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Autore: Oops_hji    21/11/2013    3 recensioni
Provate a pensare per un attimo a cosa sarebbe successo se Simon Cowell non avesse richiamato sul palco quei cinque ragazzi. Come sarebbe finita la storia? Se l'unica cosa che avessero in comune quei ragazzi fosse l'essere fuori dai giochi? Se gli show per loro non sarebbero mai arrivati? Se non fossero mai entrati nella casa dei giudici? E infine se fossero usciti in lacrime da quell'edificio a causa dell'eliminazione, come sarebbe andata a finire? Avrebbero provato ad andare avanti come solisti? O sarebbero tornati alle loro vecchie vite chiudendo il capitolo 'canto'? I One Direction sarebbero mai esistiti anche senza essere stati messi insieme da Simon?
Vi piacerebbe saperlo? Bene, se la risposta è si, se siete almeno un po' curiosi, la storia è qui che vi aspetta, insieme a me...
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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(7)
Chapter 6 - So come si va dal torto alla ragione.
 
I know how it goes,
I know how it goes from wrong to right.
[...]
We can make it till the end.
[…]
I see what it’s like for day and night,
never together.
‘Cause you see your things in a different light like us.
[…]
 
You and I – One Direction
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il mattino dopo, mi svegliai presto. In realtà non mi ero mai realmente addormentata, nemmeno quando, verso le 4, avevo sentito la porta della camera davanti alla mia aprirsi e chiudersi, segno che almeno Zayn era tornato.
Mi alzai che erano le 6 passate da poco e ,dopo una doccia e un’abbondante passata di correttore, uscii di casa il più silenziosamente possibile.
Triplicai la lunghezza del tragitto che facevo di solito la mattina e arrivai a scuola che erano circa le otto meno dieci.
Notai mio fratello nei corridoi soltanto una volta nei quindici minuti di pausa.  Io ero con tutto il solito gruppo nelle nostre amate scale. Dopo i primi cinque minuti però Simon andò con Mark a cercare mio fratello; sono più che sicura che lo abbiano trovato, come sono sicura che ci abbiano parlato, ciò non cambia però che nemmeno a mensa si fece vivo.
E non cambia nemmeno il fatto che c’era qualcosa dentro di me che stava iniziando a dilaniarmi pezzo per pezzo.
Paura, rimorso, senso di colpa o qualsiasi altra cosa che fosse.
In 16 anni di vita mai era successa una cosa del genere, mai un litigio di quel tipo, mai tante ore lontani con l’odio che ci faceva da tramite, che forse non era nemmeno odio, o almeno spero che fosse qualcosa di meno intenso dell’odio.
Il tragitto casa-scuola lo feci in compagnia del mal di testa , stavolta però non tentai di allungaro, anzi, imboccai tutte le scorciatoie a me conosciute a passo di marcia, con l’intenzione di gettarmi il prima possibile sul divano del salotto.
Solo a 100 metri da casa mi resi conto che tutte le mie fatiche erano state vane, in quanto le chiavi della porta d’ingresso si trovavano, quasi d’abitudine, ancora nello svuotatasche sul mobile di fianco alla porta, esattamente dove le avevo lasciate il giorno prima.
Ero seduta sui gradini davanti alla porta di casa e 15 minuti e tante sbirciate all’orologio dopo Zayn mi si parò completamente davanti.
Un occhiata, niente di più e niente di meno, solo un leggero abbozzo di sorriso causato forse dalla consapevolezza che non avrei mai perso il vizio di lasciare le chiavi a casa.
Semplicemente aprì la porta e si diresse in cucina, mentre io, di parola, mi fiondai sul divano a peso morto. Posizione fetale, un po’ più aperta, e le mani in mezzo alle gambe.
Giusto due secondi prima di addormentarmi mi vidi davanti una tazza di cioccolata calda fumante e, ci avrei scommesso, senza zucchero.
Mi tirai un po’ su e presi la tazza con entrambe le mani, nell’intento di scaldarle appena uscite dal piccolo rifugio.
Alzai gli occhi sul suo viso sservandolo attentamente sperando di trovarci un segno di vita, ma tutto ciò che vidi fu una spessissima maschera di freddezza, allora capii, stava aspettando me: lui il primo passo lo aveva fatto dimostrandomi che lui era lì, adesso toccava a me.
 
 
“Ehi Zazà- si girò verso di me curioso con le sopracciglia aggrottate, anche perchè in queste situtazioni ero solita non parlare - litigheremo mai noi due?”
Se posibile le sue sopracciglia si incurvarono ancora di più “perchè me lo chiedi?”.
“Non so, così”
“Bhe, è possibile. Sai, abbiamo 11 anni e chi sa quanti da passare insieme, dubito che sarà tutto rose e fiori.”
“Allora promettimi una cosa- appiccicai ancor più la mia schiena al suo petto –non importa quale sarà  il motivo della litigata, oppure chi sarà che avrà torto. Promettimi che non mi lascerai mai andare, ti prego”
Una volta sentita la mia supplica mi prese le mani e mi fece girare compeatamente verso di lui.
Io tenevo lo sguardo basso, avevo troppa paura che mi lasciasse anche lui e non volevo che quella paura me la leggesse negli occhi, perchè, lo sapevo, ne avevo talmente tanta che se ne sarebbe potuto accorgere anche nel buio di quella stanza alle due del mattino.
Mi strinse le mani con una sola delle sue,mentre  con l’altra mi sollevò il viso fino a permetterci di guardarci negli occhi.
“ti giurò mille volte sul bene che voglio alla mamma, che farò qualsiasi cosa per averti con me ovunque, di tutto.”
“Allora se la metti così, tu farai il primo passo, mentre il resto spetterà a me”
“Ai sui ordini mia principessa”
 
Se ne era ricordato, non riuscivo a credere che si era ricordato di quella promessa fatta con quella tipica voce dei bambini quando chiedono ai genitori un giocattolo nuovo, solo che non lo chiedevo ai miei genitori e tantomeno chiedevo un giocattolo nuovo.
 
POV ZAYN
 
Furono i dieci secondi più lunghi della mia vita, aveva capito.
Lo avevo visto dal suo sguardo.
Probabilmente in quei secondi rivisse quel momento, quel  giuramento. Quello fatto a 11 anni, forse troppo grandi per un giuramento del genere, ma troppo piccoli per sapere già come funzionava il mondo.
Eppure non ce la feci.
Appena stava per aprire bocca, girai i tacchi e me ne andai.
Troppo codardo.
Troppo codardo perchè mi ero reso conto di quello che stavamo facendo. Di quello che io stavo facendo.
Avevo paura, sì. Paura di non riuscire più a reggere quella situazione che, con l’ingenuità tipica dei bambini avevamo affrontato, ma, adesso, adolescenti che capivano piano piano che cosa avevano intorno, quella situazione ci stava sgretolando pezzo per pezzo.
Così ero fuggito, dimenticandomi che non c’è una vera via di fuga per i problemi, credendo che magari, allontanando mia sorella, la principale vittima di tutto, mi sarei allontanato anche da tutto quello che ci stava asfissiando in tutta la sua immensità. Dimenticandomi anche che l’artefice dei nostri problemi era anche mio padre e quella era mia sorella.
 
Ma soprattutto non pensai che non sarei resistito nemmeno quei fottuti 10 secondi sapendo di averla lasciata da sola, ad affogare nei pensieri, mentre io sarei affogato nei sensi di colpa.
 
 
 
 
Da quel momento la routine era tornata ad essere la stessa della sera precedente, il che stava a significare che saremmo rimasti entrambi chiusi in camera, o ameno per quanto riguarda me.
 
Quando me l’ero lasciata alle spalle mi sono  azzardato a girare lo sguardo un’ultima volta verso di lei,
eppure non avrei dovuto. Il viso contratto in un misto di delusione, dolore, addirittura terrore;  tutte quelle emozioni lì, su quel viso, dove non avrei mai e poi mai voluto vederle, distrussero anche me, la consapevolezza, poi, che la colpa era solo e soltanto del mio comportamento di merda, del mio egocentrismo, era la cosa che, tra tutte, faceva più male, eppure, nonostante questo, non ebbi il coraggio di fare dietro front, di andare da lei e dirle che andava tutto bene, che io c’ero, che ero e sarei sempre rimasto lì, accanto a lei a sorreggerla. Nonostante questo, avevo continuato per la mia strada, certo, mi era passato per la mente quel pensiero, ma furono quei millesimi di secondo che a volte sono troppo pochi per condizionare le tue scelte, troppo pochi per permetterti di fare la cosa giusta.
 
L’avevo delusa.
Gli avevo fatto male.
Gli avevo messo addosso il terrore di essere rimasta sola.
 
 
Per 15 ore fui ostaggio di questi pensieri, non chiusi occhio e me ne accorsi solo quando l’incessante suono della sveglia mi catapultò fuori da quel baratro, dove ero arrivato a toccare il fondo.
Fu tutto esattamente come la mattina precedente, mi alzai che lei era già uscita, non sapevo dove fosse, molto probabilmente a scuola, ma non ero più sicuro nemmeno di quello.
Effettivamente a scuola non c’era.
Probabilmente sapevo anche dove fosse, e stavo combattendo una terribile guerra civile dentro me stesso.
Cosa dovevo fare? Andare da lei, rassicurarla, tornare ad essere i fratelli di prima, quelli che dipendono l’uno dall’altro e sopra tutto scusarmi, oppure tornarmene a casa, scappare di nuovo credendo di risolvere tutto e deluderla?
La risposta in questo caso era più che palese.
Saltai le ultime due ore senza dire nulla a nessuno.
Feci a corsa tutta la strada, prendendomi tutte le imprecazioni immaginabili e pure qualche borsate da delle vecchie, ma almeno arrivai al parchetto nella metà del tempo  che mi serviva per andarci a piedi.
Afferrai con una mano la grata del cancello per mantenere l’equilibrio e poi vi appoggiai anche la fronte nel tentavivo di riprendere un po’ di fiato.
Un minuto dopo, con ancora un po’ di fiatone, lasciai il mio appiglio ed entrai dentro guardandomi intorno.
Era un parco enorme, pieno di aceri che in questo periodo dell’anno coloravano tutto di colori caldi come il rosso. C’erano quei pochi, ma essenziali, giochi per bambini e delle panchine tutto intorno al perimetro.
Non era molto conosciuto e quindi nemmeno tanto affollato, poi erano le due di pomeriggio e di consegenza era vuoto, eccetto una persona.
C’era uno degli aceri che spiccava tra tutti perchè probabilmente aveva più anni degli altri ed era talmente grande che una sola perona non poteva essere in grato di circondarlo per intero con le proprie braccia. Potevamo dire che quello era ormai il nostro acero.
 
 
“Aspettami Zazà!!”
“Andiamo Char, sei troppo lenta! Prova a prendermi!”
“Uffa! Ma sei trop..ahio!Ma che fai? Perchè ti sei fermato?”
“...”
 
 
 
Avevamo si e no 6 o 7 anni e ci eravamo fatti a corsa ormai tuttoo il giro del quartiere dell’East Bowling.
Mi era venuta addosso ed eravamo finiti entrambi a terra, ma nonostante questo io non avevo distolto lo sguardo da quella meraviglia.
Avevamo iniziato a passarci tutti i nostri pomeriggi, amavo l’acero centrale, quello più grande e, qualche annno dopo, quando lei aveva avuto in mano la sua prima macchina fotografica passavamo le ore ad osservare ogni minimo particolare per poi impegnarsi a immortalare tutto in infiniti scatti, in un certo senso mi ero appassionato anche io alla fotografia in quei pomeriggi, ma non ero gran che con la macchina fotografica in mano, quindi preferivo lasciarla a lei.
Mi avvicinai lentamente all’albero centrale, accompagnato dallo scricchiolio del tappeto di foglie che avevo sotto i piedi.
Troovai Charlotte che dormiva, schiena appoggiata all’acero, ginocchia piegate e ani tra le cosce, come suo solito.
Mi sedetti accanto a lei, cercando un modo per svegliarla, ma non ce ne fu bisogno, le foglie fecero più rumore del previsto.
Aprì gli occhi di scatto ed ebbe un sussulto di paura appena mi vide, per poi tranquillizzarsi quando si rese conto che non ero un pedofilo che l’avrebbe stuprata  ed agitarsi di nuovo quando si rese conto che ero io.
 
Presi in mano una delle foglie rosse ed iniziai a giorcarci, nel tentativo di non dover alzare lo sguardo ed incontrare i suoi occhi, poi “scusa”.
“No, tranquillo, non importa”
“Non intendevo quello, non per averti spaventato, cioè, non volevo spaventarti, ma lo ‘scusa’ era per tutto”
“Anche il mio non importa non era per quello sai?”
“Oh andiamo, non puoi comportarti così. Sbraitami contro, urla, mandami al diavolo, tutto quello che vuoi ma non dire che non importa.”
“Ma non importa sul serio, alla fine è stata anche colpa mia. A parte il fatto che di Jason te lo dovevo dire, ma per il resto, ho preteso troppo. Questa situazione è troppo grande per entrambi ed è normale che tu non voglia entrarci.”
“Sono tuo fratello, e proprio perchè questa situazione ti sta schiacciando, che ci devo essere dentro anche io. L’abbiamo sempre sostenuta insieme, e insieme continueremo a farlo.
E poi, anche se non volessi entrarci sarebbe troppo tardi, ci sono già dentro, e una volta dentro non ne uscirò più, se non insieme a te.”
 
POV CHAR
 
“non ne uscirò più, se non insieme a te”
 
Mi sembrava di avere un disco in testa, erano cinque minuti che aveva pronunciato quella frase, cinque minuti che quelle nove parole mi vagavano in testa, cinque minuti che non vedevo più niente per gli occhi appannati.
“E’ che io non ce la faccio più Zay”
Lo dissi con voce rotta, rotta dal pianto, dalla disperazionee, dalla rabbia, da tutte le cose che mi stavano passando in testa, che non erano altro che il confronto tra il prima e il dopo della morte di mamma. Il confronto tra i tempi felici, e i tempi peggiori della mia vita.
Due ere completamente contrastanti, il peggio era che non avevo la più pallida idea di quale delle due avrebbe vinto e con quale delle due avrei dovuto convivere per il resto della mia vita.
 



 
Sì, ci ho messo più di un mese per scrivere
sta cagata di capitolo.
Mi starete odiando perchè vi ho fatto aspettare un'eternità
per un capitolo del genere, ma
haimè, ho fatto il possibile.
Il fatto è che siamo a metà trimestre e i 
professori rompono il cazzo.
Adesso me ne vado.
Twitter: @_zaynsshrill

Domani è il mio comlyyyy hihihihih

Ciau,
Giulia.

(Sì, ho spoilerato alla grande, ma è stato più forte di me)







 
  
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