3. A certain somebody
Il sole iniziava a intraprendere la
strada per inabissarsi nelle acque dell'oceano quando i due Assassini
attraversarono la porta che conduceva a New York. In cielo bellissime
sfumature colorate dipingevano un tramonto che alcuni pittori
improvvisati tentavano di riportare su tela, seduti sul limitare del
piccolo lago nelle vicinanze dell’entrata della
città. Ai lati del portone, della strada e anche sopra la
pesante recinzione di legno, patrioti in divisa osservavano con
attenzione le persone che passavano loro vicino. Connor ebbe un momento
di sconforto mentre si sistemò meglio il cappuccio sul capo.
Sconforto nel pensiero che dovesse comportarsi in maniera circospetta e
attenta anche ora che i britannici se ne erano andati. Rimanevano i
patrioti, quelle stesse truppe che aveva aiutato in passato e che ora,
nonostante tutto, se avesse fatto qualcosa al di fuori dalla norma, lo
avrebbero fermato e, senza indugio, attaccato con gli stessi fucili che
qualche anno fa stavano dalla sua parte. O forse sarebbe stato meglio
dire che era Connor che si era portato dalla loro parte, nella speranza
di ottenere quella assai agognata libertà che suo padre
temeva tanto. Se quei ricordi non fossero così profondamente
amari, quasi gli verrebbe da ridere al pensiero di quanta
verità nascondessero quelle fredde e dure parole che Haytham
gli aveva vomitato addosso sul tetto di una di quelle case in
lontananza. Connor aveva colto quella verità ora, ma al
tempo stesso non voleva accettarla. Sperava ancora e avrebbe sempre
sperato che qualcosa, prima o poi, sarebbe cambiato in meglio, non
importa quanti anni ci sarebbero voluti, Connor continuava a sperare,
ma era indubbio che quella attesa facesse male. La stessa New York era
per Connor un sinonimo di dolore. Per i ricordi che vi aveva del padre,
per le delusioni che gli aveva mostrato la gente, perfino per
l’ignavia che pareva aver colto anche il generale Washington
che sempre più spesso vedeva lontano dai suoi doveri, e
molto più interessato al suo gioco di bocce. Non che avesse
rinnegato il suo appoggio a Washington, assolutamente no, chiunque per
Connor sarebbe stato meglio di Charles Lee, però al tempo
stesso il ragazzo non poteva non domandarsi che fine avrebbe fatto
questa nuova America viste le premesse su cui si basava. Ma in fondo
lui non era un politico e tutto ciò in cui voleva sperare
era che prima o poi tutti, ma proprio tutti, sarebbero stati liberi di
vivere secondo la propria volontà. Questa era la sua
speranza, quella stessa che ogni volta che entrava a New York veniva
sconquassata di incertezze, davanti alle macerie ancora bruciate e alla
povertà che vi vedeva passeggiare sulle stesse strade che
venivano percorse da nobili ben vestiti. Le persone erano nate per
essere uguali eppure i cittadini che Connor vedeva dirigersi verso casa
avevano mete ben diverse, c’era chi sarebbe arrivato in una
vecchia casa diroccata della periferia e chi nello stesso momento
avrebbe girato la maniglia di una lussuosa abitazione del centro. La
loro, invece, di meta sembrò palesarsi velocemente quando
Aveline non intenzionata ad seguire coloro che, più ricchi,
si incamminavano verso il cuore della città, si
fermò nei pressi di uno dei primi edifici della periferia.
Era una casa in legno, piuttosto
logoro ma intatto, e dal tetto spiovente. Vicino, Connor
notò una carrozza davanti all'ingresso e anche un piccolo
campo di pomodori e alcuni animali, segno che la famiglia non era
così povera, ma nemmeno abbastanza ricca da poter possedere
più di quel che vedeva. Le luci all’interno erano
accese e il cane sembrava dormire silenziosamente sul prato a lato
della casa. Aveline scese da cavallo, legando l'animale alla piccola
recinzione del giardino, subito imitata dal compagno che si
meravigliò quando la donna non si curò di bussare
alla porta principale. Si avvicinò, invece, ad
un’altra piccola porticina, che dava l’accesso ad
un’ala della casa dal tetto più basso rispetto
l’edificio principale. Aveline si fermò davanti e
si volse verso Connor. Nei suoi occhi il ragazzo lesse tensione e
preoccupazione, ma non ebbe tempo di chiedere il perché di
quelle emozioni che la ragazza lo degnò, finalmente, della
sua voce.
“Ora penso che tu debba
rimanere calmo… E promettimi che non farai nulla di
irrazionale e sconsiderato quando aprirò questa
porta”
Connor la guardò
decisamente turbato da quelle parole.
“Si può sapere
che sta succedendo?” chiese, portando la mano al tomahawk
senza nemmeno rendersene conto.
La ragazza sospirò
rumorosamente. “Vedi la cosa che dovevi vedere in
realtà non è una cosa, ma è un certo
qualcuno che probabilmente…” si fermò
per cercare le parole adatte me sembrò non trovarle quando
imprecò a mezza voce e si limitò ad aprire la
porta e a togliersi dall’uscio, invitando Connor ad entrare.
“Sarà meglio
che lo veda con i tuoi occhi…”concluse.
Il ragazzo avanzò con
cautela verso la porta aperta senza però togliere gli occhi
da Aveline, che dal canto suo, evitava di incrociarne lo sguardo
sistemandosi la lama celata sul braccio. Connor dovette però
alla fine cedere e portare la sua attenzione all’interno
della stanza. Era buio, ma i suoi sensi allenati non fecero fatica a
distinguere ciò che si nascondeva
nell’oscurità. Vide un tavolino con uno sgabello.
Sul muro alcune mensole su cui erano appoggiati vari utensili.
Nell’angolo notò appoggiati delle scope e
rastrelli. Lungo la parete destra sacchi e cesti, alcuni pieni, alcuni
vuoti. In fondo alla stanza, riposta con cura, sotto la piccola
finestra, c’era della legna del tutto simile a quella che
aveva visto fuori accatastata, sicuramente pronta per
l’inverno in arrivo. Insomma quella sembrava in tutto e per
tutto una stanza che la famiglia della casa usava come ripostiglio per
tutto cui aveva bisogno. Questo fu ciò che il ragazzo
pensò prima di volgere l'attenzione al muro di sinistra.
Lì vide una cosa che gli parve subito fuori luogo: un letto
perfettamente in ordine.
“Che
significa?” chiese, girandosi verso la ragazza ancora fuori.
Connor notò come l’amica sembrò
spiazzata dalla domanda e cercò di spiegarsi meglio.
“Qui non
c’è nessuno …e a parte un letto in
perfetto ordine, sembra un normale ripostiglio di una famiglia
benestante”
“Come?” e
questa volta la voce della compagna lo preoccupò
all’istante. Aveline si fiondò all'interno della
stanza setacciandone ogni angolo con lo sguardo.
“Dannazione”
imprecò uscendo come una saetta, andando a bussare con
insistenza all’uscio di casa. Connor la seguì e
non gli sfuggì di notare come il cane continuasse a dormire
nonostante il chiasso che la ragazza stava generando sbattendo con
insistenza i suoi pugni contro il legno. Quando finalmente qualcuno
aprì la porta l’Assassino aveva già
appurato come il cane fosse addormentato un po’ troppo
profondamente… La cosa lo mise ulteriormente in allarme e
vedere Aveline che parlava animatamente con l’uomo che aveva
aperto la porta non lo fece stare meglio. Aveva bisogno di risposte ed
era intenzionato ad averle al più presto. Non si
curò più del cane e si diresse con cipiglio verso
la compagna, prendendola per le braccia e costringendola a dargli tutta
la sua attenzione.
“Aveline!” -
urlò esasperato - “che sta succedendo?!”
La ragazza lo guardò
fino a che il fiato
sembrò tornarle di colpo. Sospirò rumorosamente
mentre Connor ancora le stringeva con forza le braccia, notando come
l‘uomo, con il quale stava parlando poco prima, stesse
fissando il ragazzo con evidente comprensione.
“Hai ragione … sarà meglio che ti spieghi tutto” disse infine.