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Autore: outofdream    28/11/2013    2 recensioni
Rivisitazione di "Twilight", di S. Meyer.
Dal 17 Capitolo:
Rimasi immobile in quel modo, rossa in viso, coi piedi scalzi e i capelli arruffati, lo sguardo fisso su di lui.
Non ero spaventata, ma non sapevo nemmeno cosa fosse giusto fare.
Le sue mani delicate sfiorarono i contorni rigidi della finestra e ne spostarono con leggerezza le ante, facendo entrare nella stanza un’aria pungente, fredda e morbida. Provò a sorridermi, ma sapevo che in quel momento la sua tristezza non conosceva confini e quando lo capii, non potei resistere: corsi verso di lui, gettandogli le braccia al collo e stringendolo a me.
Oh, Edward.
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Bella/Edward
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Twilight
Capitoli:
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Nota dell’autrice: Sto modificando ulteriormente la storia, perciò se notate delle differenze fra questo e altri capitoli, è tutto ok: sto soltanto aggiornando i capitoli.
                                                                                                        Libro aperto


Mi muovevo sotto un cielo dubbioso e una fitta coltre di nuvole. Nessuna pioggia, quel lunedì. Tanto meglio. Mi infilai nel pick-up e detti gas, imboccando la strada che mi portava dritta a scuola.
Ero più rilassata, più a mio agio. Più tranquilla mentre mi infilavo fra la folla e davo il mio corpo in pasto a occhi che, ormai, parevano aver imparato a riconoscermi. Perfino lo stupore iniziale degli studenti cominciava a scemare: ottimo. Lanciai un’occhiata all’orologio storto appeso alla parete – ancora venti minuti all’inizio delle lezioni? Sospirai. Ce ne vorrà prima che riesca ad abituarmi al tempo di questa mia nuova vita. Mi trascinai in aula studio, sedendomi sull’unica panca libera, in attesa. Sfilai dallo zaino il mio specchietto e detti un’occhiata al mio viso, e subito ogni mia critica riempì quelle profonde fosse viola scavate dall’insonnia. Le mie notti si ripetevano tutte uguali, senza pietà. Mi sentivo consumata, privata di ciò che più era mio e ciò che più mi necessitava. A volte, guardandomi nel riflesso dello specchio del bagno, quasi mi spaventavo: non sembravo nemmeno più io. I segni grigiastri che mi trascinavo sotto le ciglia mi sembravano solo cicatrici, solchi disegnati delle mie stesse lacrime, dai miei medesimi acuti sconforti e nulla in tutto questo riusciva a portarmi sollievo. Volevo solo dormire, non chiedevo altro. Eppure, ogni notte andavo a letto per addormentarmi solo pochi minuti prima dell’alba. Lanciai un ultimo sguardo ai miei occhi color nocciola e chiusi lo specchietto, sbuffando. Trovavo ingiusto come il buio fosse riuscito a sottrarre così tanto fascino a una parte di me che avevo sempre amato sinceramente.
«Guarda chi si vede!», esclamò una voce.
Alzai lentamente il viso per incontrare quello radioso di Mike, «Come va, Bella?».
Scrollai le spalle e abbozzai un sorriso, «Stanca, direi».
«Mi dispiace», borbottò sedendosi vicino a me.
«Già».
«Eppure ero convinto di averti visto sorridere, qualche secondo fa», borbottò goffamente, «Credevo tu fossi felice, sai».
«In realtà», dissi volgendo la testa altrove, «Stavo solo pensando a Phoenix, sai».
«Ti manca la tua vita là?».
«Mh. Non proprio».
Ci fu un momento di silenzio.
«Ti manca una persona.. In particolare?».
Osservai il suo volto piegarsi sotto il peso bruciante di una vergogna innocente e tale fu la mia sorpresa nel notare il modo agitato in cui non faceva che stropicciarsi le mani l’una con l’altra, che non potei far a meno di sorridere dolcemente. «Sì, diciamo di sì», risposi, «Pensavo a una persona in particolare».
«Ah», commentò lui, ferito e misero nella sua delusione, «Il tuo ragazzo?», ridacchiò nervoso, guardando altrove. «No», dissi io, «Ma era una persona a cui volevo bene, in effetti».
Ci pensai su per qualche secondo.
«Lui mi diceva sempre che avevo un bellissimo taglio degli occhi». Ci volle poco perché mi rendessi conto dell’intima confessione che mi ero lasciata sfuggire e in quell’istante, tutto il mio viso sembrò andare a fuoco. Mike si voltò e notando la mia espressione stupita e innervosita si lasciò scappare un sorriso, «Aveva ragione». Mi limitai a ringraziarlo e mi affrettai a cambiare argomento.
Parlammo per qualche istante, prima che il suono della campanella ci interrompesse.
Quello stesso giorno, Mike mi seguì durante quasi tutto il giorno e ben presto, a noi, si unì Eric, un ragazzino dai tratti morbidi e coi capelli di un nero brillante. A pranzo mi sedetti a mangiare con loro e altri ragazzi, Angela e Jessica comprese. Tutto sommato, la giornata trascorse senza particolari intoppi.
Durante l’ora di Biologia II, notai l’assenza di Edward.
Non mi toccò granché, se non altro non mi sarei dovuta sforzare di essere gentile con nessuno. Mike invece si sedette qualche banco più in fondo, vicino a una ragazza coi un’aria selvaggia e un’infinità di capelli in testa. Nell’aria si respirava un senso di calma e serenità. O forse ero solo io, io che mi portavo dietro il sole accecante di Phoenix e quel ragazzo, quel giorno in cui mi disse che i miei occhi erano la cosa più bella che avesse mai visto. Fu incredibile rendersi conto di quanto tempo era passato da quella volta, di come avessi, quasi senza rendermene conto, cancellato quel bellissimo sole di fine agosto e i suoi movimenti delicati, il sale del mare sulla sua pelle, quel sorriso. Quasi non me ne capacitavo. Non riuscivo più nemmeno a essere triste all’idea che quel giorno era infine svanito, come tutto di lui – ormai era solo passato, ormai non faceva più paura. Ero così immersa fra i miei pensieri che quasi sussultai quando la campanella suonò.
«Dio», sbottai fra me e me, «A questo suono non mi abituerò mai abbastanza in fretta».
La giornata trascorse e si concluse brevemente.
Quando tornai a casa controllai un paio di e-mail, risposi a mia madre per esempio, che nel giro di una settimana era già riuscita a intasarmi completamente la casella di posta. La rassicurai, ero viva, stavo bene, nessun terrorista da queste parti, Charlie è ancora vivo, i comunisti non hanno ancora preso il sopravvento, me la cavo, baci baci ci sentiamo, però stai calma che non controllo le e-mail ogni venti secondi.
«Bells?»
«Sono in camera!», gridai a Charlie, che era appena rincasato, «Scendo fra cinque minuti», mentii.
Appoggiai la testa sulla scrivania, con lo sguardo perso nel vuoto. Avevo bisogno di leggere, di guardare un film, di quelli che ti fanno credere che la vita non è solo questa miseria, ma che è tutta un’altra cosa, che c’è un modo per vincerla, per scappare lontanissimi via, in posti dove ogni cosa meravigliosa accade.
Ma la biblioteca di Forks non era granché fornita e questo mi intristiva: sulle mensole avevo solo libri per bambini, tutti scarabocchiati, strappati ai lati. Chissà se mia madre avrebbe potuto spedirmi la scatola di libri che mi ero lasciata a casa. Sospirai. Non era male stare con Charlie, aveva infatti moltissimi lati positivi – per esempio era perennemente fuori casa, a causa del suo lavoro di sceriffo. Era come vivere da sola e la nostra convivenza si basava quasi esclusivamente sul dividere cena e colazione. A volte guardavamo la tivù insieme, ma nulla di eccezionale. Spesso mi parlava del suo amico Billy, del suo incidente, di suo figlio. Ma io non prestavo mai troppa attenzione, mi limitavo a ascoltare e guardarlo mangiare. Pensai che c’erano molte cose che non sapevo di mio padre, eppure condividevamo un legame unico e indistruttibile. Io non lo conoscevo e vivevo con questo uomo che a volte mi sorrideva, che mi augurava la buona notte, che mi salutava prima di uscire di casa, ma ignoravo quale fosse stata la sua vita prima di me, il mondo prima che i nostri occhi si incrociassero – in me non esistevano i suoi dolori, il ricordo dei tempi in cui rideva molto spesso, di quando il suo viso non era stato ancora offeso dalla minaccia del tempo. Esistevano in me questi dubbi e in qualche modo, la mia completa, totale indifferenza a essi, mi feriva profondamente. E mi faceva vergognare della persona che ero.
«Si mangia!», gridò lui, dal pian terreno, con tutta l’aria che aveva nei polmoni.
«Arrivo», risposi con poco entusiasmo, sollevando il mio corpo pesante con stanchezza.
Scesi le scale, arrivai in cucina.
«A Phoenix cinque minuti durano un’eternità o sbaglio?», rise lui, sotto i baffi.
Storsi la bocca ma lo lasciai fare, sembrava di ottimo umore. E mi limitai a sorridere.
«Allora», disse sedendosi a tavola, «Ti sei fatta qualche amico?».
«Alcuni, sì», risposi, iniziando a mangiare, «Ho fatto amicizia con un paio di ragazze e qualche altro ragazzo».
«Ti trattano bene?».
«Sì, abbastanza», risi io, «Sono tutti gentili. Mike mi accompagna sempre a lezione e mi dice dove sono le classi in cui devo andare, così non mi perdo».
«Mike Newton?», chiese lui.
«Sì, credo.. Non lo so, penso sia lui. Non mi ricordo troppo bene i cognomi di nessuno», ammisi, con un filo di imbarazzo. «È un bravo ragazzo, suo padre lavora giù al negozio di articoli sportivi», commentò.
Non che fossi molto interessata, in realtà, «Capisco».
«C’è qualcuno che ti da fastidio?», domandò lui – quando alzai gli occhi dal piatto incrociai quel viso burbero cercare di celare una punta di preoccupazione.
«Ma no, te l’ho detto», lo rassicurai io, sorridendogli, «La gente di qui è forte. I ragazzi a scuola hanno anche smesso di guardarmi come un fenomeno da baraccone, lo ritengo un gran successo», risi.
«Anche se», continuai io, «Di gente maleducata ce n’è anche qui».
Charlie mi guardò senza capire.
«Papà, tranquillo. Non è nulla di grave», lo consolai, sfoggiando il tono di voce più accogliente e dolce di cui disponessi. «Di che si tratta?», insisté, «Bells, lo sai.. Noi non abbiamo un gran rapporto ma,.. Quello che voglio dire, lo sai, a me puoi parlare insomma», bofonchiò impacciato.
Che tenerezza.
«Ero al corso di Biologia e accanto a me era seduto un ragazzo di nome Edward», bevvi un sorso d’acqua, «E mi sembrava imbarazzato, quindi ho pensato che se mi fossi presentata sarebbe andata meglio. Ma lui non si è nemmeno disturbato a rispondermi. Tutto qui», finii di raccontare.
«Questo è strano, sai», disse lui, con aria più serena, «I Cullen sono bravi ragazzi, tutti molto maturi, non hanno mai dato problemi, nonostante siano tutti figli adottivi. Il dottor. Cullen, poi, loro padre adottivo, è una risorsa per tutta la nostra comunità», aggiunse lui in un moto d’orgoglio. «Un chirurgo che potrebbe aver scelto qualsiasi altra città, guadagnare magari dieci volte di più e invece,.. Sì, siamo fortunati. Mi dispiace che ti abbia dato questa impressione, sono certo che si è trattato di un malinteso».
Annuii, lasciandolo continuare in quel suo delirante sproloquio sui Cullen.
Ma quale malinteso, pensai io, mi ha sentita che lo salutavo. E si è voltato altrove. Maturo questo gran paio di.. «Bells?», Charlie interruppe i miei pensieri.
«Eh?».
«Ci sei rimasta così male?», mi chiese costernato.
«Per cosa?».
«Per via di Edward. Vuoi che parli con suo padre?».
«Dio no!», esclamai io, «Papà, sono una donna fatta e finita, so cavarmela da sola. Non ti preoccupare. Se dovesse risuccedere lo tramortirò col libro di Biologia», risi e lui con me.
«È che mi sembravi sovrappensiero», commentò.
«Stavo solo pensando se sia il caso di chiedere a mamma di spedirmi i miei libri. Mi manca non poter leggere spesso».
La conversazione, così come la cena, non fu tirata molto per le lunghe – prima che potessi rendermene conto ero di nuovo infilata sotto le coperte della mia stanza, le luci erano spente e il cielo era infuriato. Mi preparai a un’altra notte insonne.

Il mattino dopo, stanca come al solito, mi trascinai, senza nascondere un certo malessere, a scuola.
La giornata, di nuovo, fu priva di sorprese. A parte forse il fatto che,..
«Bella! Guarda! La neve!», Angela mi correva incontro sorridente, indicando il cielo.
«Wow», ebbi appena il tempo di dire.
Non avevo mai visto la neve, non avevo idea di cosa si provasse a guardare il cielo durante momenti simili. Grossi fiocchi bianchi mi si appoggiavano addosso, si scioglievano sulla mia pelle calda. Angela scuoteva i suoi capelli, che il freddo dell’inverno aveva striato d’argento. Tutti erano felici e tutti giocavano come bambini. Scoppiai quasi a ridere dalla sorpresa quando vidi Mike venir colpito da una palla di neve. Eric, dall’altra parte, lo prendeva in giro. Rimasi un po’ così, sospesa, a guardare gli altri come se non esistessi davvero, come se il mio stesso corpo non fosse lì, ma altrove. Ogni cosa era bianca e pallida, come la mia carne. I vestiti, le auto, le strade, tutte uguali. Sembrava tutto così innocente. Un sentimento di assoluta adorazione mi pervase: non me ne sarei mai voluta andare da quel posto – c’era troppo amore perché potessi smettere di guardare.
Quando la campanella suonò, mi diressi a malincuore in classe, insieme a tutti gli altri. Spesi quasi tutto il mio tempo a contemplare il mondo aldilà delle finestre della scuola. Così immobile, paralizzato, mi ricordava la Dublino di Joyce, i volti emaciati dei suoi personaggi, le loro inesistenti decisioni e i loro devastanti cambiamenti. Il cielo continuava a cadere, un fiocco alla volta e ben presto, le lezioni finirono.
Ci avviammo in massa in mena, io Mike, Jessica, Eric e Angela. Continuavo a fissare le mani rossissime di tutti e i loro capelli spettinati, con un sorriso adorante.
«Non nevicava da te, Bella?», chiese Eric, avvicinandosi.
«No», ammisi.
«Scherzi?», saltò su Jessica, «Non avevi mai visto la neve?».
«Mai», le rivolsi un sorriso tirato, «In realtà non è che ne avessi mai avuto desiderio. Non sapevo di cosa si trattasse e non mi interessava molto», commentai.
La conversazione si mantenne su questa linea fin quando non fummo fisicamente dentro la mensa.
Mentre stavamo riempiendo i nostri vassoi di cibo scadente e bicchierini di plastica, Jessica mi tirò una gomitata, «Guarda lì», disse, «Sembrano usciti da una pubblicità».
Mi voltai, seguendo la riga tracciata dal profilo sottile del suo indice puntato a mezz’aria: vidi tutti e cinque i fratelli Cullen spintonarsi e ridere fa loro. Pensai che era vero, sembravano quasi finti: non avevano nemmeno le gote rosse, come Eric o Angela. Era come se non subissero mai nessun tipo di effetto, nessun tipo di momento. Quasi come se il tempo li attraversasse, dimenticandosi di loro. Le due sorelle, una bionda e l’altra mora, badavano a stare ben distanti da loro, per non intercettare la traiettoria di nessuno schizzo di acqua gelida.
«Ti pare possibile che esista gente così?», sbuffò amaramente, «La mia autostima ne risente. E molto!».
«È anche tornato Edward!», Angela si infilò nella discussione, «Era un po’ che non veniva a scuola», disse.
«Come se mi interessasse», biascicò Jessica, mentre ci dirigevamo al tavolo.
Era affascinante notare come tutti fossero così assolutamente attaccati alle vite di quei ragazzi, nutriti da una curiosità morbosa per ogni loro gesto, parola. Non lo capivo. «Oh mio Dio!», gridò Angela sottovoce, «Edward Cullen ti sta guardando, Bella!».
Mi voltai per controllare e in effetti era così: mi guardava, con un sorriso nemmeno troppo celato, i capelli di uno strano color bronzo scompigliati un po’ coperti di neve. Tirai un sospiro, voltandomi.
«Ok», feci io, iniziando a mangiare.
Calò un pesantissimo silenzio, ma durò poco. Purtroppo.
«È solo ok?», parlò sbigottita Jessica.
«Già», dissi io, sperando disperatamente che il mio disprezzo non destasse sospetti – in realtà Edward sembrava anche un bravo ragazzo, sveglio, magari simpatico ma ancora potevo percepire il pungolo che mi si rivoltava in cuore al pensiero della prima volta che l’avevo visto. Non sembravo piacergli granché, senza alcun motivo in particolare e questo mi infastidiva terribilmente, mi incattiviva.
«Da quando sono in questa scuola sono abituata a essere fissata, ormai non mi da più neanche fastidio», commentai stizzita. «Wow», sospirò Angela fra sé e sé.
«Ma lui non è tutta la scuola è,.. Voglio dire, è uno schianto!», continuò Jessica, fissandolo insistentemente.
Mi passai una mano fra i capelli, «Non mi interessa Jessica, smetterà di fissarmi alla fine. Lo so».
Feci una pausa, «Dovrà sbattere le palpebre prima o poi», scoppiai a ridere, ma nessuno colse il mio sagace umorismo. Peggio per loro.

Quando entrai nell’aula di Biologia II, il mio banco era vuoto e Edward non c’era. Ne approfittai per sedermi immediatamente vicino alla finestra. Avrei ancora potuto guardare la neve cadere lenta, bucherellare il cielo e trasformarlo in una trina d’argento. Cinque minuti prima che la lezione cominciasse disposi i miei libri sul tavolo e iniziai a scarabocchiare su un foglio pulito.
«Ciao», una voce mi arrivò vicina, calda e accogliente.
Mi voltai – di fronte a me Edward Cullen.
Non risposi, mi limitai a un cenno. «Mi chiamo Edward Cullen», continuò.
«La risposta a una domanda che non ti ho fatto», sbottai io, ancora scocciata per l’ultima volta.
Lo vidi interdetto, ma lo stesso sembrava non aver perso la sua voglia di chiacchierare.
«Sei sempre così cordiale o sono solo fortunato?», mi chiese con aria di sfida, ma sempre con quel sorrisetto sghembo. «Sei fortunato», risposi seccata.
«Che bella sensazione», fece lui sfregandosi il collo, «La settimana scorsa non ho avuto occasione di presentarmi come si deve».
«Me ne ero accorta».
Lui rise, «Scusami». Mi voltai verso un sorriso radioso e smagliante.
«Quella era proprio una giornata no. Ma sei stata molto gentile a presentarti».
«Ci puoi giurare», ribattei, guardandolo dritto negli occhi.
«E tu sei?», chiese lui, con un cenno garbato.
«Bella», risposi io.
In quel momento il signor Banner iniziò a spiegare l’esperimento del giorno. I vetrini poggiati sul nostro banco erano da analizzare, il professore passò a consegnarci dei fogli: si trattava di un esercizio da fare in coppia. Quando ebbi la consegna fra le mani e potei leggere meglio, fui toccata da una punta di delusione. Avevo già fatto quell’esercizio a Phoenix, non c’era nulla di nuovo e questo mi annoiava.
Mi strinsi nelle spalle, senza dare a vedere il mio fastidio.
Edward mi domandò se avessi desiderato fare gli onori di casa: risposi senza pensarci che avevo già fatto quell’esercizio. «Qui usano le radici di cipolla, a Phoenix ci dettero embrioni di coregone. Posso anche evitare di fare le stesse cose. Il primo vetrino è profase».
«Permetti che controlli?», chiese lui, con un’aria innocente.
«Come vuoi», dissi io, volgendo di nuovo lo sguardo aldilà del vetro.
Non mi dispiaceva questa scuola, in realtà, e alcuni insegnanti erano perfino bravi insegnanti, ma io ero molto più avanti col programma rispetto ai miei compagni e questo mi annoiava. Non potevo concentrarmi su cose già dette, già fatte, già scoperte – avevo necessità del nuovo, delle prime volte. Con quelle spiegazioni, quegli identici discorsi io mi perdevo. Era inevitabile per me scollarmi dal reale e cadere nel bosco gonfio dei miei pensieri intricati.
«Profase», affermò Edward, «Vogliamo proseguire?».
«Il prossimo è anafase», feci io voltandomi leggermente e spostando il microscopio verso di lui, «Nel caso in cui non ti fidassi», sottolineai.
A lui scappò una risata, «A questo punto suggeriscimi tutte le domande, no?», inarcò il sopracciglio sinistro.
«E risparmiarti tutto il lavoro? Fossi matta», sorrisi con aria di sfida, «Prego», dissi, spingendo il microscopio ancora più vicino al suo braccio, «Divertiti».
Nonostante mi fossi rifiutata di aiutarlo, sbrigò il lavoro in pochi momenti. Dopodiché ci restava tutto il tempo necessario per un’amabile chiacchieratina. Evviva.
«Allora», fece lui, avvicinandosi a me, «Sei quella nuova, ho saputo».
Annuii, senza particolare entusiasmo.
«E vieni da Phoenix».
Continuavo a non rispondere, così aggiunse, «È una posto diverso da Forks».
Mi voltai, con un’aria estasiata e un’espressione di totale sbigottimento, «Già! Posti diversi! Wow! Hai delle qualità serie, la CIA ti ha già contattato?».
Lui rise, di nuovo, «Va bene, ho capito, non ti sto simpatico. Ma dammi la possibilità di recuperare terreno». «Per ora stai camminando in aria», risposi io, tentando di soffocare una risata.
Mi domandò se mi piacesse la neve, dissi che me ne ero innamorata – «No, sono seria, smettila di ridere. Io non avevo mai visto la neve. Se ci pensi non è la cosa più assurda di sempre? È come non aver mai visto il mare».
«È per questo che ti trasferita qui?», mi domandò.
«Non direi proprio».
«E allora perché?», insisté.
«Non so. A volte cambiare fa bene», tagliai corto io.
Per un attimo cadde ogni discorso e io mi misi a sfogliare il libro di biologia.
«Ti do fastidio?», domandò poi.
«Così e così», ammisi, «Potresti migliorare».
‘Potrei migliorare’, ripeté lui fra sé e sé.
Mi rimisi a guardare fuori dalla finestra. Sotto quei debolissimi raggi di luce invernale, la neve scintillava preziosa. Sembrava che l’intero parcheggio e gli alberi e i capelli delle persone fossero stati ricoperti di polvere di diamante. Avevo passato una vita senza neve. Che stupidaggine, a pensarci. Ma era così: una vita senza neve. E non avevo mai provato la voglia primordiale di chiedere a me stessa, «Cosa sarà?, Come sarà?, Posso andare a vederla?». Mai una volta, sotto quel sole bruciante della Arizona, mi ero chiesta a come sarebbe stato vedere qualcosa di simile. E ora che potevo vedere, ora che potevo toccare, quasi ero commossa dalla felicità. Mi domandai di quante cose speciali esistevano e succedevano e io nemmeno ci pensavo, nemmeno avevo voglia di andare a scoprirle. Una parte di me era ancora rimasta in Arizona, senza voglia di domandarsi alcunché. Quando suonò la campanella, con lentezza mi tirai su e me ne andai. Edward mi fece un cenno di saluto e io ricambiai.
Appena uscita dall’aula fui assalita da Mike, che iniziò a sommergermi con un fiume di parole.
«Allora», disse poi, «Hai una bacchetta magica o cosa?».
«Cosa?», chiesi senza capire.
«No, dico, Edward Cullen. Non l’avevo mai visto così allegro», quella frase tradì un filo di gelosia.
«Che posso farci», sorrisi io, senza dargli troppa importanza, «Faccio questo effetto alle persone», scoppiai a ridere mentre uscivamo nel parcheggio.

Lanciai un’occhiata all’orizzonte, l’aria brillava e io ero felice.

  
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