Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Timcampi    25/11/2013    3 recensioni
"Rico Brzenska, quindici anni d'età di cui gli ultimi otto trascorsi in una solitudine troppo nera per una bambina, contemplava il vuoto con occhi spenti, le braccia piegate in un rigido e impettito saluto militare e i piedi fastidiosamente infilati in quegli stivali troppo grandi.
Di tanto in tanto, mentre il capo istruttore inventariava il branco di ragazzini macilenti schierati come pedoni in divisa su una scacchiera polverosa, la ragazzina lasciava correre pigramente lo sguardo sui suoi compagni, i membri del settantasettesimo Corpo di Addestramento Reclute.
«QUAL È IL TUO NOME, RAGAZZO?!» brontolò il capo istruttore, puntando i piedi di fronte al suo ennesimo bersaglio: un ragazzo sull'attenti all'estrema sinistra dello schieramento, smilzo e acerbo, con un paio di spessi occhiali in bilico sulla punta del naso un po' aquilino e gli angoli della bocca sottile ricurvi nello sfontato accenno d'un sorriso eccitato. Poteva avere forse diciotto o diciannove anni.
Rico aggrottò la fronte e, senza neppure accorgersene, si ritrovò ad allungare il collo verso la sua direzione.
Il ragazzo sbattè ripetutamente le ciglia, si sistemò gli occhiali in cima al naso e sbattè nuovamente le ciglia.
E poi scoppiò a ridere."
Genere: Drammatico, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yuri | Personaggi: Hanji Zoe, Rico Brzenska, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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ABILITÀ

 

Drizzò di colpo il capo, quando un acuto fischio le suggerì che l'acqua era pronta. Riparandosi la mano con un panno appena umido, allontanò il bollitore d'acciaio dal focolare e lo posizionò sul tavolo. Stese con cura le foglie sul fondo della teiera e vi versò su l'acqua, stando ben attenta a non farla cadere direttamente sulle foglie ma ad un lato, sulle pareti tondeggianti del contenitore.

La sedia emise un lamento, quando Rico vi si abbandonò sopra, osservando la teiera con occhi vuoti.

Strofinò gli occhiali con l'orlo del grembiule da cucina con fare nervoso. Senza accorgersene, aveva cominciato a digrignare i denti, pigiando la mandibola contro la mascella fino a sentire le gengive dolerle.

Il fascio di luce pallida e giallina che filtrava attraverso le tende spesse -tende che Rico era più che determinata, quel giorno, a non voler scostare- cadeva sulla giacca color nocciola appesa alla per la collottola accanto alla porta d'ingresso: essa recava, elaborato e vistoso, l'emblema della Guardia Stazionaria.

Era ancora nuova fiammante e, per quanto non l'avrebbe mai ammesso, Rico avvertiva una lieve nostalgia di quella che l'aveva preceduta, sdrucida, logora, con quello stemma grigio e smorto cucito sulle spalle e sul taschino, lo stemma che distingueva le reclute.

Quasi ogni giorno, il suo lavoro consisteva semplicemente nel prestare servizio presso le mura, scandagliando coloro che le attraversavano o facendo attenzione che non ci fossero crepe o crolli di calcinacci e, in quel caso, rimediare. Più raramente, cioè quando qualche squadra dell'Armata Ricognitiva veniva spedita fuori dalle mura, gli ordini erano quelli di restare in cima all Wall Maria e di tenere ben aperti gli occhi in attesa del loro ritorno, e del segnale che avrebbe dovuto dare il via alle operazioni di routine: far allontanare quelle teste vuote dei titani dalle porte e accogliere i reduci.

Tenendo conto di quanto i membri della Guardia venivano pagati, in barba ai morti di fame che vivevano sgobbando con il fango alle caviglie sotto il giogo della Polizia Militare, il suo era un lavoro di cui nessuno avrebbe osato lamentarsi. Neppure Rico stessa, sebbene i suoi progetti originari fossero ben diversi e destinati a condurla a piani molto più alti, ancora più alti delle mura su cui, a volte, si trovava a dover trascorrere le sue giornate.

Comunque, quel pomeriggio non era in servizio. Ed era meglio così.

Non voleva essere là, quando fossero tornati.

Filtrò il suo tè nero dentro la tazzina di porcellana candida dalla quale s'alzò un nastro di fumo dello stesso colore, mentre un vago profumo di vaniglia saturava l'aria densa e carica di una tensione che neppure tutto il tè che possedeva avrebbe potuto placare.

Quel giorno, perfino il tè aveva un sapore disgustoso.

Era già trascorsa più di mezz'ora da quando, mentre stava rincasando, un fremente e rumoroso viavai di soldati tra le vie adiacenti alle mura aveva dato il via alle operazioni che precedevano l'arrivo dell'Armata, e la sottile colonna di fumo verde si stagliava ancora nel cielo, in lontananza, quando Rico aveva richiuso la porta di casa dietro di sé e aveva tirato le tende.

Nei minuti che avevano seguito, le strade s'erano popolate di gente accorsa da ogni angolo della città per presenziare all'entrata delle milizie dentro le mura, curiosa, chiacchierona, pronta a scommettere e a puntare il dito.

Trangiugiò controvoglia l'ultimo sorso, abbandonando poi il capo all'indietro, i grandi e limpidi occhi di ghiaccio sbarrati e traboccanti di pensieri appuntati sul soffitto.

Non era certo la prima volta, da quando era entrata nella Guardia Stazionaria, che succedeva: le vane gite suicide dell'Armata si susseguivano a un ritmo tristemente frenetico, coinvolgendo spesso soltanto una magra quantità di uomini esperti, di cui soleva tornarne a casa meno della metà. Ma stavolta, stavolta era toccato a tutti.

Morivano come moscerini nell'acqua. Soprattutto i nuovi arrivati.

Si morse violentemente il labbro inferiore, stringendo i pugni con forza per non cedere alla tentazione di spalancare le finestre e di cercare con lo sguardo qualche traccia, qualche soldato dallo sguardo sereno che le dicesse che l'operazione era stata un successo, e che tutti quanti erano tornati sani e salvi.

Questo, da che aveva memoria, non era mai accaduto.

Continuava a far guizzare lo sguardo dalla teiera alla finestra, dalla finestra alla porta, dalla porta alla teiera, senza sosta, fino ad essere assalita da un forte capogiro.

Poi, i suoi piedi si mossero da soli: s'alzò con tanta foga dalla sedia che quella cadde a terra, calzò in tutta fretta gli stivali e si precipitò alla porta.

Quando l'aprì, a farle ombra dalla luce bruciante di un tramonto di fuoco, trovò oltre di essa una sagoma familiare.

“Bentornata”, avrebbe voluto dire.

«Sei tornata» mugolò invece, le labbra piegate in una smorfia indecifrabile e gli occhi che si stavano facendo improvvisamente umidi. Fece correre lo sguardo lungo l'intera figura: era alta e vigorosa, molto più di quanto lei non fosse mai stata, e per quanto conoscesse ormai bene ogni centimetro del suo corpo non riusciva ancora ad abituarcisi, e credeva e sperava che questo non sarebbe mai cambiato; i suoi capelli erano più scarmigliati del solito, e molto sporchi; una crepa sottile percorreva una lente degli occhiali, mentre l'altra mancava. Forse avrebbe dovuto provvedere a costruirle un laccio simile a quello che utilizzava per tenere i propri al loro posto.

Gli stivali erano pieni di graffi, intrisi di fango secco ai lati e sulle ginocchia; la sua giacca, per quanto fosse nuova di zecca, era lacera e consunta; uno squarcio s'apriva sull'avambraccio destro, sul quale una patina di sangue ancora lucente ricopriva un profondo graffio da attrito.

Ma quello poteva aspettare ancora un po', si disse, gettando le braccia al collo della donna che, seppur restia a mostrarsi stanca morta, barcollò pericolosamente all'indietro.

«Ti aspettavi qualcosa di diverso, per caso?» brontolò Zoe Hanji, carezzandole il capo. Era lorda da capo a piedi di sangue, sudore e fango, ma non importava.

«Ho fatto del mio meglio per non aspettarmi niente» ammise Rico, emergendo dal suo petto con un alone di sporco stampato sulla fronte. Era adorabile. «Entra, sbrigati. Lascia che dia una controllata a quella ferita» mugugnò, voltandole le spalle e facendole cenno d'entrare in casa.

Zoe c'era stata soltanto una volta, in quella casa, poco prima di trasferirsi al Quartier Generale dell'Armata Ricognitiva. Quella era stata anche l'ultima volta che lei e Rico avevano potuto incontrarsi.

Era trascorso quasi un mese, da allora. Spedire lettere costava troppo, per non parlare dei telegrammi, ma un telegramma Zoe l'aveva spedito, proprio tre giorni prima, all'alba della prima missione a cui avrebbe preso parte, una missione a sorpresa, organizzata all'oscuro della gran parte dei membri dell'Armata per fini puramente dimostrativi, una missione suicida durante la quale aveva visto un numero impressionante di vite spezzarsi proprio sotto i suoi occhi, e che l'aveva costretta a lasciare le mura in tutta fretta.

Oh, ma la prossima volta sarebbe andata diversamente. Le sarebbe piaciuto un mondo vederla sventolare un fazzoletto per lei, sebbene sapesse perfettamente che questo non sarebbe mai e poi mai accaduto.

Così come mai avrebbe lasciato che le atrocità che -ora lo sapeva- avrebbe visto di lì alla fine dei suoi giorni trapelassero dalle sue parole o dai suoi occhi, una volta di ritorno dentro le mura.

Non in presenza di Rico, almeno.

«Siamo in congedo per quattro giorni» sorrise, con aria trionfante, prendendo posto e puntellando i gomiti sul tavolo, mentre Rico spariva per poi tornare armata di garze, di uno straccio e di una bottiglia scura, di cui Zoe non potè identificare il contenuto.

«Puoi restare, se è soltanto per quattro giorni e non hai un altro posto dove andare. Togliti la giacca. E... E la camicia» mormorò, aggrottando la fronte. Per quanto non volesse darlo a vedere, qualcosa dentro di lei esalò un profondo sospiro di sollievo.

Inoltre, sapeva perfettamente che l'altra non sarebbe potuta andare da nessun'altra parte.

Raccolse l'altra sedia dal pavimento e prese posto di fronte alla sua ospite.

«Diventi sempre più bacchettona, Rico» la punzecchiò quella, obbedendo docilmente a quell'ordine e osservandola divertita: non gliel'avrebbe mai detto, per timore che si voltasse dall'altra parte, ma era arrossita violentemente.

«Fa' silenzio» mugugnò la più giovane, cercando di concentrarsi sulla ferita e tamponandovi su il panno bagnato.

Le piacevano le sue braccia: erano muscolose, solide, toniche, ruvide. Zoe era ruvida. Lo erano i calli sulle sue mani, la sua bocca, le sue spalle, perfino la sua gola, finanche la pelle appena al di sopra e al di sotto del suo seno, fasciato in maniera strettissima. E Rico lo sapeva, conosceva quel corpo, perchè aveva passato gli ultimi tre anni a medicarne ogni singolo brandello.

«Com'è successo? E che accidenti ci hai strofinato sopra? È un disastro» osservò tra i denti, inondando la ferita d'alcol puro. E se quella roba bruciava abbastanza da costringere la temeraria paziente a contrarsi in una strana smorfia, aveva anche un odore che quasi le faceva girare la testa.

Ma Zoe si limitò a fare spallucce. Meglio non rischiare di farsi sgridare per aver centrato un albero tanto grande che probabilmente cinque uomini a braccia aperte non sarebbero riusciti a circondarne il perimetro, e neppure per aver cercato di rimediare usando un lembo del mantello inumidito con la propria saliva. Aveva proprietà disinfettanti, la saliva, ma preferiva evitare di menzionarle.

«Allora, com'è il comandante? In che razza di mani sei andata a cacciarti?»

«Il comandante Richter?» ridacchiò Zoe, sfilandosi gli occhiali ormai inutili e abbandonandoli sul pavimento, in cima al mucchio d'indumenti inutilizzabili. «Un pallone gonfiato. Il caporale, quello... Smith, quello sì che sa quel che fa. Più o meno. Se avessi seguito gli ordini per filo e per segno, probabilmente ora starei facendo venire un attacco di diarrea a uno di quei testoni» rise, portandosi distrattamente la tazzina vuota alle narici e annusandone rumorosamente il fondo.

Rico non sapeva bene se essere più in collera con lei per non aver seguito gli ordini o per l'aver corso il rischio di fare la fine del topo per colpa di un incompetente posto al vertice dell'Armata per chissà quale capriccio dei piani alti.

«Sei una completa irresponsabile» sibilò, completando finalmente la fasciatura e contemplando l'opera non senza una punta d'orgoglio. Era sempre stata brava, in questo genere di cose. «E anche un'imbranata» aggiunse.

«Mi prepareresti un bagno caldo?» sorrise l'altra in tutta risposta. Diede un paio di colpetti alla fasciatura. «Farò attenzione a non rovinarla.» precisò.

Rico sospirò, schioccando la lingua. «Solo perchè sei ridotta tanto male che non ti lascerei mai girare per casa conciata così. Che schifo. Ma da domani dovrai vedertela da sola.» dichiarò, facendo per scomparire oltre la soglia, in direzione del bagno.

«Ohi, Rico»

«Cosa c'è?»

«Mi sei mancata»

Rico abbassò lo sguardo, le labbra socchiuse e le dita ancora strette intorno al pomello.

«Anche tu, Zoe.»








*PLIN PLON*
Ed eccomi di nuovo qui, con il secondo capitolo. Ringrazio di cuore tutti coloro che hanno recensito, inserito tra le seguite/preferite/ricordate il primo, e mi auguro che questo venga accolto con pari entusiasmo.
Sono davvero felice d'aver cominciato a scrivere "Scacchi", questa storia mi sta prendendo molto. :3
Se vi state chiedendo dove sono tutti gli altri personaggi, in virtù della dicitura "un po' tutti", sappiate che dovrete pazientare e tenere a mente che, comunque, questa è una fanfiction che s'incentra per lo più sul rapporto tra le due protagoniste, e credo sia giusto dedicarvi un ampio spazio, specialmente in alcuni punti della narrazione. 
Ancora una volta, fatemi un fischio nel caso troviate errori di battitura. ;n;
Spero di rivedervi in numerosi al prossimo capitolo! *v*

 

   
 
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