere regina della moda.

Gli abiti, dopotutto, erano la maschera perfetta per quel mondo in cui l’essenziale era apparire e in cui ciascuno mostrava alla società ciò che la società desiderava osservare: Maia, di quello, ne aveva fatta un’arte.

L’incontro per il tè nell’imponente Hotel Astoria fu noioso, ma socialmente doveroso, e d’altro canto le chiacchiere vuote delle matrone non necessitavano di risposte, permettendole di pensare liberamente al diario. L’unico momento rilevante era stato l’incontro, fortunatamente evitato, con Margaret Brown; si erano incrociate all’entrata dell’hotel, mentre Maia usciva e la donna entrava attraverso le imponenti porte ruotanti. Le separava solo un vetro e la signora Brown tentò di fermare la ragazza, di parlarle: prima che riuscisse ad uscire nuovamente per strada, però, Maia era già salita sull’auto.

Fu allora che una profonda inquietudine la colse, la necessità di qualcosa che non riusciva ad identificare finché, dal lato opposto della strada, un profilo familiare la riscosse.

 

-Fred, accosta per favore.

 

L’autista assecondò il volere di Maia senza replicare e attese in silenzio ulteriori istruzioni, apparentemente senza notare i minuti che trascorsero immobili.

 

-Io scendo qui.- disse infine, -Puoi passare alla galleria e dire che, per un contrattempo, li raggiungerò direttamente domani sera?

 

-Devo passarvi a prendere più tardi?

 

Maia scosse la testa e aprì la portiera, troncando sul nascere qualsiasi replica dell’apprensivo Fred; sapeva di averlo stupito, i cambi di programma non erano assolutamente da lei, ma non se ne curò. La sua mente vagava già lontana da lì.

Se esisteva qualcosa di cui l'incostante Maia non si sarebbe mai stancata, quella era Manhattan. Perché la città era come lei, febbrile e palpitante di vita, sempre in movimento, sempre scintillante. Avrebbe trascorso volentieri la vita solo passeggiando tra quelle strade, ma soprattutto Maia adorava Central Park e era difficile immaginare perché: con quei colori e quegli istanti di vita vissuta strappati allo scorrere del tempo, era un quadro in perenne mutamento.

Si sedette su una panchina godendosi semplicemente il tepore primaverile e svuotando la mente da qualsiasi pensiero. Poi prese il diario.

 

***

Aveva sempre saputo che avrebbe accettato, sin dal primo istante, ma aveva lasciato comunque che cercasse di convincerlo e Nathanael Rafael non l’aveva deluso. L’uomo gli aveva semplicemente esposto la richiesta e l’aveva pregato di accettare.

 

-La mia fidanzata sembra essere rimasta affascinata dalla vostra arte e io non so negarle nulla.

 

Un uomo con sufficiente fiducia in sé da non temere di risultare poco virile ammettendo di essere follemente innamorato della propria donna.

 

-So che non dipingete più su commissione e non ho alcun desiderio di impormi. Se ritenete di poter accettare ve ne sarò grato, perché è sempre più difficile trovare il regalo perfetto per qualcuno che possiede tutto ciò che desideri. Auspico di poterglielo donare per le nozze.

 

Non si era abbassato a mercanteggiare né si era imposto con arroganza come spesso facevano quei ricchi che credevano di potere avere tutto. Una richiesta, pulita e onesta, nonostante non fosse una novità che Hasmal, benché non potesse definirsi povero, non poteva neppure più godere dell’opulenza passata.

 

-Fatemi sapere come posso pagarvi e riferirò al mio avvocato.

 

Quando Rafael gli aveva esposto la richiesta, Gabriel sapeva che avrebbe accettato perché era il mezzo perfetto per avere notizie del quadro. Al termine dell’incontro, però, un’altra curiosità stuzzicava il pittore: chi era Maia Core e quali qualità possedeva per aver conquistato un uomo d’onore come Nathanael Rafael?

La sua vita era perfetta e lei si limitava a prenderne atto, incurante dei dolori del resto del mondo, incurante degli orrori e dei mostri che quotidianamente perseguitavano chi non aveva alle spalle una famiglia pronta a proteggerlo sotto una campana di oro e cristalli.

La giovane Core doveva essere grata, eppure sembrava che, nella sua ottica viziata ed egoista, fosse il resto della popolazione a dover essere grato a lei perché li onorava costantemente con la sua presenza. La sua apparente perfezione provocava in lui l’insano desiderio di sporcarla, di riversare in quella candida anima tutto il dolore che la sua, spezzata e nera, portava con sé.

 

La fioraia davanti il suo appartamento lo accolse con un mezzo sorriso, troppo povera per realizzare che l’uomo che le stava davanti in attesa di un giglio era lo stesso che tutti i giorni la superava senza neppure notarla, con lo sguardo nero e maledetto.

 

***

L’appartamento di Ellie Godwin aveva l’incredibile capacità di contenere senza troppo fastidio molta più gente di quanto ad una prima occhiata sarebbe sembrato possibile, in considerazione delle ridotte misure delle stanze; non che una delle ereditiere più ricche di Manhattan non avesse altre ville e altri appartamenti dentro e fuori la città, ma quello tra Madison Avenue e la Settantanovesima strada garantiva la riservatezza necessaria a far scorrere fiumi di alcol senza essere disturbati.

 

Nathanael si chinò a baciare sulla guancia la padrona di casa, che li aveva accolti sulla porta lieta di poter finalmente parlare con qualcuno che non avrebbe trascorso la serata nel vano tentativo di entrare nelle sue grazie, chi per la scalata sociale, chi auspicando nozze che non avrebbero mai avuto luogo, e Maia glielo affidò, raggiungendo gli amici di sempre ad un tavolo da gioco.

Ad essere onesti, la piccola Core non amava giocare, il rischio non scorreva nelle sue vene e di solito si limitava ad assistere alle perdite e alle vittorie altrui, bevendo champagne e fornendo commenti sui partecipanti alla festa, rendendo il tentativo di concentrarsi dei giocatori assolutamente vano. Quella sera, però, l’irrequietezza del pomeriggio aveva lasciato il posto ad una strana euforia e, se la fanciulla avesse avuto la costanza di soffermarsi a riflettere, avrebbe compreso che le parole contenute nel diario, nonostante avessero più di trecento anni, erano così attuali che se le sarebbe potute cucire addosso e le sarebbero calzate perfettamente.

 

Una vita perfetta. Un fidanzato perfetto.

 

E un organista, un compositore del re, che era entrato nella vita di Pleis senza scalpore, semplicemente offrendole un dolce.

 

-Ho voglia di giocare stasera, cosa aspettate?

 

Maia, però, non possedeva quella caratteristica e i pensieri sfuggirono nella sua mente senza neppure avere il tempo di prendere forma e se Nathanael si stupì per la decisione della fidanzata non lo fece trasparire.

 

Dopotutto, perché avrebbe dovuto?

 

***

Il cancello di ferro si aprì con un semplice gesto secco, consentendo al visitatore di varcare la soglia ed entrare in un luogo in cui regnava incontrastata un’unica regina: la morte.

 

Il cimitero di Green-Wood, al pari di tutti i cimiteri, la notte possedeva l’inquietante capacità di sembrare affollato nonostante fosse deserto, come se tutte le anime con il calare della notte uscissero dai propri giacigli per tornare a vivere una vita a metà, spezzata e apparente.

Forse per quel motivo l’uomo amava quel luogo: la sua vita, dopotutto, non era molto diversa. Camminò attraverso le lapidi e i monumenti con la sicurezza di chi conosce quelle strade e potrebbe percorrerle anche con una benda a coprirgli gli occhi.

 

Si fermò solo una volta, davanti alla tomba in cui riposavano i resti mortali di Lola Montez, cortigiana irlandese.

 

Dov’era?

 

La risposta alla domanda che l’aveva perseguitato negli ultimi nove anni era custodita nella memoria di una fanciulla viziata ed egoista; quasi riusciva ad immaginarla mentre osservava distrattamente la donna –quella donna!- senza avere la minima idea di chi fosse e di quale storia portasse con sé.

 

Lei non sapeva, non aveva idea, nella sua vita perfetta, di quali fossero i dolori umani, le perdite e i sensi di colpa che corrodono dall’interno fino a condurre alla follia.

 

-Ma lo saprà.- sussurrò nel silenzio del cimitero, davanti a quella tomba. –Saprà cosa vuol dire perdere tutto e continuare a vivere con solo i propri mostri come costante compagnia. Lo saprà.

 

Un’ossessione. Una stessa melodia ripetuta all’infinito, le stesse identiche note ancora e ancora e ancora, lo stesso colore e la stessa pennellata fino allo stremo, fino al delirio.

 

-Sarai il mio capolavoro, Maia Core.

 

***

Quando una mano sfilò la sigaretta dal bocchino, Maia seppe immediatamente a chi apparteneva. 


-Dovresti davvero smettere di torturare così il mio adorabile bocchino d'argento, non foss'altro che perché me l'hai regalato tu.

 

Nathanael sorrise, consapevole di come in realtà la sua fidanzata fosse più divertita che infastidita: in genere Maia lasciava che le sigarette si consumassero da sole, senza essere fumate. Il bocchino per le signore era come il tagliasigari per gli uomini, una manifestazione del proprio status e della propria ricchezza, uno dei molti vezzi che la società bene di quegli Stati Uniti post guerra non si faceva mancare. Nathanael li osservava con distacco, conscio di come la sua stessa persona, avvolta in abiti sempre impeccabili ma mai abbelliti da inutili fronzoli, mostrasse al mondo chi fosse: un uomo ricco, colto, posato. Un uomo d'affari, un uomo d’onore, una persona su cui fare affidamento.

 

-Io sto tornando a casa.

 

La ragazza piegò le labbra in una smorfia vezzosa -Ti prego, solo un'altra partita. 

 

-Non voglio trascinarti via. Se uno di questi gentili cavalieri mi promette di scortarti a casa, ti affido a loro.

 

-Oh sì, vi prego!

 

Entrambi i giovani seduti al tavolo annuirono davanti a quelle ciglia lunghe che sbattevano imploranti e Natahanel provò una sincera tenerezza per loro: amici di Maia sin dalla più tenera età, ancora non si erano abituati a lei ed erano succubi del suo fascino costantemente.

 

-Allora a domani mia adorata. Ah, e prima che mi dimentichi: il pittore ti attende alle undici da lui. Fred è già stato istruito.

 

Si chinò a baciarle la guancia e si voltò per andarsene, ma lei lo fermò e gli sfiorò le labbra con le proprie.

Anche lui sarebbe stato sempre succube del suo fascino. Irrimediabilmente.

 

Forse fu l’assenza di Rafael a spingere i ragazzi ad allontanarsi da casa di Ellie: non che Nathanael avesse mai posto dei limiti ai loro divertimenti, ma istintivamente si sentivano tutti in soggezione davanti a lui che, pur avendo pressappoco la stessa età, lavorava da sempre ed era in grado, al contrario della maggior parte dei giovane newyorkesi, di assumersi le proprie responsabilità. E Maia, dopotutto, lontana dal fidanzato sembrava assumere una connotazione diversa, come se indossasse la maschera della fanciulla spensierata smettendo quella della fidanzata modello. Quella sembrava essere la notte perfetta per l’Ades.

 

***

Un imponente uomo di colore aprì loro la porta sul retro di una lavanderia, immersa nel buio e nel silenzio al punto che il suono dei tacchi delle signore sembrava risuonare più e più volte. Maia respirò a pieni polmoni l’odore di pulito e sfiorò appena gli abiti appesi a lunghe sbarre di legno, lavati e pronti ad essere recapitati al mittente; aveva sempre pensato che vi fosse un abisso tra i vestiti mai indossati e quelli che, al contrario lo erano stati, come se assorbissero parte della vita –dell’anima- dei proprietari che irrimediabilmente li mutava. Era un dettaglio impercettibile, una sensazione che lì, tra quelle mura, era più viva che mai.

 

-Maia, darling, hai intenzione di rimanere qui oppure vuoi varcare le porte dell’inferno?

 

Un trono, uno scettro e un serpente, disegnati su una porta anonima che solo qualcuno che ne conosceva l’esistenza avrebbe notato. Simboli insignificanti per la maggior parte dei visitatori della lavanderia, domestici o borghesi che non avevano il minimo sentore dell’esistenza di quel locale clandestino celato tra quelle mura.

L’Ades era l’emblema stesso di quella società post guerra che, come se avesse dimenticato il vero inferno, o forse per dimenticarlo, lo aveva sostituito con le meraviglie peccaminose che quegli Stati Uniti contraddittori avevano apparentemente vietato.

 

Li accolse la voce della cantante al ritmo sinuoso del jazz e Maia si lasciò trascinare, perduta in un'estasi di bellezza. I locali clandestini non erano una novità per lei, ma prima di allora aveva sempre avuto Nathanael al suo fianco e quella libertà la esaltava e, al tempo stesso, la faceva sentire in colpa. Eppure la vita era lì, dietro le mura di una lavanderia, con lo champagne che scorreva a fiumi e l'odore di tabacco e profumi di donna; la cantante aveva ripreso l’esibizione e la giovane Core vide i suoi amici spostarsi sulla pista da ballo, pronti a perdersi in quella notte che pareva infinita. Maia iniziò a farsi strada tra donne splendenti e uomini alla moda, godendosi le occhiate di apprezzamento e i saluti che le venivano rivolti, finché qualcosa -un istinto?- non la fece fermare e voltare verso uno dei tanti angoli bui del locale, così stridenti con la luminosità del palco. Lui era lì, attorniato da persone eppure irrimediabilmente solo, come se nessuno potesse raggiungerlo. Lui era lì e la fissava e Maia rimase immobile, mentre il battito del proprio cuore impazzito le risuonava nelle orecchie. Dopo un eterno istante di immobilità Gabriel alzò il bicchiere verso di lei, in un muto brindisi, ma qualcuno la spinse e, in quell'attimo di distrazione, lui sparì.

 

 

 

L’ abito, bianco e oro, la mostrava in tutto il suo splendore virginale,

come si addiceva ad una dama del suo calibro. L’estate del 1553 era appena iniziata e gli inglesi sembravano come sospesi, in attesa di sapere se il giovane re sarebbe sopravvissuto.

Nella freschezza dei suoi sedici anni appena compiuti, però, Jane Pleis Clinton non se ne curava.

Quella sera tutta la nobiltà inglese era riunita a celebrare il suo fidanzamento con George Hastings, conte di Huntingdon,

compresa Lady Grey, l’erede al trono, di cui era stata dama di compagnia fino a poche settimane prima.

Tutto era perfetto, tutto era come sarebbe dovuto essere, finché un giovane che non aveva mai visto prima non le aveva offerto un pasticcio dolce al melograno.

-William Fitzherbert, mia signora. Per servirla.

E il mondo intero sembrava racchiuso in quegli occhi grigi.

 

Maia osservò l’abito che aveva scelto, l’abito con cui Gabriel l’avrebbe ritratta. Bianco e oro.

E una collana di melograno.

 

La stoffa era intrisa d’acqua, il blu sembrava così scuro da sembrare nero e il corpetto le toglieva il fiato.

Il gelo le era penetrato nelle ossa e neppure la coperta che qualcuno le aveva adagiato sule spalle era servito a riscaldarla.

Ma da dove proveniva tutta quell’acqua?


 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

Note delle autrici


(1) John Steinbeck

(2) Amleto, Atto II, Scena II



Le strade delle nostre protagoniste finalmente si dividono: c'è chi sale su un aereo, chi partecipa a feste clandestine e chi... Si ritrova a casa regali osceni.
Per questo capitolo abbiamo deciso di invertire l'ordine delle protagoniste e l'idea era di farlo anche in futuro, così da rendere non solo la storia più dinamica, ma anche più in armonia con l'idea che vorremmo dare del susseguirsi temporale. Se, però, questo vi causi confusione, fatelo presente!
Grazie, ancora una volta, a chi ci ha recensite, a chi ci fa sapere cosa ne pensa di questa avventura in altri luoghi e a chi ha inserito la storia tra le ricordate/seguite/preferite. Grazie davvero!




 


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Un abbraccio a tutti

Agnes, Emily e Lyra.

PS: Cos'é che dovete dire? "Duncan we love you". Ripetete...coraggio. Bravissimi! Alla prossima!






   
 
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