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Autore: ArashiStorm    24/11/2013    1 recensioni
[SPOILER per la fine di ACIII]
...Lo aveva perso, anzi lo aveva ucciso lui stesso, poco più di un mese fa. Le sue mani potevano dirsi ancora bagnate del suo sangue, anche se non solo del suo, perché insieme a quello di Haytham Kenway, dalla lama celata che teneva al braccio, colava anche il sangue, ben più odiato, di Charles Lee. E se non provava nessun pentimento per quell'ultimo omicidio, lo stesso non poteva dirsi del macigno che sentiva nel cuore per l'uccisione del padre. Soprattutto ora che, dopo la lettura del suo diario, era riuscito, forse, a capirlo anche se ancora non sapeva se sarebbe riuscito a perdonarlo...
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aveline de Grandpré, Connor Kenway, Haytham Kenway, Kaniehtì:io (Ziio)
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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3. A certain somebody

Il sole iniziava a intraprendere la strada per inabissarsi nelle acque dell'oceano quando i due Assassini attraversarono la porta che conduceva a New York. In cielo bellissime sfumature colorate dipingevano un tramonto che alcuni pittori improvvisati tentavano di riportare su tela, seduti sul limitare del piccolo lago nelle vicinanze dell’entrata della città. Ai lati del portone, della strada e anche sopra la pesante recinzione di legno, patrioti in divisa osservavano con attenzione le persone che passavano loro vicino. Connor ebbe un momento di sconforto mentre si sistemò meglio il cappuccio sul capo. Sconforto nel pensiero che dovesse comportarsi in maniera circospetta e attenta anche ora che i britannici se ne erano andati. Rimanevano i patrioti, quelle stesse truppe che aveva aiutato in passato e che ora, nonostante tutto, se avesse fatto qualcosa al di fuori dalla norma, lo avrebbero fermato e, senza indugio, attaccato con gli stessi fucili che qualche anno fa stavano dalla sua parte. O forse sarebbe stato meglio dire che era Connor che si era portato dalla loro parte, nella speranza di ottenere quella assai agognata libertà che suo padre temeva tanto. Se quei ricordi non fossero così profondamente amari, quasi gli verrebbe da ridere al pensiero di quanta verità nascondessero quelle fredde e dure parole che Haytham gli aveva vomitato addosso sul tetto di una di quelle case in lontananza. Connor aveva colto quella verità ora, ma al tempo stesso non voleva accettarla. Sperava ancora e avrebbe sempre sperato che qualcosa, prima o poi, sarebbe cambiato in meglio, non importa quanti anni ci sarebbero voluti, Connor continuava a sperare, ma era indubbio che quella attesa facesse male. La stessa New York era per Connor un sinonimo di dolore. Per i ricordi che vi aveva del padre, per le delusioni che gli aveva mostrato la gente, perfino per l’ignavia che pareva aver colto anche il generale Washington che sempre più spesso vedeva lontano dai suoi doveri, e molto più interessato al suo gioco di bocce. Non che avesse rinnegato il suo appoggio a Washington, assolutamente no, chiunque per Connor sarebbe stato meglio di Charles Lee, però al tempo stesso il ragazzo non poteva non domandarsi che fine avrebbe fatto questa nuova America viste le premesse su cui si basava. Ma in fondo lui non era un politico e tutto ciò in cui voleva sperare era che prima o poi tutti, ma proprio tutti, sarebbero stati liberi di vivere secondo la propria volontà. Questa era la sua speranza, quella stessa che ogni volta che entrava a New York veniva sconquassata di incertezze, davanti alle macerie ancora bruciate e alla povertà che vi vedeva passeggiare sulle stesse strade che venivano percorse da nobili ben vestiti. Le persone erano nate per essere uguali eppure i cittadini che Connor vedeva dirigersi verso casa avevano mete ben diverse, c’era chi sarebbe arrivato in una vecchia casa diroccata della periferia e chi nello stesso momento avrebbe girato la maniglia di una lussuosa abitazione del centro. La loro, invece, di meta sembrò palesarsi velocemente quando Aveline non intenzionata ad seguire coloro che, più ricchi, si incamminavano verso il cuore della città, si fermò nei pressi di uno dei primi edifici della periferia.

Era una casa in legno, piuttosto logoro ma intatto, e dal tetto spiovente. Vicino, Connor notò una carrozza davanti all'ingresso e anche un piccolo campo di pomodori e alcuni animali, segno che la famiglia non era così povera, ma nemmeno abbastanza ricca da poter possedere più di quel che vedeva. Le luci all’interno erano accese e il cane sembrava dormire silenziosamente sul prato a lato della casa. Aveline scese da cavallo, legando l'animale alla piccola recinzione del giardino, subito imitata dal compagno che si meravigliò quando la donna non si curò di bussare alla porta principale. Si avvicinò, invece, ad un’altra piccola porticina, che dava l’accesso ad un’ala della casa dal tetto più basso rispetto l’edificio principale. Aveline si fermò davanti e si volse verso Connor. Nei suoi occhi il ragazzo lesse tensione e preoccupazione, ma non ebbe tempo di chiedere il perché di quelle emozioni che la ragazza lo degnò, finalmente, della sua voce.

“Ora penso che tu debba rimanere calmo… E promettimi che non farai nulla di irrazionale e sconsiderato quando aprirò questa porta”

Connor la guardò decisamente turbato da quelle parole.

“Si può sapere che sta succedendo?” chiese, portando la mano al tomahawk senza nemmeno rendersene conto.

La ragazza sospirò rumorosamente. “Vedi la cosa che dovevi vedere in realtà non è una cosa, ma è un certo qualcuno che probabilmente…” si fermò per cercare le parole adatte me sembrò non trovarle quando imprecò a mezza voce e si limitò ad aprire la porta e a togliersi dall’uscio, invitando Connor ad entrare.

“Sarà meglio che lo veda con i tuoi occhi…”concluse.

Il ragazzo avanzò con cautela verso la porta aperta senza però togliere gli occhi da Aveline, che dal canto suo, evitava di incrociarne lo sguardo sistemandosi la lama celata sul braccio. Connor dovette però alla fine cedere e portare la sua attenzione all’interno della stanza. Era buio, ma i suoi sensi allenati non fecero fatica a distinguere ciò che si nascondeva nell’oscurità. Vide un tavolino con uno sgabello. Sul muro alcune mensole su cui erano appoggiati vari utensili. Nell’angolo notò appoggiati delle scope e rastrelli. Lungo la parete destra sacchi e cesti, alcuni pieni, alcuni vuoti. In fondo alla stanza, riposta con cura, sotto la piccola finestra, c’era della legna del tutto simile a quella che aveva visto fuori accatastata, sicuramente pronta per l’inverno in arrivo. Insomma quella sembrava in tutto e per tutto una stanza che la famiglia della casa usava come ripostiglio per tutto cui aveva bisogno. Questo fu ciò che il ragazzo pensò prima di volgere l'attenzione al muro di sinistra. Lì vide una cosa che gli parve subito fuori luogo: un letto perfettamente in ordine.

“Che significa?” chiese, girandosi verso la ragazza ancora fuori. Connor notò come l’amica sembrò spiazzata dalla domanda e cercò di spiegarsi meglio.

“Qui non c’è nessuno …e a parte un letto in perfetto ordine, sembra un normale ripostiglio di una famiglia benestante”

“Come?” e questa volta la voce della compagna lo preoccupò all’istante. Aveline si fiondò all'interno della stanza setacciandone ogni angolo con lo sguardo.

“Dannazione” imprecò uscendo come una saetta, andando a bussare con insistenza all’uscio di casa. Connor la seguì e non gli sfuggì di notare come il cane continuasse a dormire nonostante il chiasso che la ragazza stava generando sbattendo con insistenza i suoi pugni contro il legno. Quando finalmente qualcuno aprì la porta l’Assassino aveva già appurato come il cane fosse addormentato un po’ troppo profondamente… La cosa lo mise ulteriormente in allarme e vedere Aveline che parlava animatamente con l’uomo che aveva aperto la porta non lo fece stare meglio. Aveva bisogno di risposte ed era intenzionato ad averle al più presto. Non si curò più del cane e si diresse con cipiglio verso la compagna, prendendola per le braccia e costringendola a dargli tutta la sua attenzione.

“Aveline!” - urlò esasperato - “che sta succedendo?!”

La ragazza lo guardò fino a che il  fiato sembrò tornarle di colpo. Sospirò rumorosamente mentre Connor ancora le stringeva con forza le braccia, notando come l‘uomo, con il quale stava parlando poco prima, stesse fissando il ragazzo con evidente comprensione.

“Hai ragione … sarà meglio che ti spieghi tutto” disse infine.

  
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