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Autore: JeanNynphadora    14/11/2013    0 recensioni
. E proprio per tutto ciò, che non posso tenerle il muso a lungo, dopo due giorni di assenza, dopo anni di amicizia. « Sai, ieri è accaduto di nuovo. », le dico d’un fiato, alitando nella cornetta, sapendo che avrebbe colto le sfumature nascoste di ogni mia singola sillaba. Sì, Sabine, mi sono accasciata e ho immaginato una cosa che non è più accaduta. E te lo dico, perché so che non mi ritieni una pazza da rinchiudere. Lo dico a te, perché sei il mio cuore, la mia migliore amica.
Genere: Drammatico, Fantasy, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate
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Destra, sinistra, destra, sinistra. Velocemente.
Dio…è proprio come mi aveva detto Sabine . Funziona. La testa gira, gira il mondo e gli oggetti intorno a me sono sfocati, confusi. Poi le mie guance allungate in un ghigno infantile, come se avessi fatto la scoperta più importante del secolo: stordirsi girando velocemente il capo a destra e a sinistra, mentre al piano di sotto tutto tace; mamma sicuramente è intenta in una delle sue futili conversazioni con vicine un po’ più strambe di lei, come si può dedurre facilmente dalle risate cavalline e dal gergo casalingo, che striscia su per le scale, penetrando sotto la porta della mia camera sigillata a chiave;  mio padre si starà regalando qualche camminata per le squallide strade del paesino, come dimostra il suo fisico asciutto, indifferente quasi alle tonnellate di cibo che ingurgita; e mio fratello Kevin, fotocopia di ogni quindicenne che si rispetti, si sballa davanti allo schermo di un pc senz’anima, che corrode tutte le sinapsi dei suoi neuroni, uno ad uno.  Fuori loro, dentro il mondo. Chiusa la porta, dentro io. Dopo che i miei sensi sono tornati ai loro posti di partenza, con la fronte madida di sudore, scruto ogni singolo angolo di questa camera poco spaziosa, verde come una caccola e silenziosa più d’una tomba, alla ricerca di ordinari oggetti con cui costruire passatempi fai da te straordinari, come domino di caramelle-orsacchiotto, gara di piroette sul sedere contro un nemico invisibile o quella volta in cui mi prefissai l’obbiettivo di leggere il vocabolario  di inglese, partendo dalla lettera M. Tutto ciò, perché non mi va di chiamare nessuno per combattere la noia e trovo i modi più curiosi di vivere le giornate, anche se si tratta di star chiusa in un buco di cemento per un tempo indefinito.  Perdo completamente la cognizione del mondo, se mi impegno fermamente, anche nella più stupida delle cose, sebbene mi costi vescica piena, stomaco brontolone e cervello stanco da morire. Il centro del mio mondo diventa quella cosa, quell’oggetto che sto modificando con le mie stesse mani.
Adesso, ad esempio, sto galleggiando sulla superficie dell’Oceano Indiano, nel bel mezzo del nulla, muovendo braccia e gambe in libertà; saluto una nuvola dalla forma di un fiore, una stupenda margherita bianca, che solca le onde  dell’oceano dal cielo. Passa e va via, fino a che, a tenermi compagnia, sopraggiunge un delfino dalla carne blu-pioggia, che urta il mio fianco con la pinna rigida, portando il silenzio a riempirsi della mia risata squillante; prendo ad accarezzarlo in tutta la sua lunghezza: coda, dorso, muso, estremità. AHIA!
 Un malvagio morso a bocca spalancata mi strappa l’indice destro, facendomi sgranare gli occhi dal dolore. Quasi temo di morire più per il dolore lancinante, che per il morso stesso. Mi asciugo la fronte bagnata di sudore, mi alzo il più veloce possibile sui miei piedi, prendendo a calci il fottuto telecomando rosa, quasi fuori uso da tempo immemore, spiaccicandolo dritto sulla parete occidentale della camera, graffiata in parecchi punti da altri oggetti , che adesso però mi sfuggono alla memoria.  I denti del delfino sono i rintocchi alla mia porta, ripetuti e assordanti, come un disgustoso climax ascendente. Il dito mozzato è la mia fantasia, ridotta in briciole da quella mancanza di privacy e assenza di rispetto per i silenzi altrui. Mia mamma stava sicuramente mettendo a durissima prova la mia capacità di non commettere un omicidio per distruzione della fantasia altrui, che è un reato peggiore dell’evadere le tasse o cose simili. Era forse convinta che il suono di un cellulare, fosse più importante del galleggiare sull’Oceano Indiano? Credeva ancora che queste quattro mura mi avrebbero condotta all’esaurimento nervoso, perché mi isolavano da tutto? Sì, lo crede. E io ne sono totalmente consapevole, a tal punto che, per togliermela dalle scatole, mi bevo le parole di Miss Big Bubble-so-tutto-io, come la chiamo nei pensieri, senza che possa sentirmi; secondo l’etica comune, invece, si tratta della Dottoressa Psicanalista Miranda Bell, operante da anni in tale campo e tra le più affermate in tutta la cittadina del Meryland e dintorni.  Più o meno mi tocca subirla due volte a settimana, per un’ora, sdraiata su un comodissimo divanetto in pelle profumata, color rubino, con gli occhi rivolti al soffitto panna, gremito di medie spaccature, che parlano come tante bocche aride di parole, aiutandomi nel difficile compito di risponde alle domande di Miss BB, suggerendomi risposte spesso molto divertenti. “Sa ”, le dissi un giorno, “spesso uno strano formicolio parte dalla caviglia”, mi alzai con la schiena dal comodo divano in pelle, toccando il punto appena detto ”e arriva lento lento proprio..qui!”, tirai fuori la lingua dalla bocca, rivolgendole una smorfia spassosa, ma maleducata allo stesso tempo, visto che la pseudo-psicanalista subito dopo mi afferrò per un braccio, sbattendomi fuori dallo studio, in preda a chi sa quale attacco nevrotico/convulsivo, che le portava ad avere il viso viola, intervallato da vene sporgenti e grosse come autostrade, che correvano lungo il collo, frenando sulla fronte ampia.  A peggiorare le cose, ci mancava solamente la grossissima risata spaccatesticoli, quale era la mia, che riempiva il corridoio dinnanzi il suo studio minuscolo, facendomi piegare in due dal piacevole dolore alle costole, provocato da quell’insolito divertimento, quali erano le sue visite. Poi, dopo tutto quel ridere, come accadeva oramai da diciannove anni, mi gettavo a terra in ginocchio, inarcando la schiena verso l’alto, tenendomi la testa con le mani, quasi come se temessi che si potesse spaccare per il carico di informazioni. Silenzio. Gli occhi, nascosti dietro le palpebre, si rivoltarono all’indietro, trascinando la mia anima in una dimensione parallela, identica alla realtà, in cui potevo decidere come zittire mia madre, adirata fino allo sfinimento dall’ennesima bizzarra reazione alle cure di Miss BB; la vidi salire trenta scalini di legno di faggio, nella lussuosa Seventh Avenue, respirando affannosamente come un toro alla vista del rosso, tenendo stretta la borsetta nera nel pugno destro, perché non aveva nemmeno avuto il tempo di sistemarsela su di una spalla, dato che in lei la voglia di menarmi uno schiaffo in pieno viso, per ciò che avevo osato fare, era ancora più grande del sistemarsi la borsetta prima di scendere. Le guance del mio viso paffuto erano sacco penzolante per i pugni e gli schiaffi del pugile Malorie Maudie alias MammaDiVanille, che poi avrebbe detto:
«Eccola, la mia piccola vergogna personale! Alzati da lì, che hai proprio l’aspetto di una mendicante, quale forse sei in realtà. », gettò la borsa a terra, afferrandomi il mento nelle sue dita ossute e pungenti.« Speravo vivamente che durante tutta la tua vita fossi stata buona in una cosa: tenere la bocca chiusa per un’oretta sola. Invece ho perso il conto delle volte che sono stata chiamata dalla dottoressa Bell, causa “ennesimo attacco di stronzagg.. », la mano destra indietreggiava di parecchi centimetri, parallelamente al suo busto, in una lurida rincorsa del terrore, per attaccarmi il palmo al viso. Ma no. Non questa volta, cara la mia mamma priva di qualsiasi istinto materno o bontà innata. « Tieni questa zampa a distanza, M A M M A! », scandii l’ultima parola sul suo viso paonazzo per l’affronto , afferrandole infine la mano, per tenerla a distanza dal mio corpo. Ma accadde una cosa strana, non per me almeno, quanto per qualcuno che poteva trovarsi ad osservare la scena in quell’istante: la mia schiena tornò nella sua posizione naturale, abbandonando la forma ad arco; le mani si staccarono dalla testa, le ginocchia si contrassero bruscamente, lasciandomi cadere col corpo sul pavimento caldo. Mamma ancora doveva arrivare, i passi non erano reali, il rimprovero apparteneva all’altro mondo, che stava dietro le mie palpebre. Avevo immaginato assolutamente tutto il battibecco, plasmandolo secondo il mio volere la scena imminente, persa in quello stato di trans, che presupponeva la strana posizione innaturale della schiena ad arco, mani in faccia e ginocchia sul pavimento. I minuti trascorsero e la signora Malorie giunse nel corridoio, vestita come una squallida melanzana compressa e stressata di tutto punto, con la borsetta a tracolla e il viso calmissimo.
«Ho due vesciche enormi ai piedi, che mi implorano  pietà.», mi informò, come se poi potesse importarmi qualcosa. «Quindi, alzati da terra e ficcati in auto senza nemmeno respirare, prima che ti infili un tubo di scarico per il finestrino e ti lasci dormire per sempre! », sbraitò, divorando con lo sguardo ogni pezzo della mia persona, mentre lei già era in auto. Non ero minimamente toccata da quelle parole deplorevoli, che non si direbbe essere state pronunciate mai da una presunta “mamma”. Sono le identiche parole che mi propina tutt’oggi, quando assumo atteggiamenti poco consoni alla situazioni che ho di fronte. Non provo nemmeno più dolore, rabbia, risentimento. Solo leggerezza, che fa fluttuare le  mie membra verso le nuvole acquose, allontanandomi da  tutto il male di quel posto. Il futuro non ha in serbo per be questo male, lo so, ne sono sicura, anche se il futuro non si piega mai al mio volere e cambia la rotta delle mie azioni. Mi fido lo stesso di lui e continuerò a farlo; continuerò a piegarmi per terra, fluttuando nella dimensione parallela del “se potessi, farei”, tornando infine alla dimensione “non puoi, rassegnati”. Lo farò all’infinito, pur senza guadagnarci nulla. Non ne so nemmeno il motivo, ma ne vale la pena. Il mondo ideale vale più di quello reale. « Alza il culo da terra e apri la porta, ragnetto disgustoso! », sì mamma, hai appena dimostrato che la realtà fa schifo, come te. Come quel cellulare che sta squillando e vuoi per forza sbattermi in mano.
Tiro un ultimo, intenso sospiro, trascinando il mio  corpo lungo la mia camera,  fino alla porta di legno chiusa a chiave. Basta un colpo di mano alla chiave incastrata nella serratura, che dopo pochi attimi mia madre frena le gambe, mosse dalla voglia di dare l’ennesimo spintone alla porta della cameretta. E’ brutta, proprio come suo solito, con le palpebre piene di un colore accesissimo, che le permettono di essere paragonata ad una divertente maschera di Carnevale, presa a calci da un barbone nervoso. « Lo so che sono una pessima amica, assente e stralunata. Me lo ripeti da sette anni quasi, Sabine. Adesso posso sapere cosa vuoi, oltre ad un’esauriente giustificazione per la mia assenza? », dico, dopo essermi impossessata della cornetta, che giace tra le mani di mia madre, sbattendole la porta a qualche centimetro del naso; già strilla vendette carnali, da mettersi in atto quando avessi riportato la cornetta al suo posto, in cucina. « Buongiorno, cara. Questi due giorni di solitudine a cosa li devo? », sbotta la mia migliore amica sarcastica come un limone, ripetendo quasi a memoria le mie ultime parole,  optando infine per la tattica del silenzio, al fine di ricevere una spiegazione a tutto il “pasticcio”, che fosse quantomeno all’altezza delle sue aspettative. Ma riesco semplicemente a dirle la verità, che conosce come le tasche dei suoi jeans e che le ripeto ogni volta che si presenta il problema dell’assenza: sono troppo paranoica, per pretendere di essere rintracciata dalla gente. Mi sento fuoriluogo ad alzare la cornetta, chiamare e dire “CERCAMI, TI PREGO!”. Ecco perché preferisco che lei si faccia avanti senza troppi problemi, senza dar vita ad impicci inutili, che terminano quasi sempre in un elenco dei miei criminosi difetti. «Scusa il tono  inacidito da…”zitella”, come dici sempre-», dopo questa mia affermazione, scioglie tutta la tensione accumulata in un risolino infantile, mi interrompe e sbotta « Mi sei mancata abbastanza, che il mio piccolo cuoricino mi ha afferrato per la nuca, costringendomi a fare il numero di casa Moudie». Adesso sta arrossendo, ripensando alle sue ultime parole. Bestemmia come un vecchio marinaio, stringe gli occhi e finge di scordare l’imbarazzo. Sarei capare anche di azzardare il numero dei secondi, impiegati dal suo viso per diventare viola e poi di nuovo candido. Sette anni di amicizia bastano ad osservarla in qualsiasi situazione, dalla più accessibile alla più complicata. Stimolo della cacca fuori scuola, conati di vomito per l’ansia, intenzioni poco chiare, sentimenti ambigui, paura di sbagliare, orgoglio. Mix infallibile, se si cerca la persona “attira-sfighe”, che incappa in ragazzi un po’ depravati e decisi ad ottenere solo una cosa. Spesso aveva trascorso le notti attaccata alle mie costole, finendo per inzuppare la camicetta da notte con lacrime pesantissime, senza che potessi fare nulla per calmarla. Non l’ho cercata, mi è caduta tra le braccia, non ne avevo bisogno …e menomale che ho imparato a raccogliere gli oggetti, quando meno mi occorrono.
Era il 23 novembre  2005, il cielo soffiava vento arancione su soffici nuvole bianche, mentre il silenzio dei vicoli era spaccato dalle mie urla assordanti: era la prima volta che stavo subendo il fenomeno del futuro plasmato. La schiena si era appena ricomposta, quando la paura risalì la trachea, uscendo a fiotti dalla mia gola. Urlai di paura, sì, e la gente fingeva di non vedermi, mi superava a passi veloci, sputando viperoso veleno nero al suolo, intorno al mio corpo inerme. Sabine, dopo una breve leccata al suo cono nocciola e fragola, mi allungò la mano, sorridendo. Il quel sorriso lessi tutto ciò che una persona deve sapere, ma che fatica ad ammettere fino alla fine: il suolo è più comodo delle mani allungate da sconosciuti vogliosi di godere del tuo dolore. In quel gesto e in quegli occhi, trovai la soluzione ai miei problemi, soluzione che cercavo invano in gente dal viso scolorito, come le anime che abitavano dietro i loro visi. Mi limitai a stringere la sua mano, con forza, mentre l’altra spingeva verso l’asfalto, dandomi la giusta carica per drizzarmi e scrollarmi di dosso gli ultimi venti minuti. Lei era ancora ferma, con la mano nella mia, la lingua ferma sul gelato e gli occhi fissi nei miei. Il verde speranza, macchiato di marrone, adornava il suo viso tondo e stranamente più roseo del normale; tre anelli alla mano sinistra-teschi e segno della pace-, uno alla mano destra, molto semplice e ordinario. Il corpo coperto da maglie, che penzolavano come stracci, color nocciola, in tinta col suo gelato;  vita stretta, gambe magre, stivaletti in pelle nera lucida. Una piccola hippie sfuggita alle grinfie del tempo, che l’aveva condotta a me per una missione. Ok, sto esagerando. Semplicemente sembrava che in quell’istante il tempo fosse passato di corsa e che ci conoscessimo da molto. Passeggiammo per ore, senza dire una parola, alzando di tanto in tanto gli occhi sulle vetrine addobbate, sospirando tristemente per il prezzo della merce fuori dalla nostra portata, ma rincuorate dall’anelito che un giorno ce l’avremmo fatta, saremmo riuscite a comprarci il mondo. Lei c’era stata quel giorno e mesi dopo, dalle estati passate in paese ai viaggi con la famiglia. In ogni particolare di quegli anni, che solitamente chiamano adolescenza, lei c’era. Con l’ombrello, per ripararmi dalla pioggia. Lenzuola pulite, quando casa mia mi stava stretta. E forse non nego che mi aveva viziata, per il fatto che mi trattava come una principessa. Esigevo lo stesso trattamento da altre persone, che non erano lei. Non erano lei. Non ero io. Mi è sempre bastata, non ho mai voluto nessun’altra amicizia, se al mio fianco c’era Sabine. E proprio per tutto ciò, che non posso tenerle il muso a lungo, dopo due giorni di assenza, dopo anni di amicizia. « Sai, ieri è accaduto di nuovo. », le dico d’un fiato, alitando nella cornetta,  sapendo che avrebbe colto le sfumature nascoste di ogni mia singola sillaba. Sì, Sabine, mi sono accasciata e ho immaginato una cosa che non è più accaduta. E te lo dico, perché so che non mi ritieni una pazza da rinchiudere. Lo dico a te, perché sei il mio cuore, la mia migliore amica.
  
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