Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Timcampi    30/11/2013    2 recensioni
"Rico Brzenska, quindici anni d'età di cui gli ultimi otto trascorsi in una solitudine troppo nera per una bambina, contemplava il vuoto con occhi spenti, le braccia piegate in un rigido e impettito saluto militare e i piedi fastidiosamente infilati in quegli stivali troppo grandi.
Di tanto in tanto, mentre il capo istruttore inventariava il branco di ragazzini macilenti schierati come pedoni in divisa su una scacchiera polverosa, la ragazzina lasciava correre pigramente lo sguardo sui suoi compagni, i membri del settantasettesimo Corpo di Addestramento Reclute.
«QUAL È IL TUO NOME, RAGAZZO?!» brontolò il capo istruttore, puntando i piedi di fronte al suo ennesimo bersaglio: un ragazzo sull'attenti all'estrema sinistra dello schieramento, smilzo e acerbo, con un paio di spessi occhiali in bilico sulla punta del naso un po' aquilino e gli angoli della bocca sottile ricurvi nello sfontato accenno d'un sorriso eccitato. Poteva avere forse diciotto o diciannove anni.
Rico aggrottò la fronte e, senza neppure accorgersene, si ritrovò ad allungare il collo verso la sua direzione.
Il ragazzo sbattè ripetutamente le ciglia, si sistemò gli occhiali in cima al naso e sbattè nuovamente le ciglia.
E poi scoppiò a ridere."
Genere: Drammatico, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yuri | Personaggi: Hanji Zoe, Rico Brzenska, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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NIENT'ALTRO CHE PEDONI

 

 

Andava matta per la sensazione che pervadeva ogni brandello del suo corpo quando i suoi piedi non toccavano terra, quando i cavi metallici che schizzavano da un albero all'altro le saettavano tanto vicino alle orecchie da far vibrare piacevolmente i timpani. Amava il vento che le scostava dal volto le lunghe ciocche disordinate, frustando l'aria con la sua coda di cavallo e gonfiandole gli abiti.

Zoe Hanji amava volare.

Zigzagava sotto le alte fronde come un alfiere impazzito, le iridi che brillavano dietro gli occhiali saldamente ancorati alla testa e un estatico, largo sorriso che squarciava il suo volto.

Non fece neppure caso alla presenza del suo caposquadra fino a che quest'ultimo non la sorpassò, in un rapido svolazzo verde che quasi si confondeva con il verde che sfrecciava ai lati della sua corsa alata. «Alla tua destra» scandì Mike Zacharius, catapultandosi invece a sinistra, atterrando sull'enorme capo di un titano di sette metri che trottava nella loro direzione, saltando poi sopra le sue spalle. Un attimo dopo, l'essere si abbattè al suolo con una profonda ferita alla base della nuca, mentre una densa nube candida s'alzava dai suoi immensi resti.

Quel che giungeva da destra era, invece, un titano di classe cinque metri, lento e dalla faccia particolarmente poco sveglia. «Ti hanno mai detto che sei un grandissimo egoista, Mike?» si lamentò Zoe, decisamente delusa dall'entità della preda destinatale.

Erano trascorsi cinque anni dal suo ingresso nell'Armata Ricognitiva, ma era bastato molto meno perchè tutti quanti, intorno a lei, facessero caso al suo talento: un talento decisamente acquisito, non innato, dovuto più alla sua capacità di giudizio che alla sua velocità o alla sua prestanza fisica.

Sempre che di capacità di giudizio si potesse parlare, e non di fortunata spericolatezza o d'intuitiva follia. Aveva preso a chiamare per nome prima i suoi compagni, poi i capisquadra, infine anche il caporale, e nessuno sembrava covare disapprovazione verso i suoi modi estremamente confidenti.

Il comandante Richter era il solo a cui non riservasse lo stesso trattamento, e ciò, più che compiacerlo, sembrava indispettirlo. Per quanto fosse sì vero che il comandante era stupido quasi quanto un titano, era altrettanto vero che perfino la testa vuota di un titano avrebbe afferrato il valore di una donna come Zoe Hanji, nonché riconosciuto il suo affetto come una dimostrazione di stima.

Si fermò, valutando spazi e tempi, arpionata ai rami più bassi di un enorme albero sulla cui corteccia puntellava il tacco di uno stivale, lasciando dondolare l'altra gamba nel vuoto sotto di lei.

Uno.

Il titano arrancava verso di lei con le braccia e la bocca spalancate; quasi le fece pena.

Due.

Un gioco da ragazzi.

Tre.

Si diede un potente slancio facendo leva sull'albero con entrambi i piedi, allontanandosi da esso nell'istante stesso in cui l'essere fu abbastanza vicino da non poter far altro che finire con la faccia a un passo dalla corteccia. In un attimo gli fu alle spalle; bastò assestagli un calcio di pianta in cima alla schiena per spingerlo in avanti, mentre le lame incidevano la base della nuca.

Fin troppo facile e pulito per i suoi gusti.

«Ohi, quattrocchi»

Un ghigno soddisfatto comparve sul volto della donna. Ancor prima di voltarsi, sapeva già chi avrebbe trovato alle sue spalle.

Non che Rivaille fosse il solo a chiamarla in quel modo, ovviamente. La sua voce, almeno durante le missioni, era sempre un ottimo segno: lavorare con lui era maledettamente divertente.

«Ohilà, tappetto. Mi spiace per te, ma qua le pulizie le ho già fatte io» ribattè, pestando dolcemente un piede sulla spalla della sua preda fumante.

«Ordini dai piani alti» mormorò, atterrando sul suolo fangoso con un flebile tintinnio di ganci metallici. Era scuro in volto, perfino più del solito.

«Erwin?»

«Richter» scandì l'uomo, lasciandosi sfuggire quel nome tra i denti come un sorso tanto amaro da essere impossibile da mandar giù. E se Zoe ignorava del tutto i comandi che arrivavano dall'alto, camminando pericolosamente sul limite invisibile e instabile che intercorreva tra lo spirito d'iniziativa e l'insubordinazione, Rivaille covava una silente ma profonda avversione nei confronti dell'incompetenza di quell'imbecille che finiva puntualmente per non far altro che offrire il pasto a quegli ingordi mostri senza fondo e riportare a casa nient'altro che gli avanzi.

«Che vuole?»

«Te. E me. È stato lanciato un segnale d'allarme, da est, pochi minuti fa. È schizzato verso la fumata e mi ha ordinato di venire a cercarti»

«E allora andiamo a est, no? Che accidenti stiamo aspettando?» ridacchiò Zoe, lanciandosi a tutta velocità oltre il compagno, verso il limitare della foresta. Mentre i rami si facevano più radi, il bagliore del sole penetrava sempre più impietoso, filtrando attraverso di essi. Era piena estate e, sebbene mancasse ancora un paio d'ore a mezzogiorno, il sole picchiava già violentemente sopra le loro teste.

«Soltanto te e me, testa di rapa» ringhiò Rivaille, non appena le fu accanto.

«E allora? Rilassati, ne abbiamo già affrontati altri da soli, ed è stato divertente!»

«Avevamo mandato tre squadre in ricognizione a est, dovevano aprire la strada alla mia squadra e a quella di Erwin. Tre squadre, e non abbiamo visto nessuno di loro tornare indietro dopo che abbiamo adocchiato il segnale»

Un brivido corse lungo la spina dorsale della donna.

«Quanti pensi che ce ne saranno?»

«Abbastanza da far fuori tredici persone e avere ancora lo stomaco vuoto» fu il verdetto di Rivaille.

Quando si lasciarono la distesa arborea alle spalle e furono costretti a rimettere i piedi a terra, Zoe provò un forte senso d'inquietudine.

In un primo momento credette si trattasse semplicemente dell'essere di nuovo ancorata al suolo, poi Rivaille pronunciò le stesse parole che lei stava pensando ma che le erano rimaste incastrate in gola.

«Togliamoci di mezzo, quattrocchi» borbottò. «Stanno arrivando»

Ed era vero: il terreno sotto di loro vibrava a una tale intensità che non ci fu neppure bisogno di guardarsi intorno per capire da che parte l'orda titanica proveniva.

Erano almeno in sette, appartenenti a tutte le classi, e correvano all'impazzata verso di loro come punti da uno sciame di api. S'intravedeva un villaggio abbandonato, dove non sarebbe stato troppo difficile utilizzare l'attrezzatura per il movimento tridimensionale, e non c'era altra scelta che attirarli verso quella direzione.

Non appena furono in cima a quello che un tempo era stato un campanile, si resero conto di non essere i primi ad aver avuto quell'idea: i tetti intorno a loro erano costellati di scure e viscide pozze di sangue, e di quel che restava di qualche cadavere. Riuscirono a riconoscere in quelle carcasse senza vita due, forse tre dei loro compagni: tutto quel che era rimasto alla fine di un lauto, lungo banchetto; quel poco che enormi bocche maldestre avevano lasciato cadere.

Avanzi.

«Rivaille» sussurrò Zoe. Un tremito fece vibrare la sua voce. L'uomo seguì il suo sguardo fino ad appuntare il proprio su un altro cadavere, che non avevano notato prima perchè all'ombra d'un vecchio granaio. Gli mancava la metà inferiore del corpo e parte delle viscere era fuoriuscita da quella superiore, ma era la sua faccia ad aver attratto l'attenzione di Zoe: era marchiata a fuoco da un'espressione di puro terrore, chiaramente visibile se pur sotto uno strato di sangue e la folta barba.

Abel Richter.

«Via di qui, Han-» fece per mormorare, quando una mano di dimensioni colossali comparve alle loro spalle e si abbattè sul campanile, facendoli precipitare assieme a una pioggia di mattoni, polvere e detriti. Rivaille si rimise in piedi appena in tempo per vedere l'altra alzarsi nuovamente in volo in una nuvola di gas, guizzando all'indirizzo del loro aggressore. Era alto sei o sette metri e, a primo impatto, sembrava molto veloce.

«Testa di rapa» grugnì. Il sole, sempre più alto sopra le loro teste, si rifletteva contro le lame sguainate e l'attrezzatura, accecandoli di tanto in tanto.

«Tu tienilo occupato, io lo colpisco» ordinò Zoe, schivando un secondo colpo che la mancò per miracolo, abbattendosi su un tetto che si sgretolò come zucchero. Ma ci volle soltanto un attimo prima che il titano subisse la stessa sorte, crollando nel medesimo punto sovrastato dal suo minuto giustiziere.

«Nanetto malefico» brontolò Zoe.

«Testa di rapa» abbaiò Rivaille. Un istante dopo, però, il suo volto cambiò.

E la frazione di secondo in cui restò immobile, l'attimo che precedette il suo salto in avanti, fu fatale.

Una mano, una mano più grande di quella che li aveva gettati a terra un istante prima, comparve alle spalle della donna, abbandonando tutto il suo peso sopra il tetto che s'aprì in un a pioggia di tegole e trascinando con sé la sua preda.

Zoe non riuscì a mettere a fuoco gli eventi che seguirono quella brutta caduta. Tuttò ciò che i suoi sensi annebbiati riuscirono a percepire fu il bagliore delle lame e una lenta, penosa sequenza di enormi ombre.

Non ebbe paura, però. Non ne ebbe neanche quando sentì il sapore metallico del sangue allagarle la bocca e scendere fino a ostruirle la gola, e neppure quando la sua vista cominciò a farsi rossa. E oltre quella patina rossa, il suo mondo risultava più opaco e sbiadito del solito.

I suoi occhiali dovevano essere di nuovo inutilizzabili.

Capitava spesso che tornasse a casa con gli occhiali rotti, e probabilmente Rico l'avrebbe sgridata anche stavolta, le avrebbe detto di stare più attenta.

Chi l'avesse vista in quel momento avrebbe giurato che stesse sorridendo.

Rico...

Si domandò se le sue ferite fossero molto vistose: se mai avesse rischiato di rimetterci sul serio la pelle, era certa che lei non le avrebbe mai più permesso di rimettere piede fuori dalle mura.

Dopotutto, aveva fatto del suo meglio per assicurarle che la situazione non era poi così tragica, che a cadere erano soltanto le schiappe, che sarebbe sempre tornata a casa con nulla più di qualche graffio e gli occhiali rotti.

Sarebbe stato difficile, questa volta, farsi perdonare.

Riconobbe Rivaille nell'ombra che comparve sopra di lei, quando finalmente ci fu silenzio: aveva sul volto un'espressione che non gli aveva mai visto, e le stava parlando, ma lei non riusciva a sentirlo. Glielo disse, ma qualcosa subito dopo le suggerì che non l'aveva fatto davvero, che l'aveva semplicemente immaginato.

Ci riprovò.

“Riportami a casa”

Soltanto in quel momento si accorse di non sentire più niente da un pezzo, non soltanto i suoni ma anche il dolore, la fame, la sete, la nuda pietra sotto la sua schiena.

“Lei ci sa fare, con questa roba”

Ebbe un istante di panico, quando cominciò a notare che il suo mondo stava diventando buio. Il cielo, il villaggio... perfino Rivaille: tutto stava scomparendo.

“Non importa se mi sgriderà. Riportami da Rico.”

 

«Stomachevoli teste vuote» sibilò Rico, sfoderando i denti in una smorfia di puro disgusto.

Percorreva e ripercorreva lo stesso tratto del Wall Maria ormai da ore, ma non doveva mancar molto all'ora predestinata per il cambio della guardia. Non che avesse intenzione di tornare davvero a casa, non quella sera: per quanto stanca fosse, sapeva bene che non sarebbe riuscita a chiudere occhio.

Scrutava con ribrezzo i titani che brulicavano ai piedi delle mura come enormi vermi fastidiosamente flemmatici e silenziosi, tanto stupidi quanto sgradevoli alla vista.

Pensare che qualcuno dedicasse sul serio la propria vita a quegli orribili esseri la turbava: seriamente convinti di consacrare la propria esistenza al genere umano, essi si battevano, si tuffavano nella tana del predatore in cerca di risposte preziose che non arrivavano mai, e infine morivano nel più atroce dei modi, stritolati tra denti più grandi delle loro teste o semidigeriti in stomaci che potevano arrivare a contenere anche una gran quantità di loro, prima di vomitarli tutti in un bolo infetto e puzzolente. Questo era ciò che raccontavano i pochi membri dell'Armata Ricognitiva che riuscivano a sopravvivere, una volta tornati a casa; questo era quanto le orecchie di Rico erano state in grado di capire da rari stralci di conversazioni e voci di corridoio. C'erano, poi, infinite storie a proposito dei titani, ma molte di esse avevano tutta l'aria d'essere semplici leggende metropolitane.

Lei, comunque, i titani li aveva sempre e soltanto visti così, mentre si agitavano silenti ai piedi del Wall Maria come un esercito di mostruosi neonati affamati.

«Su col morale, andrà tutto bene. Abbi fiducia»

Ian Dietrich era comparso alle sue spalle già da un paio di minuti, ma soltanto allora Rico fece caso alla sua presenza. Scosse la testa, stringendosi nelle spalle.

«È di quelli là, che non mi fido» sbottò, a un passo dal vuoto, scandagliando i titani sotto le mura con occhi spenti.

«Da quant'è che non dormi?»

«Da quando sono partiti»

Cioè quattro giorni. Un tempo incredibilmente lungo, per una missione. Un tempo che sembrava non finire mai.

Specialmente per coloro che restavano a casa.

«Torneranno» decretò Ian, cercando il suo sguardo per appuntarvi il proprio; quello di Rico, però, era incollato all'orizzonte. Sembrava fin troppo sicuro di quel che diceva, ma lui cosa poteva saperne? «Vuoi davvero farti trovare ad attendere con questa faccia? Sei cadaverica, dovresti riposare. Soltanto un po'. Questo è il mio turno di guardia, se ci saranno novità mi precipiterò da te, puoi starne certa»

Ma Rico sembrava inchiodata lì, con le labbra cucite, le sue profonde occhiaie violacee e le braccia conserte al petto. Sarebbe rimasta là ad aspettare finanche a trasformarsi in una statua, ed entrambi lo sapevano.

Ma non ce ne fu bisogno.

D'un tratto, ogni traccia di stanchezza parve scomparire dai suoi occhi, che presero a vibrare d'un luminoso languore. E quando anche quelli di Ian puntarono l'orizzonte, vi trovarono una scia verde a tagliare il cielo in due.

«Sono qui» sussurrò Rico. Le ginocchia le tremavano.

«SONO QUI!» ripetè Ian, dando il via alle danze, al rituale che precedeva l'arrivo dell'Armata e che ormai conoscevano a memoria.

Rico attese fino a quando i carri, i cavalli e la polvere alle loro spalle non furono chiaramente visibili di fronte a lei, incapace di formulare qualsiasi tipo di pensiero, e poi il suo corpo si mosse ancor prima che la sua mente fosse preparata a seguirlo.

Si precipitò dabbasso più veloce che potè, mentre lacrime tiepide inondavano il pallore del suo viso, senza curarsi di coloro che urtava durante il percorso, dei muri contro i quali finiva per sbattere quando i suoi piedi inciampavano su se stessi. Quando fu presso la porta, trovò un mare di persone e un sommesso ronzio di mezze voci a dividerla dalla lenta carovana in entrata.

«Il comandante è morto»

«C'è Erwin Smith alla testa dei soldati!»

«Sono così pochi... Sei sicuro che fosse partita tutta l'Armata?»

«C'è sangue ovunque»

«Credo che andrò a vomitare»

Per quanto cercasse di farsi largo, tutti quanti sembravano troppo attratti da quel macabro e drammatico spettacolo per lasciarla passare, e la sua stazza non era certamente d'aiuto. Riusciva a scorgere soltanto poche teste, qualche soldato tristemente chino sul dorso del suo cavallo esausto, e nient'altro.

«ZOE!» urlò, tanto forte da mandare in fiamme la gola. Nessuno rispose, nessuno si fermò, ma alcuni si voltarono a guardarla, e provarono tanta pena da lasciarsi spintonare ai lati per permetterle di passare.

Faceva correre lo sguardo sulla schiera di soldati mentre incespivaca verso la testa della carovana, spiava sotto i cappucci e sotto pietose maschere di sangue e dolore. Nessuno degli uomini la degnò d'uno sguardo, nessuno di loro sembrava in grado di prestare attenzione alla sofferenza di qualcun altro.

Poi, davanti a lei, un uomo a cavallo levò un braccio, facendole cenno d'avvicinarsi.

Non era la prima volta che s'imbatteva nella sua faccia; a dire il vero, ci si ritrovava di fronte ogni volta che Zoe tornava a casa, e non le era mai piaciuto.

Ma quando Rivaille, senza una parola, le indicò il carro soltanto pochi passi più avanti, Rico gli fu grata.

La delusione la colse quando, però, non vide su quel carro alcun segno di colei che cercava. C'era soltanto una ragazzetta minuta che non aveva mai visto prima, con gli abiti intrisi di sangue chiaramente non suo, perchè sembrava non avere neppure un graffio. Aveva forse sedici anni al massimo. Accennando un sorriso, con un gesto la invitò a salire sul carro, e Rico non se lo fece dire due volte.

Fu allora che vide.

Disteso sul fondo del carro come un mucchio di vecchi stracci, c'era tutto quel che di Zoe Hanji era riuscito a tornare a casa: la cassa toracica era schiacciata, le braccia erano gonfie e tumefatte, le ossa dovevano essere praticamente diventate polvere; il panno ripiegato sotto la sua testa era zuppo di sangue, così come i suoi capelli, e una gamba era stata fasciata tanto alla buona da farla rabbrividire. Era come se qualcosa l'avesse disintegrata al suolo.

Per contrasto, il suo volto era rilassato. Sembrava quasi che dormisse. Che sognasse.

«Il respiro si è fatto un po' più regolare, quando siamo arrivati in vista delle mura» sorrise la ragazzina. «Avrà le migliori cure, al Quartier Generale» assicurò.

«Te ne sei occupata tu?»

La voce di Rico tremava quanto le lacrime che le offuscavano la vista.

L'altra annuì energicamente.

Rico si asciugò gli occhi. Incurante di tutto, prese posto tra la ragazza e Zoe, sfiorando il fianco di quest'ultima con il proprio e posando un lieve bacio sulla sua tempia.

«Come ti chiami?» domandò.

«Petra Ral»

«Allora grazie, Petra Ral» mormorò con un fil di voce, e poi, finalmente, si addormentò.

Era tornata a casa.

Andava tutto bene.









 

*PLIN PLON*
...Sono una scrittrice molto masochista, a questo punto direi che è abbastanza evidente. Non vogliatemi male, se vi aspettavate tanto fluff e tanto miele, io stessa sono impaziente ma, come si suol dire, "per aspera ad astra".
Sono molto felice di tutto l'affetto che questa storia sta ricevendo, delle vostre recensioni, del vostro amore per questo pairing che, inutile dirlo, sta spadroneggiando sul mio cuore. Mi auguro resterete in tanti a seguirla, e che continuiate a infondermi tutta la forza di cui ho bisogno per completarla. Mi rendete davvero fiera del mio lavoro e del mio impegno, perciò vi ringrazio, vi ringrazio infinitamente. Non ho parole per esprimermi oltre, per dirvi cosa penso di loro e cosa penso di questo manga, credo che la mia creatura parli da sè. 
Ancora una volta, nel caso doveste notare errori di battitura, fatemelo sapere, ve ne sarò grata.
Detto ciò, vi lascio con un pacchetto di fazzoletti per ciasciuna e con la viva speranza di rivedervi al prossimo capitolo. A presto! çwç 

   
 
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