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Autore: KillingJoker    13/11/2013    2 recensioni
Un uomo con un passato misterioso, arrivato esausto in un villaggio pacifico ed isolato dopo un lunghissimo viaggio. Un cavaliere instancabile che viene fermato da un ponte. Un cavallo che sparisce lasciando a terra solo ossa.
-"Il loro dovere era di primaria importanza su tutto. Sulla carità, sul riposo, sul cibo e persino sulla stessa vita. Nulla avrebbe dovuto fermarli. Nulla avrebbe osato..."-
A metà tra il solito fantasy e una moderna visione della magia e delle ambientazioni, questa è una storia di misteri e di strani personaggi, di potenti magie e di antiche entità. Il classico dei classici? Forse. Ma spero che resti comunque interessante.
Buona lettura
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La Coltre Rossa

-Prologo-

‘Guarda fuori dalla finestra. Se è una bella giornata esci a godere del profumo della tua collina, il verde prato intorno alla tua casa. Se non lo è resti dentro, e lavori a qualcosa. Non è forse così? Ma mi chiedo che cosa… che profumo senti? A cosa lavori? Ci sono tante cose che non conosco di te, Agristan.’

Si svegliò di soprassalto. Di nuovo. Chi diavolo era? Chi conosceva il suo nome e le sue abitudini? E soprattutto cos’altro sapeva di lui? Ogni notte lo tormentava da ormai tre giorni. Finché non fosse andato da lui a cercarlo, gli andava bene. O era forse una donna? Non riusciva a capirlo. Quella voce era così… lontana. Assente, eppure sempre presente. Come se non fosse di nessuno, o di tutti.

Agristan si alzò, lentamente. Guardò fuori dalla finestra, che tempo faceva? Un tempo strano. Di quelli che a lui proprio non piacciono. Non ci sono nuvoloni, non tira vento. Non minaccia di piovere. Eppure il sole non c’è. E’ tutto così cupo. Non vi è mai capitato di trovare un tempo così? Ma sì, prima o poi capita a tutti. E quindi cosa poteva fare con un tempo così? Era davvero indeciso. Poi capì. Vide dei bambini correre davanti alla sua casa, facendo volare un aquilone. Di vento neanche l’ombra, eppure l’aquilone volava. ‘Ma certo!’, intuì. ‘Non serve il vento per farlo volare, basta volere a tutti i costi che voli’. Pensò a tutte le volte che aveva rinunciato a qualcosa perché non aveva trovato le condizioni giuste per ottenerla, e sorrise amaramente. Poi il filo si spezzò, e l’aquilone cadde. Era evidentemente troppo vecchio. “E ora cosa faranno?” mormorò. Ma i bambini sono sempre pieni di mille sorprese. E allora fecero un bel nodo al filo, e poi un altro, per essere sicuri che reggesse, e ricominciarono a correre. Agristan pensò a tutte le volte che aveva rinunciato a qualcosa perché il suo filo si era spezzato, e sorrise amaramente.

Ma un bambino cosa avrebbe fatto al suo posto? Ci pensò a lungo. Poi prese uno dei lacci di cuoio che usava per i suoi lavori ed uscì di casa. Fermò i bambini e con la dolcezza di una madre si prese cura del loro aquilone: tolse il vecchio e malridotto filo di spago e lo sostituì con quello di cuoio. Poi, senza nemmeno aspettare che lo ringraziassero, sorrise e rientrò in casa. “Se solo sapessero…” mormorò.

Decise che avrebbe costruito qualcosa. Non pioveva, non c’era il sole. Doveva fare una scelta, ed aveva scelto così. Il comignolo della sua bellissima casa di mattoni rossi incominciò ad esalare un denso fumo grigio. Era lento, e saliva verso il cielo. Sembrava volesse raggiungere le nuvole, e nel viaggio spogliarsi di quell’abito grigio per tornare candido, bianco come la neve. Poi iniziò. Era un rumore acuto e regolare. Si ripeteva in continuazione. Il cozzare del metallo sul metallo. Una guerra all’ultimo colpo. Un contrasto impressionante, verrebbe da pensare, con l'inesorabilità di quel fumo che volava su un panorama tanto tranquillo. Eppure questo era il paradosso di quella casa.

La battaglia infuriò per tutta la mattina, interrompendosi a tratti, come per riprendere fiato, e poi ricominciare. Era straordinario sentire come, in tutto quel baccano, fosse proprio il silenzio a produrre il rumore più forte. Un altro paradosso. Passarono le ore, venne il tempo di mangiare e la battaglia si interruppe. Riprese dopo poco, ma era destinata a non durare. Dopo qualche ora, infatti, i rumori cessarono e fu silenzio. Il lento vagabondare del denso fumo grigio, condotto dalle alte correnti in luoghi lontani, ebbe una fine.

‘Che straordinario silenzio’, pensò Agristan. I bambini non sarebbero tornati il pomeriggio, lo sapeva. 'Perché oggi è giorno di mercato, e le madri portano i loro figli in piazza ad aiutarle'. Che posto pacifico, Cantolumino. Per questo l’aveva scelto, lo sapeva, ma ogni volta si sorprendeva di scoprire quanto un paesino di pochi abitanti al confine della regione potesse essere così tranquillo e rigoglioso. La gente del luogo era accogliente e riservata. Quando era arrivato in sella ad un cavallo, con i pochi spiccioli che gli erano rimasti, lo avevano ospitato e gli avevano dato da mangiare e bere. Non avevano fatto domande per non creare l'imbarazzo di rifiutargli una risposta. Non avevano chiesto soldi. Gli avevano dato un posto dove dormire ed un lavoro. Poi, quando era stato in grado di muoversi di nuovo, si era costruito in riva al lago, appena fuori dal villaggio, una casa di mattoni con un grande comignolo e vi si era trasferito. Continuava a lavorare per la gente del villaggio ormai da 8 anni, e in 8 anni mai una domanda sul suo passato o su cosa l’avesse portato da loro. Semplicemente lo accettavano e lui glie ne era grato. “Se solo sapessero…” mormorò.

 

Quel pomeriggio, un pomeriggio senza sole e senza pioggia, un pomeriggio anonimo come tanti altri visti nella sua lunga vita, Parthon cavalcava verso est. Erano passati giorni, settimane da quando era partito da Alfertia. Ma il suo viaggio era ben lontano dal vedere una fine, poiché egli aveva un compito. Né lui né tanto meno il suo cavallo potevano fermarsi. Il loro dovere era di primaria importanza su tutto. Sulla carità, sul riposo, sul cibo e persino sulla stessa vita. Nulla avrebbe dovuto fermarli. Nulla avrebbe osato...

Era la prima volta che se ne rendeva conto: la sua presenza, il suo aspetto, la sua essenza. Tutto di lui era atto, e adatto, al suo unico scopo. Niente avrebbe osato rivolgersi a lui o interromperlo in alcun modo. Sorrise, o almeno si convinse di averlo fatto, e spronò il destriero, accelerando il passo.

Mentre cavalcava senza sosta, si rese conto che stava entrando nelle Pianure di Smeraldo; lo capì vedendo in lontananza un fiume e la terra intorno ad esso: la riva alla quale si stava avvicinando era smorta, con poca erba e radici a tenere insieme la terra. Ma l'altra riva, tutto ciò che gli si parava davanti era la natura nel suo massimo splendore. Oltre il fiume si estendeva a perdita d'occhio una pianura di vegetazione incontaminata e pura, così resistente che le città stesse che vi erano sorte avevano dovuto chiedere il consenso alla terra per poter porre pietra su pietra. 'Questa è la potenza dell'antica magia elfica', fu il primo pensiero di Parthon mentre vedeva come tutto in quel territorio pulsava di energia naturale. Sembrava di essere tornati agli albori di questo mondo, quando le maledizioni non camminavano tra gli esseri viventi. Quando la morte era solo una conseguenza della vita, non un atto di scellerata follia.

'Se i primi viventi avessero saputo ciò che so io, non avrebbero osato spargere il loro stesso sangue'. Se lo ripeteva ogni volta che pensava alla morte. Ma i suoi macabri pensieri furono bruscamente interrotti una volta arrivato al ponte: per la prima volta da quando era partito, una volta messo lo zoccolo sull'ultima asse del ponte, il suo cavallo si fermò. Inutile spronarlo, lo sapeva. Un cavallo del genere non si ferma per riprendere fiato, né perché non ha voglia di proseguire. Si era fermato perché non poteva proseguire.

Parthon smontò. “Se non riesci ad avanzare tu, amico mio, allora lo farò io”. Fece il primo passo, poi il secondo. Gridò il suo dolore e crollò a terra. Fu una fatica indescrivibile quella per tornare sul ponte, ma era troppo vicino ormai, non poteva arrendersi. “E va bene. Ti ringrazio per il tuo aiuto, Achiraon, ma ora proseguo da solo”, disse fissando il destriero negli occhi, o meglio, lì dove una volta c'erano degli occhi. Era sorprendente vedere che in delle cavità oculari vuote da ormai troppo tempo splendeva una inquietante luce scarlatta, anche per lui che era abituato a questo macabro spettacolo.

Il cavallo sbuffò, appoggiando il muso alla sua guancia. Poi chinò il capo, così che Parthon potesse accarezzarlo dietro alle orecchie come a lui piaceva tanto. E fu lì che il suo cavaliere pronunciò le parole. Una lingua sconosciuta ai Popoli, che aveva imparato ormai tanti anni fa. Estrarre un osso da un corpo non è un gesto che i più ritengono piacevole, ma immaginate ora di vedere quel corpo sparire nella polvere lasciando solo poche altre ossa a terra e conoscerete l'orrore di Parthon.

“Arrivederci, amico”.

  
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