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Autore: Star_    21/11/2013    1 recensioni
[Storia inventata ispirata al mondo degli anime/manga]
"Lasciate ogni speranza o voi che entrate."
Questo racconto non narra storielle per bambini, in questo racconto vi faremo conoscere cosa sia la vera paura... perché lei, la "Regina del Male" sta progettando il modo per farvi inchinare al suo cospetto. Occhi di ghiaccio smeraldo vi faranno capire che non tutto è come sembra! Ma questo è solo un sogno, almeno per adesso, ovviamente. La giovane Ayame, una ragazza giapponese di 17 anni che ama il basket alla follia, non si lascerà abbattere così facilmente! Il suo sogno è diventare la "Regina del Male" ma degli imprevisti stanno per ostacolare la sua ascesa al potere. Uno di questi è un nuovo studente, il bello, snob e presuntuoso americano di nome Ryan, che le sconvolgerà la vita. Che succederà alla nostra Ayame? Con l'aiuto del suo migliore e unico amico di sempre Jin, l'unico di cui lei si fidi, riuscirà a sconfiggere l'americano? O forse anche lei cederà ai sentimenti umani?
Scopritelo seguendo il loro intreccio di destini tra comicità, parole non dette e sentimenti nascosti!
Genere: Comico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Salve a tutti! Per chi volesse, consiglio di iniziare a leggere questo capitolo ascoltando questa cortissima canzone http://www.youtube.com/watch?v=ddCcRTjGTGk. Il perché lo capirete subito.
Buona lettura! :)

 






I don't speak American.

 

 

Capitolo 8 ~ Collisione






 

Avanza verso di me in tutta la sua maestosità.

Il mantello sventola nel bel mezzo di tutte quelle fiamme.

Sono così alte e fiammanti (ah, beh, sono fiamme…) e la loro luce crea un gioco di ombre alquanto surreale, dal quale non riesco a distogliere lo sguardo.

Il passo poi, così sicuro e fiero, e la mano saldamente stretta attorno all’impugnatura dell’enorme spada che porta sulla schiena.

Sta venendo qui, lo sento.

Non riesco a muovermi di un millimetro, non so cosa mi trattenga.

Forse la voglia di riuscire a vedere quei i suoi occhi almeno per un secondo, che per il gioco di ombre a cui ho accennato prima non mi sono possibili intravedere.

Non posso descrivere quanto sia meraviglioso questo scenario, non ci sono parole… aspetta, cos’è questa musica?

Ora che ci penso è da un po’ che la sento…

Mi guardo intorno ma vedo solo fuoco, poi mi volto di nuovo verso il punto da dove mi sta raggiungendo.

Tiro un urletto dalla felicità. Il “Principe dell’Inferno” sta venendo a prendermi, ne sono sicura!

Ora capisco, è tutto perfetto, già, questa canzone da urlo come colonna sonora, un ragazzo ancora più da urlo che esce dalle fiamme e viene verso di me… è il “Principe dell’Inferno”!

È fin da piccola che sogno questo momento.

Pochi passi, ancora pochi passi… ora gli mostro io chi comanda.

Si ferma proprio di fronte a me, oddio quant’è bello!

«I-i… i-i-io…» Inizio, ma lui mi copre con la sua voce.

«Sono venuto a prenderti.» Aspetta, c’è qualcosa che non va…

«Non mi stavi aspettando? Abbiamo un compito, no? Dobbiamo andare a governare insieme…» Le sue labbra continuano a muoversi ma io sento solo silenzio. No, non ho sentito le ultime parole!

«Come, scusa?» Gli chiedo con il sorriso stampato in faccia. Forse sto sorridendo un po’ troppo…

«Che c’è, non ti ricordi? Avevamo detto che avremmo governato insieme il parco dei divertimenti!»

Finalmente alza abbastanza il viso in modo che io riesca a vederlo negli occhi.

Uno schifosissimo sorriso.

Degli schifosissimi occhi.

Le parole “parco dei divertimenti” che mi risuonano in testa in un eco sempre più lento.

Cosa?

Aspetta.

Ma il mio principe dov’è?

No, non è quello il problema, rimani calma.

Calma.

Calma.

Un urlo si staglia per tutti gli Inferi. Sono io che ho urlato la parola “americano” a squarciagola e a lungo, molto a lungo. Se quest’urlo potesse essere paragonato ad un numero, questo sarebbe decisamente periodico.

Apro gli occhi.

Sono immobile, completamente scioccata. Tutto quello che riesco a fare è fissare il bianco del soffitto della mia camera.

«Aya?!» Ed ecco mio padre sullo stipite della porta che mi fissa male.

«Ciao papà.» Dalle mie parole non traspare alcuna emozione, sono ancora completamente scioccata.

«Ehm… stai bene?» Mi guarda, ancora più stranito.

«Certo che sto bene. Ovvio che sto bene. Non è ovvio che io stia bene?» Termino il tutto con una risatina isterica.

«Con quella risata da malata di mente e il tono piatto della voce, non sei per niente convincente…» Mi dice continuando a fissarmi storto. «E poi cos’era quel lungo “americano” che mi ha frantumato i timpani?»

Americano.

Americano?

Americano!

Americano!

Mi alzo di scatto dal letto.

«Aya, sul serio bambina mia, tu non stai bene…» Fa una specie di sorrisetto per nascondere la sua perplessità.

Io sto in silenzio.

«Senti Aya, facciamo così, oggi te ne stai ancora buttata a letto, tanto oggi è sabato, non hai scuola. Poi quando ti senti meglio ti alzi, va bene?»

«Sì…» Dico solo io, stringendo il lenzuolo.

«Bene. Intanto, io ti tengo da parte la colazione finché non te la senti di venire.» Chiude la porta e torna al piano disotto.

Io mi raggomitolo sotto le coperte un po’, tanto, scioccata…

Ma-ma-ma perché? Ora si intrufola anche nei miei sogni? Tutto questo è assurdo!

Tiro un gran sospiro.

Sì, dev’essere per quello, per il fatidico appuntamento di oggi… aspetta… oggi? Oddio che ora è?

Le 08:15? Ok, perfetto… ma questo vuol dire che ho meno di un ora!

Però mi sembra di star dimenticando qualcosa… beh, mi verrà in mente!

Ok, allora, con i vestiti sono apposto, visto che ieri ho impiegato tutta la sera per sceglierli, ma è solo un dettaglio, non pensate male, non me ne importa nulla di apparire carina e afddlgdfdkf. Sto dando di matto. Quindi mancano solo i capelli.

Ma perché mi continua a sembrare di non ricordare qualcosa?

Beh, basta pensare.

 

°~°~°~°~°~°~°~°~°

 

Scendo le scale di corsa e mi metto a tavola con mio padre che mi guarda con la coda dell’occhio. Lo vedo cercare di nascondere una risata quando mi lamento del male al ginocchio, visto che come una stupida ho sceso la rampa di scale di corsa.

Oh, ci sono gli onigiri al salmone! Li adoro!

«Vedo che ti sei ripresa…» Dice lui con un sorrisetto.

«Ehm, sì, diciamo…» Dico mentre afferro un onigiri.

«Ma che hai combinato ieri sera? Sei stata sveglia fino a tardi…»

Ma no, non stavo scegliendo i vestiti per questo stramaledetto app-, ap-, appun-, non ce la faccio!

«Niente papà, assolutamente!» Ed ecco un’altra risata isterica. Ma chi voglio prendere in giro?

«Sì, certo…» Fa lui, tutt’altro fuorché convinto. «E… dove penseresti di andare oggi?»

«Al luna-park.» Rispondo senza pensare. Che idiota, dovevo cucirmi la bocca.

Una fragorosa risata rovina l’atmosfera di calma e pace che di solito caratterizza la mia colazione. «Ah, Aya, non so neanche per quale motivo io stia ridendo visto che ne ho due!» E giù con un'altra risata.

Metto giù le bacchette con le quali mi stavo gustando il riso, un bel po’ stizzita. «E sarebbero?»

«Uno: Ayame Kazawa, la mia Ayame Kazawa, mia figlia, che va ad un luna-park? Prevedo che oggi crollerà il cielo!» E ride. Io lo fisso male. Ma dopotutto, non è che abbia torto… «E due: mi spieghi dove vorresti andare con quel ginocchio?» Cerca di trattenere un'altra risata, fra un po’ si strozza con il riso.

Sapete il rumore che fa il ghiaccio quando si spezza sotto i vostri piedi? Ecco, è quello il rumore che ho appena sentito dentro di me. Sì, mi sento un blocco di ghiaccio che si sta spezzando. In più continui sbuffi di vento gelido contribuiscono a rendere più tragica la scena.

Ma quanto idiota posso essere?! Dove volevo andare con questo maledetto e stramaledetto ginocchio?!

È colpa sua, dell’americano! Quello sporco-!

Il suono del campanello di casa nostra arriva alle mie orecchie.

No, per favore.

Non ora.

Mi alzo di scatto. Mio padre fa un enorme balzo e quasi cade dalla sedia.

Corro più inferocita che mai verso la porta d’entrata. Spero di non aver fracassato il pavimento, ma sono solo dettagli. Apro la porta.

Non mi è minimamente passata per l’anticamera del cervello l’idea che magari quella persona, che ho preso per il colletto della camicia, avrebbe potuto essere il postino, un bambino che vende dolci, la vicina che chiede un po’ di sale, il lattaio, o qualsiasi altro malcapitato. Comunque, per fortuna era la mia vittima designata.

E così mi ritrovo faccia a faccia con degli occhi troppo blu e semplicemente troppo americani.

«Americano!» Dico io. Stavolta non è un urlo, è molto più simile ad un verso animalesco. Né tanto forte, ma nemmeno un sibilo. Un tono come quello di una normale conversazione tra esseri umani, anche se questa non la si può certo definire tale.

Qui abbiamo in ballo la “Regina degli Inferi” e un semplice, plebeo americano.

Ancora convinti che siano due esseri umani alla pari?

«Ciao anche a te.» Dice lui, accennando un sorrisetto dopo la sua battutina.

«Sei un idiota!» Gli urlo io addosso. È un urlo corto stavolta, non uno dei miei soliti.

«Questo me l’ha già detto qualcuno.» Che spiritoso il ragazzo, eh?

«E non ti hanno mai detto che non si invita una ragazza con il ginocchio malandato ad un appuntamento? Che pensavi di fare?» Stringo ancora di più il colletto della sua camicia e lo tiro senza rendermene nemmeno conto vicino al mio muso. Sì, muso. Con l’espressione che ho non credo ci sia altro modo per definirlo.

«Ma quante storie. Solo per stare un po’ più vicini, no? Bastava me lo chiedessi, sai?» E di nuovo quel sorrisetto sornione! Ma come osa?!

«Come osi, tu, plebeo! Parlare così alla tua regina! Inchinati immediatamente al suo cospetto!» Dico io mollandolo per terra e indicando le piastrelle del vialetto che porta all’entrata di casa mia, sulle quali lui è appena atterrato.

«Sai, Ayame, che quello che hai appena detto fa pensare un po’ male…?»

Io lo fisso un attimo, c’è un silenzio profondissimo. Ora sento un enorme calore in viso. Ma che razza di fantasie ha questo qui?!

«Eh?! Ma sei scemo?!» Corro dentro casa e sbatto la porta dietro di me, poi mi ci appoggio.

Oddio, sono arrossita! Io! E per di più davanti a lui! Io che non arrossisco dai tempi dell’asilo! Oddio che vergogna!

Sento una risata provenire a fuori.

«Dai Ayame, stavo scherzando!» E giù a ridere ancora.

Quel deficiente!

«Muori!» Gli urlo io da dentro casa e lui ride ancora. «Sì, certo, ridi finché puoi…» In questo momento un ghigno malefico in viso e una lingua da serpente non mi starebbero male.

«Avanti, dai! Apri la porta, Aya…» Ora la sua voce è calma e normalmente aprirei la porta e gli lancerei un’occhiataccia con i miei occhi ghiaccio smeraldo, ma il mio viso è ancora in fiamme e non ho intenzione di mostrarmi nuovamente in questo stato. Non si addice per nulla ad una “Regina degli Inferi”, dopotutto!

«Te lo scordi, americano!»

«La grande regina è così codarda da non mostrarsi ad un povero suddito che le chiede udienza?»

La porta si apre lentamente. Io con le braccia conserte che lo fisso male, lui con un altro sorrisetto stampato in viso.

«Che cosa vuoi?» Dico stizzita.

«Te.» Sussurra.

Ed ecco un mio urletto, uno stupido urletto che da me non ci si dovrebbe aspettare. Mi ha presa in braccio all’improvviso, questo sfrontato! Ma che fa?!

«Mettimi subito giù, cosa pensi di fare, idiota?!» Qualcuno mi dica cosa ci faccio tra le sue braccia in stile sposa…

Oggi è una pessima giornata, non l’avevate notato?

«Scusi signore, la porto a fare un giro! Non la farò camminare, glielo assicuro! Gliela riporterò a casa per cena! Non si preoccupi, con me è completamente al sicuro!» Dice l’americano a voce alta in modo che mio papà possa sentirlo.

«Sei tu quello che non è al sicuro, americano.» Sibilo io, che stranamente mi sono rassegnata. Non ha senso! Questo idiota mi sta rapendo ma il mio corpo non si vuole ribellare! Sento il cervello che urla: «Lasciami! Lasciami!» ma l’unica cosa che il mio corpo fa è stringere le mani sulla sua camicia per paura che da un momento all’altro quest’imbecille mi molli per terra.

Sento un: «Va bene.» distratto provenire dalla cucina. Ma no! Ora ci si mette anche lui! Mi stanno rapendo e mio padre non fa nulla! Sarà concentrato sul suo stupido telegiornale sportivo. Magnifico.

Fosse almeno il “Principe dell’Inferno” a rapirmi, invece di questo completo idiota!

E intano proprio questo completo idiota mi sta infilando nei sedili posteriori della macchina parcheggiata davanti a casa mia. È una macchina straniera, nera e piuttosto lussuosa direi, ma non esageratamente.

Speriamo che i vicini non abbiano visto nulla o non me la caverò con qualche semplice domandina. Già tutto il vicinato sa del mio ginocchio, ci manca solo che scoprano anche che conosco un riccone americano.

Quando chiude la portella del sedile affianco al mio e si gira per sorridermi, io gli sputo addosso così tanti “idiota” che non riesco nemmeno a tenerne il conto.

«Ma non c’è di che, Ayame! È sempre un piacere, stare con te!» Fa ancora lo spiritoso, eh?!

«Tsk.» Incrocio le braccia fissando dritto davanti a me, accorgendomi solo ora che non siamo gli unici nel veicolo. C’è un autista, che ci sta portando non so dove, visto che prima, impegnata com’ero ad offendere il mio vicino di sedile, non sono riuscita a sentire le indicazioni stradali che aveva fornito all’autista sorridendo.

 

°~°~°~°~°~°~°~°~°

 

I viali, le strade, i pali della luce, passa tutto così velocemente… oh, un viale di alberi di ciliegio! Che meraviglia!

Ah, giusto, vorrete sapere come sta andando, beh… sarà da interminabili ore che sono qui seduta il più vicino possibile al finestrino, dove ho la faccia spiaccicata, per stare il più lontano possibile da quel maniaco rapitore. Ma dove mi starà mai portando? Il viaggio non finisce più… sono un po’ preoccupata, non ho nemmeno un orologio per controllare l’ora e di certo non la chiedo a lui.

«Per quanto ancora hai intenzione di ignorarmi?» Mi chiede con il suo solito sorrisetto.

«Zitto, maniaco rapitore.»

«Oh, hai trovato un nuovo soprannome per me, che carino.»

Non so come ma sto emettendo un ringhio basso e rauco.

«Guarda che sei tu quella che ha accettato di uscire con me…» Il suo tono di voce è così basso da farmi venire i brividi, o forse è quel che ha detto che me li ha provocati.

Troppe emozioni in un giorno solo. Povero cervelletto.

«Hai freddo?»

«No.» Dico io, fermamente. Mi ha sicuramente vista tremare.

«Guarda che se hai freddo, me lo puoi dire, non è che-»

«No, no… sto bene, non preoccuparti…» Perché ora mi sento così terribilmente a disagio? E perché questo silenzio? Ma quando cavolo arriviamo?

 

°~°~°~°~°~°~°~°~°

 

Che sonno… non vedo nulla, è tutto appannato… ma dove mi trovo? Aspetta, oddio! Mi devo essere addormentata! Ma… questa sopra di me è la giacca di Ryan! Ehi, l’ho chiamato per nome…

Lui dov’è? Mi volto. È ancora lì, seduto alla mia destra in questa sua macchina straniera e trema leggermente. Io non sento tutto questo freddo però… eh, noi giapponesi siamo abituati al freddo, non come questo americano solo sole e spiaggia. Aspetta, la giacca! L’ha data a me perché ero infreddolita! Beh, cosa vuole ora, fare il galante? Con me non attacca.

Ma allora perché sento un leggero calore in viso mentre lo guardo dormire? Non ce la faccio più, voglio tornare a casa, voglio restare sola e in pace, sono stufa di sentirmi così a disagio!

Cerco di guardare fuori dal finestrino ma è tutto appannato. Ci passo sopra malamente una mano e finalmente scorgo qualcosa. Da quel che vedo siamo sicuramente in periferia, alcune case sono molto vecchie ed ora che me ne accorgo stiamo percorrendo una stradina sterrata.

Ed ecco che la macchina si ferma.

Mi volto verso Ryan che dorme, sono indecisa se svegliarlo o no… non ho dubbi, questa è un’occasione perfetta! Inizio a tirargli la pelle del viso inventando una miriade di espressioni buffe. Ora capisco cosa si intende quando si dice: «Ci sono cose che non hanno un prezzo.»

«Ehiiii, mua chef faii?»

Scoppio a ridere sentendo le sue parole storpiate, intanto lui sbatte gli occhi ancora assonnati.

«Ehi, sto forse ancora sognando?» Mi guarda in silenzio sorridendo leggermente. «La tua risata era così dol-»

«Signorino, siamo arrivati, vi preghiamo di scendere.» È l’autista che parla.

«Sì…» Per un secondo mi pare di scorgere un’ombra di tristezza sul viso di Ryan.

Apre lo sportello e scende, poi tende la mano verso di me per aiutarmi. Io la fisso intensamente senza muovermi di un millimetro.

«Avanti, lo so che sono bello e che non mi staccheresti mai gli occhi di dosso, ma sarebbe un appuntamento alquanto noioso così.» Dice lui vantandosi spudoratamente e sorridendo.

«Tsk…» Dico solo io prima di prendere la sua mano. «Sto iniziando a credere che la parte vuota del tuo cervello sia occupata dal tuo ego.»

Ride di gusto. «Sì, me lo dicono spesso.» Poter osservare il suo sorriso così da vicino e qualcosa di inebriante, mi sembra quasi di non potergli staccare gli occhi di dosso. Semplicemente brilla di luce propria quando ride.

Mi risveglio dallo stato di trance in cui ero caduta osservandolo. «Allora, dove siamo? Spero sia un bel posto visto che ci è voluta mezza giornata di viaggio per raggiungerlo…»

«È il mio posto segreto… vieni.»

Mi prende improvvisamente per mano e mi trascina più avanti fino a che il filare di alberi alla nostra sinistra non termina e posso finalmente vedere cosa vi è dietro.

«Un… fiume?» Dico io, stupita.

È uno di quei classici grossi fiumi che di solito scorrono in periferia, di quelli che hanno argini enormi e la classica scalinata per scendere al livello del fiume.

«Sì… è qui che venivo sempre quando ero piccolo e volevo stare solo.» Il suo sguardo è rivolto verso quelle acque un po’ sporche e quell’erba verdissima. È uno sguardo malinconico.

Inizia a scendere i gradini, poi va sull’erba e vi si stende tranquillamente. «Dai, vieni anche tu.» Mi dice.

Ok, non mi sarei mai aspettata un appuntamento così tranquillo, non da Ryan.

Lo raggiungo e mi distendo anch’io, né troppo vicino né troppo lontano da lui.

«Hai detto “da piccolo”? Ma non ti sei appena trasferito qui?» Gli chiedo un po’ confusa.

«Sai, Ayame, io odio gli aerei.» E che centra ora? Perché non mi risponde per una volta che gli faccio una domanda senza urlargli contro?

Mi giro verso di lui, stizzita, pronta a dirgliene quattro, quando vedo i suoi occhi completamente persi nel cielo. Li seguo e vedo che proprio ora sta passando un aereo sopra di noi. Resto a fissarlo anch’io, finché lui non inizia a confidarsi dal nulla.

«Odio il male alle orecchie che mi viene sempre, odio dover continuare a sentire la gente attorno a me che si lamenta "ho mal di testa, ho mal di testa!" ma soprattutto, odio i check-in.»

Poi il silenzio cala tra di noi. È imbarazzante quindi cerco di dire io qualcosa. «Beh, io non ho mai viaggiato quindi non saprei… però un giorno mi piacerebbe provare, anche se non saprei proprio dove andare e inoltre, faccio schifo in inglese.» Rido un po’ io.

«Ti porterò in America. Un giorno ti porterò in America con me, Ayame.» Non ci posso credere, mi sta facendo una promessa? Non riesco a parlare. «Voglio mostrarti tante cose, tanti posti! Voglio mostrarti tutto!» Sorride fissando il cielo.

Perché sta promettendo una cosa del genere a me? Sono praticamente una sconosciuta per lui! Non siamo nemmeno amici! E il modo in cui l’ha detto… sembrava una promessa molto seria… non può star parlando sul serio, insomma!

«Prometti sempre ad ogni persona che appena conosci di portarla in America o stai delirando?» Gli dico io, cercando di nascondere quanto sia scioccata.

«Oh, Aya, così mi ferisci…» Lo sento bisbigliare. Nel frattempo si è portato un braccio sopra gli occhi, ora completamente coperti.

«Ti porterò dove vuoi Aya, ovunque, solo, vieni con me.» La sua voce è davvero flebile. Ma che gli sta succedendo? «Vieni con me.» Ripete e mi sembra di non ricordarmi più come si respira.

Lo fisso. Cerco di cambiare discorso, il silenzio sta diventando troppo pesante. «Ma… non ti piace il Giappone?» Dico io, nervosamente.

«Ho visto tante di quelle volte il cartello “おかえりなさい” (okaerinasai) con sotto la scritta “Welcome to Japan” all’aeroporto, da averne la nausea ormai.» Sta in silenzio un attimo e poi inizia a parlare nuovamente. «Era una delle cose che più amava mia madre, era sempre così felice appena scendevamo dall’aereo e quando vedeva quel cartello le si illuminavano gli occhi. Quando da piccolo le chiesi cosa volesse dire “okaerinasai”, mi ricordo benissimo il tono dolce con cui mi rispose. Significa “bentornato a casa”. Già, perché quella era la sua vera casa, non l’America.»

«Tua madre è giapponese?» Gli chiedo stupita.

«No, era una biondissima americana che però aveva lasciato il cuore in questo paese di cui era follemente innamorata.»

«Era?»

«È morta quando avevo sette anni, per una malattia.» Mi risponde, calmo.

Non aggiungo nient’altro, il silenzio tra di noi vale più di mille parole. Mi sento solo in colpa per tutte le volte che, soprattutto da bambina, piangevo disperatamente perché non avevo la mamma sempre vicino a me. Almeno io una mamma ce l’avevo ancora.

«Era pazza per il Giappone, infatti è lei che mi ha insegnato il giapponese. Dopo aver finito di studiare giapponese all’università si è fiondata qui e ci doveva venire assolutamente almeno una volta all’anno. È proprio durante uno di questi viaggi che ha incontrato mio padre, che era qui per lavoro. Due giovani americani nell’enorme metropoli che è Tokyo. Si sono innamorati subito. Sono stati fidanzati per anni, poi, quando mio padre ha guadagnato una posizione importante nell’azienda che ora è sua, si sono sposati e si sono trasferiti insieme in America. Dopo sono nato io e ogni anno venivamo qui in vacanza proprio in questo quartiere, dove mio padre aveva comprato una casa solo per noi. Venivo spesso qui a giocare a calcio con gli altri bambini. Mi ricordo di tutte le volte in cui la palla finiva nel fiume…» Si lascia scappare una risatina. «E poi… poi la mamma è morta e non siamo più andati in vacanza da nessuna parte. Mio padre si è chiuso in sé stesso e il suo unico pensiero è diventato il lavoro, forse perché era l’unica cosa in grado di distrarlo… e io intanto interpretavo il ruolo del piccolo principino circondato da domestiche e maggiordomi rinchiuso nell’enorme castello, che avrebbe dovuto proteggerlo da tutto ma che in realtà l’ha solo reso più insicuro. Mio padre mi ha sempre viziato, ma nonostante questo c’era una cosa che non poteva darmi, non poteva starmi continuamente accanto, ero costantemente solo. E sai perché ora viviamo in Giappone? Perché mio padre è stato letteralmente costretto a tornarci per lavoro ed ha incontrato un’altra donna con cui ora si è risposato. Non ho nulla contro di lei, è una brava donna e con me è sempre stata gentile. Come mio padre, anch’io sono stato costretto a venire in Giappone, dato che non essendo ancora maggiorenne non potevo vivere da solo in America. È stato difficile accettarlo, e molto anche. La cosa che più mi rendeva felice in America era il liceo. Infatti tutto era migliorato da quando avevo convinto mio padre a mandarmi in un normale liceo. Prima avevo sempre avuto insegnanti privati e quindi non avevo praticamente amici perché non conoscevo nessuno tranne qualche figlio di ricconi amici di mio padre. Al liceo la gente mi ammirava, ero famoso perché ero bello, ricco e intelligente. Che cosa poteva volere di più una ragazza? Potevo avere chiunque… tutto ciò che volevo, l’ottenevo. E poi… poi mi sono innamorato per davvero e ho perso la testa. Che ci posso fare, io sono fatto così. È stato difficile rinunciare a tutte le certezze della vita di ogni giorno e ritrovarsi di fronte semplicemente un enorme punto di domanda. Ma soprattutto è stato difficile rinunciare alla certezza che era lei. O almeno, io ero l’unico dei due che non ci aveva rinunciato. Avrei fatto di tutto per lei, le avevo promesso di tornare in America appena maggiorenne, l’avrei sposata seduta stante, le avrei dato la mia vita… lei era l’unica che mi capiva, lei, lei, lei, ed ora sono rimasto so-» Il sentire qualcosa che lo avvolge all’improvviso deve averlo scosso. Sono le mie braccia. Sì, mi sono fiondata ad abbracciarlo. Non potevo più sopportare di sentire la sua voce quasi rotta dal pianto che stava per sfogare.

«Non sei solo!» Non potevo dire frase più scontata. Ma va bene, tutto purché non pianga.

«Già, non sono solo…» Il braccio che prima gli copriva gli occhi ora è attorno alle mie spalle. Non è una morsa, è leggero, come a dirmi: «Se non vuoi, vattene pure.»

E io non lo faccio, contro ogni logica, non lo faccio. Lascio solo andare la mia testa sopra la sua spalla e riesco a scorgere quegli occhi blu in cui si sta riflettendo il cielo. Lui si volta verso me.

«La prima volta che ti ho vista… il verde dei tuoi occhi… mi ha ricordato subito questo posto…» Siamo vicinissimi. Mi sta delicatamente sfiorando una guancia con le sue dita. Verde e blu, blu e verde. I nostri occhi si stanno mischiando e amalgamando, potrei venir risucchiata da quel blu così profondo.

E sta succedendo, perché li vedo sempre, sempre più vicini.

E poi accade. Accade che non vedo più nulla perché ho chiuso gli occhi e che sento qualcosa di morbido sulle mie labbra. Ho i brividi e trattengo il respiro. Non riesco a pensare a nulla. Dura un’eternità.

Solo dopo esserci divisi e aver osservato per attimi infiniti quel blu, mi rendo conto di ciò che è successo.

Lui mi guarda con gli occhi spalancati e la bocca appena aperta, come se stesse cercando di dirmi qualcosa ma non fosse in grado di trovare le parole che in questo momento mancano anche a me.

Io lo fisso soltanto ed ogni secondo che passa la consapevolezza di ciò che è successo si fa strada in me e sono sicura anche nell’espressione confusa e scioccata che si sta dipingendo sul mio volto.

Mi alzo di scatto, impaurita dai miei stessi sentimenti. In questo momento sento solo di voler scappare, scappare lontano, il più lontano possibile da lui che mi confonde così tanto. Salgo i gradini in fretta e poi inizio a correre lungo quella strada che non so dove porta, ma che la mia testa continua a riconoscere come familiare. Sono così scombussolata che non noto nemmeno il dolore al ginocchio.

Il fruscio dell’erba mi indica che anche lui si è alzato e che ora mi sta inseguendo. «Ayame! Aspetta!»

Ma non ce la faccio, non ce la faccio a voltarmi, potrei cadere di nuovo vittima di quel suo blu profondo. Strizzo gli occhi e immediatamente l’immagine dei suoi occhi mi si proietta davanti. No!

Decido di svoltare in un piccolo vicolo alla mia destra ma mi ritrovo subito per terra perché sbatto contro qualcosa.

Intanto, sento dei passi a me familiari fermare la loro corsa proprio dietro di me.

«Ahia…» È un qualcuno quello contro cui mi sono scontrata e che ora si sta lamentando. Devo sbrigarmi a chiedere scusa. Alzo lo sguardo proprio per farlo e stavolta, invece di due occhi blu, ne trovo un paio cioccolato fuso.

Ora è tutto chiaro. Ecco perché mi ricordavo di queste vie.

«Jin!» Urlo io, sorpresa, fissandolo.

«Ayame…» Dice quasi in un sussurro il mio migliore amico, confuso, che ho malamente buttato a terra.

«Ryan!» Esordisce lo stupido americano dietro di me, che ora sembra aver recuperato la sua solita allegria.

Ci voltiamo tutti e due verso quest’ultimo e le nostre espressioni sono più eloquenti di mille: «Ma sei scemo?»

«Io sono qui perché mia nonna abita proprio qui di fronte, ma tu e soprattutto lui, che ci fate qui?» Chiede Jin, marcando volutamente la parola “lui”.

È vero, da piccola andavo spesso dalla nonna di Jin, fa dei biscotti che sono la fine del mondo! Ma ora non è questo il problema. Jin non deve sapere. Non deve sapere nulla di ciò che è successo! Che cosa farà l’americano? Oddio, e se dovesse dire qualcosa al riguardo?! No, no, no!

Improvvisamente sento qualcosa che mi fa il solletico e scende velocemente lungo le mie guance, per poi cadere a terra. La vista mi si appanna. Ehi, ma… sono lacrime, sto piangendo?

Ed ora me ne accorgo. Il ginocchio. Mi fa malissimo. Sento il mondo crollarmi addosso. Non dovevo correre e in più sono caduta un’altra volta.

La voce preoccupata di Jin che sta iniziando ad agitarsi mi giunge alle orecchie. Si agita sempre quando mi vede piangere, anche se per lui vedermi in questo stato non è una cosa così rara. Sa che se piango c’è sicuramente un motivo serio. «Ayame! Ayame! Che succede?!» Mi posa le mani sulle spalle e mi scuote un po’, ma dolcemente.

«Ehi, stupida!» Questo è Ryan, che si è chinato anche lui di fianco a Jin per potermi guardare negli occhi. Non avevo mai sentito questo suo tono di voce, sembra davvero preoccupato anche lui. «Che cos’hai?! Rispondi!»

E io scoppio in lacrime, non riesco a pronunciare una parola. Solamente dopo un po’ riesco a balbettare qualcosa che fa spalancare gli occhi ad entrambi. «I-il ginocchio… mi fa male… il ginocchio…» È quasi un sussurro.

Ma non è la pura verità. Non è solo il ginocchio a farmi male.








 

   
 
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