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Autore: Amarmalar    26/11/2013    3 recensioni
Lazar e Semiramide, allievo e maestra, sono l'uno il rigore, l'altra la perdizione: identici e opposti al contempo. Qual è il limite fra affinità e ossessione? E oltre quale, la fedeltà diviene scopo, prigione e tormento?
Londra, 1890. Gli abitanti della notte vestono il grigiore di una città ignara come un guanto di velluto; serpeggiano placidi fra nobiltà e salotti, mescolandosi ad un'umanità che hanno da tempo abbandonato. In questa danza frenetica di dogmi, eleganza e buone maniere si dipanano le trame di potere di un'élite votata al culto di Morte. Necromanzia: arte e condanna di ciascuno dei suoi iniziati.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Contesto generale/vago
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Nel Sangue e nello Spirito
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Caduta e Ascesa




L’alta società londinese apriva le sue porte sul fragore di un lusso talmente sfrenato da riuscire a far impallidire la Reggia di Versailles. Oltre la soglia, Semiramide e Giunone vennero accolte dall'accecante visione in cui gli unici protagonisti non erano altro se non ricchezza e ingordigia dell’essere umano. Violini acuti davano vita ad una sinfonia allegra in grado di disperdersi in quell’enorme sala dove il colore oro regnava indiscusso.
Il fruscio della seta di abiti preziosi si condiva alle innumerevoli maschere che celavano i volti dei presenti; le uniche sprovviste di maschera erano proprio Semiramide e la sua accompagnatrice.


« Che la terra che calpestate sia magnanima e solida con Voi. Poichè prima o poi vi inghiottirà, rendendovi solo putrido mangime per i vermi. E’ la meraviglia del mondo, la meraviglia dell’essere. »

Un saluto tanto inaspettato quanto ben conosciuto per Semiramide che si ritrovò ad incrociare lo sguardo interdetto di Giunone, sempre fedelmente ferma al fianco della vampira, immobile come lei nello scenario di una danza sfrenata e composta di sola seta e maschere.
Nel mezzo di questa, un’ombra cupa: un mantello del colore della cenere e una maschera che si distingueva dalle altre goliardiche. Una maschera ricavata dalla tragedia greca, un volto scolpito da rughe e una smorfia triste, pregna di sofferenza e malinconia.
« Come diavolo parla questo? »
La voce di Giunone, sin troppo impetuosa, sin troppo acuta, contrastò il filo dei pensieri di Semiramide, ora intenta a fissare quella maschera in avvicinamento. Si ritrovò presto ad accarezzare con morbosa insistenza il suo anello impreziosito da una gemma d’oro screziata di nero, un modo per stemperare il fastidio procurato dalla presenza dell’altra: troppo invadente, troppo istintiva, sin troppo stupida per i propri gusti.
« Mia adorata Giunone, permettimi qualche minuto di solitudine. Credo di aver appena trovato un compagno per il ballo. »
Deviò con facilità la domanda di Giunone, infondendo le sue parole con particolare grazia ed eleganza, elementi che sin dal principio si accordavano perfettamente al suo raziocinio. Allungò lentamente la mano verso la maschera, richiedendo così il suo ballo, una richiesta che venne immediatamente accolta.
« Non ditemelo. Ed io che ormai vi pensavo abbandonato nell’abbraccio gelido di Morte. »
Erano ormai immersi in quella danza dettata dal suono di violini acuti e clavicembali, un ritmo modesto e goliardico, perfettamente in tema con l’ambiente festoso, un suono che si fondeva con le voci e alle risate ubriache degli astanti. Semiramide e la Maschera stonavano in quell’ambiente; la loro danza lenta e sin troppo intima seguiva un ritmo più lento, incompreso quanto personale, qualcosa che non sembrava importare a nessuno dei due: sapevano di essere soli in quell’afflusso prepotente di anime, sapevano di potersi comprendere l’un l’altro, senza che nessuno potesse svelare i segreti delle loro parole.
E mentre si lasciavano trasportare da quel ballo, Semiramide allungò la sua mano, liberando il volto del suo accompagnatore definitivamente: una chioma bionda e lunga ricadeva su un viso maschile ma delicato; una pelle perfetta, sopravvissuta egregiamente al passare del tempo e delle ere. Solo lo sguardo di Alasdair sembrava rivelare la vera essenza, la sua vera età; proprio come l’odore prepotente del suo sangue, sin troppo antico per essere compreso.
« E' piovuta cenere sulla Via che attraversava il Pelago della mia ineffabile esistenza e mi son seduto ad attendere che essa mi soffocasse dolcemente. Ma non era ancora tempo, non ancora Desiderio, e mi son alzato. Poiché è un altro Desiderio che mi affligge, è il Sole oscuro che con foga desidera nuovamente il suo posto nella giusta costellazione. »
Le parole di Alasdair scorrevano fredde e impersonali, legandosi ad un sorriso artificioso che andò a smuovere quelle labbra pallide. Tuttavia tratteneva Semiramide in una presa serrata, potente, quasi a voler intingere un senso di possessività nei suoi confronti. Lei sorrise a sua volta, un sorriso sicuro e stranamente divertito che non si preoccupò di nascondere all’altro.
« Cosa ti fa credere, Alasdair, che io permetterò al Vecchio Sole Oscuro di risorgere? Perché mai dovrei desiderare qualcosa del genere? »
« Nora. Lascia che io ti chiami Nora, lascia che riacquisti la complicità che un tempo avevamo. Lascia che io riafferri con delicata prepotenza quel rapporto che un tempo avevamo: io il maestro, tu la mia allieva, la mia preferita. Io la Cenere, tu la Lavandaia. Io, il Vecchio Sole Oscuro.»
Semiramide esplose immediatamente in una fragorosa risata che interruppe con un impetuoso bacio contro le labbra di Alasdair, il quale infastidito condusse indietro il capo, liberandosi da quel tocco sin troppo intimo che non sembrava trasmettere passione ma solo una semplice minaccia, una semplice pena.
« Sei cambiato, Alasdair: non ho più davanti il mio adorato maestro o il potente Sole Oscuro, ora dinanzi a me ho un mendicante che come il più maltrattato degli orfani cerca di aggrapparsi alla gonnella di una madre ormai perduta. Non sei più Cenere e soprattutto io non sono più la tua Lavandaia. Io non sono più colei che pende dalle tue labbra, io non sono più colei che pulisce i tuoi prodigi. Ma la verità è che ora è il mio tempo ed io non mi farò in alcun modo intralciare nella scala al successo. I temibili avversari è sempre bene sopprimerli alla radice e tu, mio vecchio amico, sei un elemento temibile. »
« Io sono corruzione, morte e dissoluzione. Ora la cancrena disperante di un'esistenza zoppa mi attanaglia e tu non mi impedirai di ritornare ciò che un tempo ero, diverremo potenza entrambi, l’uno legato all’altra. Poiché ricordatelo, Nora, è a me che devi ciò che sei ora. »
Il ballo seguiva ancora le loro parole, una sorta di macabra danza che rimembrava il ricordo di un passato sin troppo lontano ma, allo stesso tempo, sin troppo vicino per due esistenze eterne come le loro. Erano la pura passione contro l’impassibile calma: lui, ormai corrotto dal suo Desiderio, bramoso di riafferrare il suo passato ancora una volta; lei, gelida sicurezza, sin troppo conscia del proprio potenziale.
« E allora lascia che sia un Patto a legarci nuovamente. Un legame sancito con un bacio che osannerà i nostri futuri successi. »
Questa volta fu proprio Alasdair ad esporsi con un bacio, nuovamente labbra contro labbra. Quel tocco arrivò in maniera differente, un bacio che aveva il sapore della salvezza per entrambi. In concomitanza l’anello posto al dito di Semiramide sembrò animarsi, aggrappandosi alla vita sotto deboli luminescenze dorate che si mescolarono a screziature buie, nere. Fu improvvisamente il gelo ad addentrarsi nel corpo di Alasdair mentre il piacere più puro scivolava in quello della vampira che ora sembrava quasi cullarsi nella fonte del suo stesso potere.
Semiramide abbandonò con un ultima carezza sfiorata le labbra dell’altro, il sorriso era impresso sul suo volto; aveva appena vinto, aveva appena tratto in inganno colui che l’aveva iniziata alla Necromanzia, colui che le aveva donato il potere e ogni segreto: lo aveva tradito, ricavando da questo un particolare piacere.
« No, Alasdair. Ora sono io la Corruzione, sono io la Morte e sono io il Peccato. Mi hai allevata bene, mi hai portata al successo ed ora come Magister porto l’insegnamento a menti ancora acerbe. Mi hai insegnato così bene che ho portato la Morte in te. Entro due ore non sarai più un’esistenza zoppa, molto presto non esisterai più. Ed ora va, prima che la tua carne inizi ad avvizzire davanti ad un pubblico indesiderato. Morire in quella solitudine che hai sempre amato, è un privilegio di cui non desidero privarti, reputalo come un mio ultimo dono. Addio, mio adorato. »
Non solo aveva messo fine a quel ballo ma silenziosa come una serpe e letale come un veleno era riuscita a mettere fine alla vita del suo passato maestro. Un ultimo sorriso sancì il distacco che la ricondusse a disperdersi fra quella massa umana danzante dai frivoli atteggiamenti, prima che lei lasciasse lì Alasdair, a far i conti con la sua fine imminente. Non una nota di rimorso, non un singolo sintomo di dispiacere intaccavano quel volto giovane e incorniciato dalla chioma cremisi ben acconciata. La soddisfazione: era questo che emergeva da quel sorriso morbido che ora dedicava a volti sconosciuti che incrociavano il suo passaggio e fu proprio con quella soddisfazione che si ricongiunse a Giunone.

« Mia Giunone, la serata inizia ad annoiarmi. Andiamo? Oltretutto rischiamo di perderci la cerimonia dedicata ai nuovi seguaci. »
« Si. Queste frivolezze umane iniziano a scocciarmi, non mi divertono. »
« Oh, su questo devo contraddirvi: il divertimento appartiene a chi è in grado di crearselo, mia Signora. Andiamo. »

 



Londra, Agosto 1890
Tratto dal diario personale di Semiramide

Una vecchia conoscenza è stata in grado di interrompere la noia di questa esistenza.
Alasdair: impeccabile come sempre, meraviglioso nei suoi ingressi sempre così inaspettati e significativi. Lo adoro, l’ho sempre adorato, lui e quel suo modo di esprimersi sempre così arzigogolato e pomposo.
La sua voce, il suo volto, i suoi occhi, sono riusciti ad innescare un vago senso di nostalgia verso quei tempi passati; tempi in cui la mia ignoranza e ingenuità erano elementi che mi accomunavano alla massa, al semplice volgo. La mia mente è scivolata verso quei giorni in cui il mio animo era spinto esclusivamente dall’istinto e da una bestia troppo giovane ed incontrollabile, sempre desiderosa di perdere i sensi nel sapore del sangue.
Mi ha chiamata Lavandaia anche questa volta, come se io fossi ancora la sua giovane aiutante pronta a pulire i suoi disastri, i suoi lavori riusciti male.
E’ strano constatare come la Necromanzia riesca a distruggerti una volta abbandonata;  provoca quel senso di vuoto che si cerca di sopprimere ma che inevitabilmente si ingrandisce sempre di più, finendo per divorarti, costringendoti a supplicare, solo per saggiare ancora anche una singola volta la stilla di questo potere.
Ho messo definitivamente fine alle sue sofferenze.
Ormai, ora, sarà solo una mummia inanimata, in attesa di diventare cenere una volta per tutte.


Nel frattempo Rose, colei che mi affianca nell’insegnamento, la mia pari, si ostina a presentare nuovi seguaci. Spezzerò anche lei e l’impulsività che distingue il suo giovane stato da vampira.
In breve: altre menti da modellare, altre distrazioni per la mia scalata… altra carne da macello.



« Questo è il mio dono personalissimo per voi, mia signora. »
Rose, nonostante lo facesse dall'alto della genuflessione di Lazar ai suoi piedi, parlò alla donna seduta dietro il velo con una deferenza pressoché estrema.
Lui se ne stava in ginocchio, ostinatamente relegato in un silenzio pesante, i tratti del volto segnato dal tempo tesissimi in un'espressione inflessibile. Non aveva ancora commentato con una sola parola la successione di eventi folli che avevano scandito fino a quel momento le ore che lo separavano dall'alba.
Esattamente al centro di quella sala elegantissima dalle luci estremamente basse, Lazar era il ritratto più fedele di un'immobilità solenne: con un solo ginocchio adagiato sul tappeto soffice e prezioso che si allungava fino allo scranno celato da un solo strato di seta nera, perseverava in un atto che in qualche modo si distanziava dalla mera sottomissione. Pur costretto al suolo, in un retaggio di fierezza spontaneamente dettato dall'antichità del proprio sangue, teneva il mento sollevato e gli occhi di un grigio pallidissimo fissi sulla sagoma custodita da quel sottile schermo di tessuto leggero.
Nel momento in cui Rose lo introdusse con quella brevissima frase, Lazar poté cogliere il semplice cenno del capo della creatura che occupava il trono. A quel gesto, un uomo vestito di un'eleganza eccessivamente sobria si fece avanti fino al limitare del velo stesso, separandosi dal semicerchio di gente sconosciuta che, alle loro spalle, faceva da cornice alla scena. Nel seguirne con un'attenzione estrema il tragitto, Lazar si permise di studiarne le fattezze: era un uomo minuto dalla corporatura esile, i tratti del suo volto erano resi – se possibile – ancora più affilati dai capelli di un biondo talmente chiaro da sfiorare il candore. L'albino oltrepassò il velo e per una manciata di istanti anche il suo corpo non divenne che una proiezione scura sul campo cupo che separava ciascun ospite di quella stanza da chi sedeva in prossimità dell'altro capo di essa. Lazar vide quella proiezione chinarsi in direzione dello scranno e del suo occupante; si sforzò in tutti i modi di cogliere anche una sola parola dello scambio appena bisbigliato fra i due, senza alcun soddisfacente risultato.
Non rivolse lo sguardo a Rose, in piedi al suo fianco, per un solo istante. Lei sorrideva di una soddisfazione rara, con la mano minuta ma capace di una presa sorprendentemente forte arpionata saldamente ad una spalla di Lazar. Lui, con la coda dell'occhio, non poteva che cogliere il riflesso della gemma dorata e striata di nero dell'anello che le adornava il dito. Alle volte, quella pietra brillava di un'intensità mutevole; erano le stesse volte in cui qualcosa di ignoto si faceva strada nel suo animo, provocandogli una discreta e sconosciuta sensazione di disagio.
« La voce di Morte accoglie il dono, Magister. »
Fu l'albino a parlare, mostrandosi nuovamente e nuovamente fermandosi per sostare a non oltre un paio di passi dal seggio. Rose rafforzò la propria morsa stringendo fra le dita ossute il tessuto pregiato della casacca di Lazar; la pietra del suo anello sembrò esplodere di un bagliore incontenibile, riversando sulla quiete del vampiro genuflesso un'agitazione estranea, un gelo che sembrava volersi incatenare alle sue ossa stesse.
« Non ne resterà delusa. Questa creatura è sangue del mio sangue, del medesimo ma più nobile e antico lignaggio. Una pietra grezza da plasmare, Vicario. »
Lazar si sorprese a sorridere delle parole di Rose. Nello specifico, si scoprì divertito del modo in cui lei cercasse di vestirle di una sicurezza della quale al momento non godeva. Era il suo sangue stesso a tradirla. In ginocchio al suo fianco, il vampiro più anziano poteva coglierne la tensione nei moti irrequieti che le gonfiavano le vene, segno inconfondibile della condizione di immortale ancora acerba della parente. Rose non godeva ancora di un autocontrollo degno di essere definito tale; non era trascorsa che una scarsa manciata d'anni, dalla sua morte.
Questo faceva di lei una creatura incredibilmente incline alla bestialità, ancora troppo distante dalla padronanza magistrale dei propri istinti tipica degli antichi. La stessa che, invece, in quel frangente permise a Lazar di limitarsi a sorridere della formalità di quella situazione. Non temeva la donna oltre il velo; non temeva quello che pareva essere il suo subalterno, tanto meno uno solo fra i presenti in quella sala: le proprie percezioni olfattive erano sufficienti ad assicurargli di godere della supremazia razziale su ciascuno di essi. Una scarsa porzione di questi non erano che mortali; il resto non vantava la presenza di un solo individuo dal sangue più anziano e potente del proprio. Per assurdo, l'essenza della stessa creatura che occupava il seggio oltre il velo risultò essere la più acerba e debole di tutte, in quella sala: un vampiro neonato, di recentissima creazione. Quella scoperta fu in grado di instillare in Lazar il seme di un dubbio pressante: si domandò cosa spingesse quella serie di individui a mostrare un rispetto esagerato per un essere notevolmente meno potente del più debole fra essi.
Il filo dei pensieri dell'antico fu interrotto dalla parlata flemmatica dell'albino, recentemente catalogato come Vicario.
« Tuttavia, la Voce desidera comprendere se il reale valore di questa pietra corrisponda a quanto voi millantate valga, Magister. La mia maestra ha cura delle sue proprietà; mai accetterebbe di possedere qualcosa che non sia all'altezza della sua benevolenza. »
Nel terminare quell'affermazione, l'uomo minuto scrutò il vampiro in ginocchio sondandone con cura la genuflessione da capo a piedi, con uno sguardo carico di un misto fra compassione e molle indolenza. Lazar accolse quell'occhiata assieme al senso delle parole che l'accompagnarono con una discreta diffidenza. Per la prima volta, in quella notte e in quel salone, la voce dell'antico si tradusse in un'unica, perentoria, affermazione.
« Non riconosco per me altro padrone che differisca dalla mia persona stessa. »
Le parole di Lazar stesero sull'intera sala una coltre di silenzio tesissimo. Fra le sue percezioni, in una frazione di secondo, si scontrò il ribollire agitato del sangue di ciascuno dei presenti. Rose, al suo fianco, smorzò fra le fauci serrate un ringhio basso e rabbioso, rilasciando nell'immediato la presa ostinata su una sua spalla. Il motivo di una simile e diffusa allerta, Lazar poté coglierlo un solo istante dopo, quando oltre il velo e attorno al trono vide divampare con una furia improvvisa la luminescenza di un rogo irrequieto di spire scure. In quel momento, costretto a piegarsi maggiormente al suolo, sgranò gli occhi e dovette lottare contro la propria parte bestiale. Qualcosa di incomprensibile era appena stato messo in moto da chiunque sedesse oltre quella maledettissima seta scura; di qualsiasi cosa si trattasse, Lazar realizzò come quella meccanica fosse in grado di piegare anche la più ferrea volontà. Il disagio che Rose era in grado di provocargli, limitandosi a far brillare la pietra di un anello, era nulla a confronto. Qualunque cosa quel vampiro giovanissimo avesse scatenato fu qualcosa di mai provato prima d'allora, per Lazar: una presenza soverchiante e massiccia; capace addirittura di infierire sul suo corpo, governando e alimentando un dolore che per un attimo gli fece credere di poter ardere vivo. Ma la cosa che l'antico temette maggiormente fu il modo in cui questa influenza si fece strada attraverso la propria mente: sentì che potesse attraversarla con la facilità e la precisione di una lama. E comprese.
Comprese di aver vissuto secoli nella mediocrità dell'assenza di una meraviglia simile.
In quell'istante, Lazar giurò solennemente a sé stesso che un giorno non troppo lontano avrebbe stracciato quel velo per oltrepassarlo e occupare personalmente quello scranno.
...dal lato opposto della sua testa, una voce che l'antico si sforzò di ignorare gli rispose che non ne sarebbe mai stato capace, se prima non avesse liberato anche lui.



Londra, Agosto 1890
Tratto dal diario personale di Lazar

Non comprendo. E non comprendere mi manda in bestia come poche cose al mondo. Questa notte ho realizzato di aver condotto finora un'esistenza votata unicamente alla tronfia ed errata consapevolezza di godere di una decente supremazia su una larga serie di creature: sbagliavo, sbagliavo terribilmente. Erano anni che non provavo la sensazione di smarrimento che solo una distorta coscienza di sé è grado di trascinarsi dietro: credevo di essere potente. Ebbene, non lo sono. Il potere non è nel carisma, non è nella ricchezza, non è nel sangue: il potere scorre placido fra le mani della cerchia di persone che questa notte mi ha accolto. Un potere in grado di rendere l'antichità del sangue pari ad acqua, di offuscare il bagliore delle più preziose gemme e di soffocare l'arguzia del più abile degli oratori. E io non ho potuto far altro che guardarlo, in ginocchio come chi implora per poterne saggiare anche solo il riflesso. Rose aveva ragione; aveva ragione su tutto. Ho riso, nel momento in cui mi ha detto di poter essere più letale di me, pur nella giovinezza dei suoi anni. Ho sorriso anche quando mi ha detto che io stesso mi sarei ricreduto e sarei tornato indietro sui miei passi, rimangiando la superbia con la quale l'avevo accolta. Ho accettato mi scortasse presso quelli che lei chiamava i “suoi simili”, mi sono inginocchiato per gioco dinanzi ad una signora dal sangue talmente acerbo che mai avrebbe meritato il mio rispetto. Sono caduto nella mia illusione di infallibilità e dal fondo di questa adesso invoco una nuova ascesa. Ho peccato nei confronti del mio ego, poiché l'ho vestito di meriti insignificanti al cospetto di quel che davvero vale: Necromanzia. Da questa notte non vale altro, null'altro che sia degno di un tale privilegio.




NOTE DELLE AUTRICI
: Questa storia è scritta a quattro mani,precisamente da:
Amartema e Malaria. Di seguito vi lasciamo i rispettivi Account.
Grazie a tutti coloro che seguono questa storia.


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Inoltre, le menti malate di Amartema e Malaria, ricordano che:
   
 
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