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Autore: Rinalamisteriosa    11/11/2013    5 recensioni
Hanabi si stava preparando. Era al ritornello, concentrata e attenta a non sbagliare neanche una nota.
Le dita affusolate si muovevano agilmente sulla tastiera del pianoforte, seguendo un percorso studiato e preciso, producendo la melodia di cui aveva bisogno.
Un urlo di gioia, però, interruppe l’esecuzione.
Si voltò perplessa a osservare la porta, ma lui era già uscito, sbattendola senza alcun riguardo.
Dopo almeno un minuto, da sotto, udì Kiba chiamare ad alta voce qualcuno. E poi una risata vivace, probabilmente la sua, le fece pensare che era davvero molto, molto contento di vedere – di rivedere – questa persona.
Hanabi decise di affacciarsi alla finestra più vicina, anche perché ormai era curiosa e la curiosità le avrebbe impedito di suonare senza commettere errori.

[Seconda classificata al “Canvas contest - Scrivi e scegli un canovaccio per la tua fanfic!” indetto da Ayumi Yoshida]
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hanabi Hyuuga, Kiba Inuzuka | Coppie: Kiba/Hanabi
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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[Partecipante al “Canvas contest - Scrivi e scegli un canovaccio per la tua fanfic!” indetto da Ayumi Yoshida]

 

 

 

Autore del canvas: Mokochan

Personaggio e/o coppie: Kiba/Hanabi

Rating: Giallo

Prompt: "Ascolta, so che per te dovremmo chiuderla qui, ma io non voglio rinunciare a questa cosa anche se non sappiamo che cosa sia. Voglio riaprirla... per favore possiamo riaprirla? E prima che tu dica di no... non dire di no." [frase tratta dal telefilm "New Girl"]

Avvertimenti e/o note: introspettivo

Altro: vorrei che fosse una AU

 

 

 

*

 

 

La loro convivenza era iniziata con le soavi note di una bella melodia.(#)

Questa era giunta alle sue orecchie, mentre varcava per la prima volta la soglia dell’appartamento, chewing-gum tra i denti e borsone in spalla.

Si tolse le scarpe.

Evidentemente uno dei due coinquilini con i quali avrebbe diviso le spese e l’affitto studiava musica, così, incuriosito, decise di andare e presentarsi.

Scoprì che si trattava di una ragazza.

Era minuta, con la schiena perfettamente diritta mentre sedeva sullo sgabello di un pianoforte, con i lunghi capelli che ricadevano come i rami di un salice piangente, con le braccia e le gambe così magre da fargli pensare di trovarsi dinnanzi una che mangiava poco.

Non poteva vederla in viso, perché lui era dietro di lei, a circa sei passi di distanza.

E continuava a suonare, come se nulla potesse disturbarla, chiusa in un mondo a parte.

Allora si schiarì la voce, annunciando la sua presenza nella stanza, obbligandola suo malgrado a fermare il dito su un “la” acuto.

La pianista voltò appena il capo.

«Ciao», la salutò. «Io sono il tuo nuovo coinquilino. Vuoi sapere come mi chiamo, o la cosa ti disturba?» domandò.

«No. Mio cugino Neji mi aveva avvisato, sapevo del tuo arrivo, Inuzuka-san».

«Immagino che sia lui, l’altro coinquilino». Sorrise, certo di averci azzeccato.

«Lo conoscerai più tardi. Ti mostro le camere», decise, alzandosi in piedi e procedendo schiva verso la sua sinistra. Non si era ancora degnata di guardarlo negli occhi… Ah, questi artisti! Davvero strani.

Con un’alzata di spalle, lui le andò dietro.

«Sei formale, nonché scortese. Non mi hai ancora detto il tuo nome», le ricordò.

«Hyuuga… Hanabi».

«Hanabi, eh? Interessante… Il mio invece è Kiba, anche se lo saprai già», insinuò, dando per scontato che il cugino della ragazza dovesse essere ben informato. “Chissà che tipo è…” pensò.

Lei si limitò a sospirare, per poi fermarsi in prossimità di una porta chiusa.

Finalmente si girò e lui scoprì i suoi occhi. Chiarissimi, inespressivi, per nulla timorosi.

«Tu dormirai in questa. La stanza di fianco è sua, mentre quella in fondo la sto occupando io», spiegò in modo spiccio ed essenziale.

«Ah… ok».

Il giovane annuì, distogliendo lo sguardo da quegli occhi tanto particolari, che l’avevano colpito, anche se non l’avrebbe ammesso tanto facilmente.

La camera era piccola e confortevole; semplici erano l’armadio, la scrivania, la sedia e la poltrona.

Una piccola TV al plasma appesa alla parete laterale sarebbe stata un ottimo diversivo, nel caso in cui non avesse preso subito sonno.

Si voltò per ringraziare Hanabi, ma lei non c’era più.

«Grazie, eh!» esclamò ugualmente, per nulla risentito, chinandosi a disfare il borsone con le sue cose.

“Mi aspetta una convivenza davvero interessante… Già”, pensò tra sé, masticando il chewing-gum, anche se non rivide l’incomprensibile Hanabi per qualche ora, né la sentì suonare.

 

 

*

 

 

Uscì dalla doccia tutto gocciolante, pulito e rigenerato.

Dall’apposito sgabello da bagno recuperò l’asciugamano da assicurarsi in vita e un altro per la testa.

Attraversò il corridoio frizionando i corti e arruffati capelli castani.

Una volta raggiunta la sua stanza, però, si accorse che mancava la felpa che voleva indossare, quindi si mise il resto - boxer e pantaloni della tuta - per poter andare in soggiorno.

Hanabi era seduta compostamente al solito posto, ma invece di esercitarsi al piano teneva le cuffie nelle orecchie e un lettore CD tra le mani.

«Hanabi?» la chiamò.

Nessuna reazione. Non l’aveva sentito. Riprovò alzando la voce, ma lei rimase immobile e concentrata nell’ascolto.

«Senti un po’…» si avvicinò e con un dito le picchiettò la spalla, finché non ottenne la sua attenzione.

La ragazza, voltandosi, si trovò davanti il petto del giovane, e distogliendo veloce gli occhi sgranati arrossì. Non se l’aspettava.

«Per caso sai dov’è finita la mia felpa grigia?» chiese, chinandosi appena per scrutare il profilo delicato della ragazza, constatando che doveva essersi imbarazzata.

«S-sì… La felpa. Secondo me aveva bisogno di una rinfrescata e l’ho messa… l’ho messa in lavatrice», rispose, in evidente disagio.

«In lavatrice?».

«Non preoccuparti, ho usato il lavaggio delicato. Vuoi che esca fuori e veda se è asciutta?» proseguì, sempre senza guardarlo. Se diceva di sì, almeno aveva una scusa buona per dileguarsi.

«Mh. A dire il vero non c’è fretta, no», dichiarò, sorridendo sornione. Forse la piccola Hanabi non era così insensibile e controllata come gli aveva fatto credere in tutti quei giorni passati sotto lo stesso tetto.

Senza chiedere il permesso, si sedette accanto a lei, rubandole una delle due cuffie.

«Cosa stai ascoltando?» s’incuriosì. Non che volesse interessarsi ai gusti musicali di lei, ma per non farsi cacciare doveva pur intavolare una conversazione.

Hanabi aveva sussultato, ad averlo al suo fianco, ma si era ripresa quasi subito.

«Questa canzone la suonerà una collega al suo prossimo concerto con il violino, senza le parole. Mi ha chiesto gentilmente se posso accompagnarla con il piano, e io ho accettato», spiegò senza esitazioni. «Anche se mi ha dato lo spartito, ho bisogno di ascoltarla più volte, per capire i tempi».

«Come si chiama? Mi sembra di non averla mai sentita…».

«È Inori. La canta Lena Park», lesse dalla custodia del CD.

Kiba le restituì la sua cuffia. «Sicuramente la suonerai benissimo. Non è il mio genere, ma per quel poco che ho sentito, sembra che faccia stare bene… È il classico crescendo di sentimenti ed emozioni che piace a voi ragazze, no?» disse il suo parere, incrociando le braccia dietro la testa.

Vedere quei muscoli in tensione la fece sentire nuovamente in imbarazzo. Puntò il suo sguardo sugli ultimi tasti del pianoforte e prese un bel respiro, mentre Kiba fissava lei.

«Non so che dire. Penso che capirò meglio quando proverò quella cosa…» mormorò, per poi spostarsi e alzarsi in piedi. «Vado a vedere se la tua felpa è asciutta!» esclamò, sparendo dalla porta d’ingresso.

In effetti, Hanabi era solita stendere il bucato su, nella terrazza. Sorrise tra sé. Era naturale che un’artista celasse certi pensieri. Ma era sorprendente che la pensassero allo stesso modo. Quella cosa… A dispetto delle apparenze, nemmeno lui l’aveva ancora provata.

 

 

*

 

 

Hanabi si stava preparando. Era al ritornello, concentrata e attenta a non sbagliare neanche una nota.

Le dita affusolate si muovevano agilmente sulla tastiera del pianoforte, seguendo un percorso studiato e preciso, producendo la melodia di cui aveva bisogno.

Un urlo di gioia, però, interruppe l’esecuzione.

Si voltò perplessa a osservare la porta, ma lui era già uscito, sbattendola senza alcun riguardo.

Dopo almeno un minuto, da sotto, udì Kiba chiamare ad alta voce qualcuno. E poi una risata vivace, probabilmente la sua, le fece pensare che era davvero molto, molto contento di vedere – di rivedere – questa persona.

Hanabi decise di affacciarsi alla finestra più vicina, anche perché ormai era curiosa e la curiosità le avrebbe impedito di suonare senza commettere errori.

Doveva essere importante per lui se gli scatenava tali reazioni.

Speciale.

Non sono gelosa”, si disse Hanabi, per giustificare il suo pensiero. Ma quando lo vide, sospirò di sollievo, assistendo a una scena che la fece quasi sorridere.

Era un cane enorme, quello che stava leccando la guancia di Kiba mentre il ragazzo gli dava pacche affettuose sulla testa e sulla schiena.

«Che bella sorpresa, nee-san! Ti ringrazio per aver portato qui il mio Akamaru», si rivolse così alla donna che si stava avvicinando, dopo aver posteggiato la macchina accanto a un albero.

La giovane rispose tranquillamente, ma da dove si trovava Hanabi non riuscì a sentire la sua frase.

Anche lei aveva una sorella più grande, magari poi gli avrebbe fatto sapere questa cosa che li accomunava, per poi stupirsi nuovamente dei suoi stessi pensieri.

A furia di osservarlo nella sua gioia selvaggia, finì per essere scoperta: Kiba a un certo punto voltò la testa, alzandola verso l’alto, mentre lei, colta in fallo, cercò di sparire abbassandosi. Troppo tardi.

«Guarda che puoi scendere. Akamaru non ti mangia mica!» gridò lui, schernendola lievemente.

Hanabi si dileguò e fu molto combattuta per qualche minuto, perché rispettosa degli spazi altrui e mai invadente, ma alla fine acconsentì.

Quando li raggiunse, constatò con un certo timore che quel cane, al momento accucciato ai piedi del suo padrone, era davvero enorme. Però aveva un bel pelo bianco con qualche chiazza di marrone.

Voleva accarezzarlo, ma la guardava fisso, come se la stesse studiando, con la coda immobile.

«Avvicinati», la spronò Kiba, il sorriso sprezzante e sicuro. «Se non gli sei simpatica, al massimo ti ringhierà contro. Ma non ti sbranerà se non glielo ordino, perciò non temere».

Hanabi fissò il ragazzo spalancando gli occhi chiarissimi, come se dicesse: “Non sei per niente rassicurante, così”, per poi provare.

Contraendo le labbra, si scostò la ciocca di capelli, che le ricadeva spesso lungo il viso, con la stessa mano che tese verso Akamaru.

Sorprendentemente, quel cucciolone si lasciò accarezzare senza emettere alcun ringhio o verso sospetto, arrivando addirittura a leccarle docile il palmo.

«Visto? Sembra che tu gli piaccia», affermò. Chi meglio di lui poteva capire il suo fedele Akamaru?

Abbagliando, l’animale confermò ciò che aveva detto, facendo ridere di gusto entrambi.

«Dai, amico, facciamole vedere come ci divertiamo!» lo incalzò Kiba, scattando in avanti e venendo subito rincorso vivacemente dal suo cane.

«Adesso capisco perché vuole fare il veterinario…» ricordò Hanabi, pensando a quando una mattina, mentre prendevano la colazione insieme, le aveva riferito di questo lavoro a cui aspirava da quando aveva memoria. La sorella di Kiba, Hana Inuzuka, la sentì e annuì, affiancandola.

«Sembra uno sbruffone, ma in realtà ha un cuore grande», le comunicò, lanciandole un’occhiata eloquente. Hanabi, con le guance color porpora, invidiò la lunga treccia di quella bella donna, che in viso somigliava tanto al suo coinquilino.

«Non sono la sua ragazza, se sta pensando questo…» si difese.

«Oh, non lo pensavo affatto», replicò tranquillamente, anche se non si capiva bene se stesse mentendo oppure no.

Hanabi scosse il capo, lasciando correre, mentre Kiba giocava ancora a rincorrersi con Akamaru, e i due erano ignari di tutto.

Poi lei assistette senza pensieri al gioco del riporto, con un ramo mezzo rotto che il giovane aveva staccato del tutto dall’albero, finché Hana non disse che era tardi e che doveva riportare Akamaru a casa, dalla loro madre.

 

 

*

 

 

Kiba era appena rientrato da un’uscita tra amici, da una serata piuttosto divertente, e mai si sarebbe aspettato di trovare Hanabi sul divano, l’aria sconsolata e abbattuta, come se fosse vicina alle lacrime.

«Ehi… piccola, cosa è successo?» si premurò di domandare, tendendo una mano verso la sua spalla.

Siccome lei si ostinava a non rispondere, a sfuggirgli, a puntare lo sguardo ovunque, ma non nella sua direzione, si piazzò di fronte e le sollevò con gentile fermezza il mento.

«È per le prove? Non sei andata bene?» persisté, desideroso di conoscere il motivo del suo turbamento.

«O forse ti è stato fatto del male? Rispondimi, accidenti! Vorrei aiutarti, ma come cavolo faccio se non ti confidi con me?!».

L’aveva convinta, perché finalmente parlò.

«Le prove generali sono andate benissimo. Però…» esitò.

«Però?» ripeté, esortandola a continuare con un sorrisetto dei suoi.

«Sono stata perfetta come si aspettavano, però mi hanno detto che non ci ho messo sentimento. Ecco cosa! Non sono stata in grado di trasmettere loro qualcosa…» si sfogò, scansando la mano del ragazzo, piegando le gambe sul petto per poi abbracciarle.

E continuò: «Non è la prima volta che me lo fanno notare. Fin da piccola, sono sempre stata la figlia perfetta, quella a cui riusciva tutto al primo colpo, o comunque mi bastavano pochi tentativi. Mia sorella invece era goffa, ma nonostante questo non si arrendeva, non ha mai smesso di impegnarsi nelle cose che faceva».

«E questo che c’entra?» s’intromise Kiba, mentre Hanabi faceva una pausa. Lei inspirò.

«È questo che intendono. Questo! L’impegno, l’emotività, la passione… comincio a credere di non essere capace di mostrarle agli altri. Di farle mie, completamente mie, per poi condividerle…» rifletté, suonando un po’ pessimista, arrendevole.

«Che sciocchezza!» replicò lui, infervorandosi. «Tu sbagli a dare retta a certi preconcetti, e non so nemmeno se sia questa l’espressione giusta, ma chi se ne frega! Ascoltami bene, Hanabi! – Le afferrò le spalle con irruenza e lei lo guardò, confusa. – Quel giorno hai ammesso di non capire bene “quella cosa” che non hai mai prova-».

«Sì, ma-».

«Allora, quando suonerai sul palco, davanti a un pubblico che si aspetta che tu trasmetta un’emozione, pensami. Pensaci, okay?».

Così, dopo essersi interrotti a vicenda, dopo questa raccomandazione sentita di lui, che la fissava intensamente con i suoi occhi così belli e probabilmente carichi di “quella cosa” che andava cercando, lui che si fece più vicino, respirandole sulle labbra prima di sfiorarle con le proprie, Hanabi comprese.

«Fidati! Tu pensa a questa cosa tra di noi e andrà tutto bene», la rassicurò. E non ci fu bisogno di aggiungere altro, all’inspiegabile e meravigliosa intesa che avevano raggiunto.

 

 

 

Il giorno dopo, tornando a casa, Hanabi sorrise raggiante, come non le capitava da tempo immemore.

Voleva ringraziarlo, raccontargli tutto, che aveva realmente pensato a lui, ai baci che si erano dati, che alla fine dell’esecuzione il pubblico aveva apprezzato con un forte applauso, mentre la sua amica si era complimentata con lei e la direttrice le era sembrata sinceramente commossa.

Quando Kiba aprì la porta, Hanabi lo abbracciò di slancio, stretta nel suo elegante abito nero.

«È stato bellissimo. Io…» esordì, ma lui si era staccato per farle sapere che non c’era bisogno che aggiungesse altro.

«C’ero anch’io allo spettacolo, Hanabi. Non devi dire nulla, so già com’è andata», confessò con un sorriso che faceva concorrenza al suo, per poi congiungere le loro labbra.

«Potevi dirmelo che venivi! Comunque grazie… è merito tuo», sussurrò con un finto broncio, quando si fece indietro. Allora Kiba la sollevò dai fianchi, la fece girare, ridere di cuore, e rimettendola giù ebbe nuovamente la tentazione di baciarla.

Questa cosa tra loro era più bella ed evidente che mai.

Così evidente che il cugino li sorprese a scambiarsi un lungo bacio per nulla semplice e casto.

Lei si staccò con un “ops!” un po’ nervoso, imbarazzata, mentre lui ebbe abbastanza faccia tosta e coraggio da dire a Neji: «Ebbene sì, da oggi stiamo insieme. Qualche problema?».

La versione maschile e spesso assente di Hanabi – così soleva definirlo Kiba, poiché i due cugini erano molto simili – scosse il capo. Se era stupito o infastidito dalla cosa, lo stava mascherando perfettamente.

«Per me no, se lei è felice. Ma mio zio potrebbe essere un problema…» rispose controllato, ma vago.

«Correremo il rischio!» esclamò sprezzante Kiba, cingendo senza alcun timore le spalle esili della ragazza, che aveva chinato il capo e più di una ciocca, sfuggita all’acconciatura elaborata che le era stata fatta prima del concerto, le era caduta giù.

«Come volete», sospirò rassegnato Neji, superandoli, diretto nella propria stanza.

«Scommetto che quel genio di tuo cugino l’aveva intuito già da tempo, che c’era qualcosa fra noi», Kiba ruppe il silenzio che si era creato, non sapendo che altro pensare.

«Può darsi», replicò Hanabi, sgusciando lesta dalla sua presa e mettendo subito in chiaro che sì, stavano insieme, ma questo non lo autorizzava a starle sempre appiccicato.

«Oh. Ora la pensi così, ma un giorno non ti dispiacerà stare appiccicata a me», ribatté, pieno di malizia, «in tutti i sensi».

Lei assunse una tonalità rosso fuoco. «Appunto! Non farti strane idee!» squittì, venendo poi travolta dal corpo del giovane, che ridendo la strinse a sé.

«Non preoccuparti, aspetterò…» la tranquillizzò Kiba, accarezzando quei capelli fini, inspirando il suo profumo, delicato come lei.

Con incrollabile ottimismo, pensò che niente e nessuno l’avrebbe separato dalla donnina speciale che stava abbracciando, ma si sbagliava.

Non aveva minimamente considerato l’imminente partenza di Hanabi.

 

 

*

 

 

«Partita? Non sapevo… Perché non ha detto…?».

Kiba era chiaramente spiazzato, disorientato e confuso.

«Le avresti impedito di andare via», la giustificò il cugino, mentre beveva tranquillamente una tazza di tè verde. Il suo comportamento serafico, però, lo portò all’esasperazione. Attese che poggiasse l’infuso al sicuro, prima di agguantarlo per il colletto della camicia.

«Piuttosto, non è che hai fatto la spia, bastardo?!» ringhiò.

Ripensò alla camera vuota della ragazza, al pianoforte coperto da un telo in soggiorno e al senso di abbandono che l’aveva preso in una morsa per nulla piacevole.

«No. La questione in realtà è più seria: mio zio si è ammalato. E anche se i medici sostengono che non sia nulla di grave, lui deve stare a riposo. Ha bisogno di sua figlia, in questo momento», chiarì, apparentemente impietoso, minimamente toccato e intimorito dalla sua inquietudine.

«Perché proprio lei?» insisté, scrollandolo.

«Sai bene che io lavoro. E Hinata da questa sera andrà all’estero per uno stage importante», rispose.

Kiba allora capì che era sincero, che prendersela con lui sarebbe stato controproducente, e mollò la presa. Non si era ancora calmato, però. Sfogò la sua rabbia e la sua frustrazione con un pugno dritto al muro.

«Merda! Maledizione!» imprecò, spostando la fronte aggrottata sul suo braccio.

A questo punto, poteva tentare soltanto quel colpo di testa.

Neji stava uscendo dalla cucina, quando lui lo fermò con l’unica frase logica.

«Dammi l’indirizzo. Vado da lei».

Si fissarono, uno fermamente deciso, l’altro vagamente perplesso.

«Peggiorerai soltanto le cose».

«Puoi darmi questo fottuto indirizzo?» sbottò, andando verso di lui e aggiungendo: «Ascolta, so che per te dovremmo chiuderla qui, ma io non voglio rinunciare a questa cosa anche se non sappiamo che cosa sia. Voglio riaprirla! E prima che tu dica di no... per favore, non dire di no».

 

 

 

“Ho scoperto che anche Neji Hyuuga ha un cuore”.

Kiba ghignò, uscendo dall’appartamento, con tutta l’intenzione di dirigersi alla stazione, la stessa in cui Hanabi aveva preso il primo treno del mattino.

Il prezioso biglietto con l’indirizzo stava stretto nella mano destra, ficcata nella tasca larga della sua felpa grigia, la stessa che Hanabi aveva lavato in lavatrice qualche settimana prima.

Con l’altra mano reggeva il suo borsone, preparato in tutta fretta, pieno dell’essenziale.

Levò lo sguardo al cielo terso, rilassato al pensiero che si sarebbero rivisti presto, prima di quanto lei potesse immaginare.

“Perché non m’importa cosa pensa la tua famiglia. Io ti raggiungerò, piccola Hanabi”.

 

 

 

 

 

 

_

(#) ho pensato a questa (ma voi potete anche immaginarne un’altra classica, se non vi piace ^^)

 

 

 

Note: Ho scritto questa storia in un mese, causa ispirazione altalenante, studio e altri impegni ^^'

Immaginate quindi la mia gioia, quando sono arrivata all’ultima frase! Potete? *__*

Ovviamente i personaggi citati non mi appartengono e non ho scritto a scopo di lucro.

Ovviamente, trattandosi di una semplice AU, i nostri eroi non sono ninja, ma ragazzi normali che si preparano per svolgere una determinata professione – Kiba dovrebbe studiare (xD) per diventare veterinario, Hanabi invece dovrebbe specializzarsi in pianoforte.

Ovviamente c’è il finale aperto, ma non credo che scriverò il seguito, per me è già tanto se sono riuscita a trovare il modo di rispettare il prompt obbligatorio xD mi auguro sia chiaro che la vicenda non si svolge tutta in pochi giorni, ma le varie scene accadono dopo svariati giorni, anche dopo una settimana.

Tra l’altro, vi ho presentato la mia personale visione di Hanabi Hyuuga. Un personaggio che sarà comparsa sì e no tre volte, per quel che ricordo, quindi spero che vi piaccia la sua caratterizzazione ^^

Non esco pazza per la coppia, ma adoro Kiba, spero di aver reso giustizia anche a lui >.<

Ah, e immaginateli nell’età che preferite, considerando che Hanabi è la più piccola (ma non troppo) e Neji il più grande dei tre.

Per finire, ringrazio tanto Ayumi per la proroga e per le correzioni =)

 

A presto!

Un bacione,

Rina

 

 

 

  
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