Satsuki non era mai stata
così ipocrita da ritenere la Teikou la squadra perfetta, specialmente quando le
cose avevano cominciato ad andare male davvero. Non avrebbe mai detto, parlando
di quel periodo con un esterno, che i membri della Generazione dei Miracoli
erano stati amici, o sempre sinceri gli uni con gli altri, perché lei più di
tutti li aveva osservati e sapeva bene che il rapporto delle medie era fatto di
tante cose – competitività, voglia di emergere, solitudine, talento, rabbia,
voglia di migliorarsi, noia, vittorie, delusioni, sentirsi persi – ma che tra
queste non c’era mai stata la sincerità totale e assoluta.
Forse non sarebbe mai venuto il giorno in cui gli appartenenti a quel gruppo
sarebbero riusciti a rapportarsi ammettendo tutte le colpe e le ragioni,
riuscendo ad aprirsi agli altri completamente; perché dopotutto, anche se
crescevano e miglioravano umanamente,
ora, c’erano cose troppo difficili da ricostruire. Potevano solo incollare
goffamente i cocci e cercare di far stare tutto in piedi come meglio potevano.
E dopotutto non c’era motivo perché non andasse bene anche così: c’erano molti
modi di starsi vicini l’un l’altro, Satsuki questo lo aveva imparato nel suo
rapporto con Daiki.
Nonostante quelle difficoltà evidenti che c’erano tra loro, però, non aveva mai
avuto dubbi sul fatto che sarebbero stati sempre un gruppo chiuso,
incomprensibile per la maggior parte delle persone che li osservavano da fuori;
e che, proprio per questo, avrebbero avuto un’importanza tutta loro gli uni per
gli altri, per quanto diverse fossero le strade che avrebbero intrapreso un
giorno. Le piaceva pensare che certi ostacoli che si erano presentati quando
erano – non che ora fossero molto diversi – nient’altro che ragazzini sarebbero
serviti a qualcosa, a creare un legame speciale nonostante tutto.
E
voleva credere di avere ragione nel pensarlo e nello sperare una cosa del
genere, quando li vedeva incontrarsi e rapportarsi in un certo senso come se il
tempo non fosse mai passato.
Per questo la metropolitana era sembrata così lenta da far risultare il viaggio
estenuante, mentre la preoccupazione andava accumulandosi e la paura
irrazionale si faceva pungente, come un ago.
Per questo correre all’ospedale ancor prima di accertarsi della gravità della
situazione era sembrato così naturale e scontato.
Per questo Daiki le teneva una mano sulla spalla, stringendola appena, come
quando da bambini le teneva la mano.
Arrivare all’ospedale e trovare già il primo
impedimento alla reception, dove nessuno sembrava in grado di indirizzarli
verso il reparto giusto, era stato snervante; Satsuki aveva temuto che Daiki
aggredisse la poverina che sembrava non capire chi stessero cercando di preciso
– sostenendo che nessuno con quel nome era stato ricoverato lì da loro nelle
ultime ventiquattro ore – quando un: «Momoicchi,
Aominecchi!» li aveva fatti voltare tra lo stupito e il preoccupato.
Vedere il ragazzo apparentemente sano e salvo fece sciogliere il nodo alla gola
che Satsuki aveva sentito formarsi da quando la chiamata era stata interrotta
bruscamente, e peggiorare quando aveva provato a richiamare trovando il
cellulare del modello spento, o comunque non raggiungibile, avvalorando la tesi
di un possibile incidente. Senza pensarci troppo gli si fece incontro, l’espressione
preoccupata e Aomine al seguito: «Ki-chan! La chiamata si è interrotta dopo che
ho sentito la tua manager nominare l’ospedale, abbiamo provato a richiamare ma
non rispondevi, abbiamo pensato… che avessi avuto un malore o ci fosse stato un
incidente, o—» parlò a briglia sciolta, l’ansia a farla da padrona, lasciando
Kise leggermente intontito inizialmente. Lo vide alternare lo sguardo da lei ad
Aomine, per poi passare dalla sorpresa alla presa di coscienza, portando una
mano alla tasca ed estraendone il telefono.
«Si è scaricata la batteria, mi dispiace.» pronunciò, sincero, non credendo di
poter causare un simile malinteso evidentemente. Ma l’espressione, notò
Satsuki, non era completamente rilassata; d’altronde, se non era in ospedale
perché stava male… doveva aver accompagnato qualcuno.
«Razza di—»
«Daichan!» lo interruppe subito la ragazza con un’occhiata ammonitrice,
tornando quindi su Ryouta «Ki-chan, qualcuno che conosci…?» lasciò cadere la
domanda, visto che la conclusione era perfettamente intuibile.
Persino Aomine si stupì dell’espressione che vide assumere all’ex compagno di
squadra. Fin dalle medie, vuoi per istinto o vuoi perché lui non era una delle
sue fan urlanti, non si era mai bevuto la storia di tutti quei sorrisi che
faceva nemmeno fossero merce in saldo in un negozio. Sì, magari Ryouta
sorrideva e sapeva entusiasmarsi, ma non era il gentiluomo o il principe senza
macchia e senza paura che le ragazzine avevano sempre visto in lui, forse per
il suo bell’aspetto o forse perché recitava
bene la sua parte. Per quanto lo riguardava, Daiki era convinto che ci
fosse stata una sola cosa per la quale Kise fosse davvero in grado di
appassionarsi sinceramente: le sfide. Neanche il basket, che sicuramente gli
piaceva e ora poteva anche essere importante, ma le sfide. Se il basket
diventava scontato, Kise si annoiava.
Quando Haizaki gli aveva soffiato la ragazza alle medie, lo stupore di Kise –
stupore, non dispiacere – a lui era
sembrato quello di chi si trova spiazzato da un’opzione che non aveva
considerato, non di chi si sente davvero tradito, e la spiegazione che allora
non aveva compreso subito era invece elementare: Kise poteva piacere a
qualsiasi ragazza, così tanto che avere relazioni con loro – per quanto pudiche
e superficiali – era per lui una realtà così scontata da essere noiosa.
E come tutte le cose che lo annoiavano, impiegava pochissimo ad abbandonarle.
Perciò, quando alla domanda di Satsuki vide Ryouta assumere un’aria arrabbiata
e preoccupata insieme, fu come trovarsi davanti uno sconosciuto; o il riflesso
distorto di qualcuno che conosceva.
«Un mio collega è stato aggredito.» mormorò in risposta; Aomine inarcò un
sopracciglio, mentre Satsuki portava una mano a sfiorare il braccio dell’amico,
comprensiva e conciliante: «Il ragazzo con cui sei andato via l’altro giorno?»
domandò, riferendosi chiaramente ad Akira. Ma prima che Ryouta potesse
risponderle, proprio il ragazzo appena chiamato in causa li raggiunse, rendendo
quindi palese che non fosse lui quello per cui si erano spostati lì in
ospedale.
Satsuki notò che aveva l’aria stanca e spossata, quasi trasognata, come se non
sapesse bene nemmeno lui cosa dovesse fare di preciso, quasi si fosse mosso per
raggiungere Kise senza pensarci troppo, istintivamente. Il modello, da parte
sua, gli rivolse subito la propria attenzione: «Come sta Jun?» chiese subito,
senza giri di parole, vedendo Akira alzare lo sguardo su di lui e abbassarlo
quasi subito, aggrottando le sopracciglia e stringendo i pugni lungo i propri
fianchi. Era evidente che fosse frustrato.
«Non lo so.» rispose secco «Dovrebbero aver finito con le lastre, ma non l’ho
visto ancora. Quei figli di puttana…» sibilò, e benché la cosa potesse essere
interpretata come lo sfogo di una persona preoccupata contro i medici, sempre
troppo criptici per chi aspettava fuori nella sala d’attesa, Ryouta era
abbastanza sicuro che l’altro si riferisse agli aggressori di Jun.
Era sembrato incredibile anche a lui quando aveva visto Akira arrivare dal
nulla lì dov’erano sia lui che l’altro modello per lavorare; ma la cosa
peggiore era stato vedere la sua espressione, che lo aveva portato subito a
prendere in considerazione il peggio, senza sapere bene nemmeno lui perché.
«Adesso aspettiamo di vedere come sta Jun, d’accordo?» cercò di essere quanto
più rassicurante gli riuscì, portando una mano a
posarsi sulla spalla dell’altro; Akira parve notare solo in quel momento Aomine
e Momoi, riconoscendo quest’ultima e portando quindi lo sguardo interrogativo
su Kise.
«Loro…?» lasciò cadere, vedendo Satsuki farsi avanti e fare un leggero inchino:
«Ci dispiace per l’intrusione, pensavamo fosse stato Ki-chan a ferirsi e siamo
venuti di corsa.» spiegò, facendo sorridere Kise. Doveva averli fatti
preoccupare parecchio, se persino Aomine aveva seguito la ragazza fin lì.
Si rese conto che non era un pensiero gentile quello rivolto all’ex compagno;
come se, implicitamente, lo avesse accusato di essere così egoista da non
preoccuparsi nemmeno sapendo che qualcuno che conosceva e con cui aveva giocato
per tre anni poteva essersi fatto male abbastanza gravemente da finire in
ospedale.
«Se vuoi» si rivolse ad Akira «li accompagno fino all’uscita e torno di là.»
propose, e stava praticamente già per avviarsi quando lo stesso Aomine lo
interruppe: «Ohi, aspetta.» rimbrottò come se si fosse aspettato tutto tranne
che di essere liquidato così. Ryouta sospirò, scambiandosi un’occhiata con
Satsuki: «Aominecchi.» lo richiamò non tanto per rimprovero, quanto in
un’implicita richiesta.
Dopotutto, dubitava gli interessasse particolarmente delle sorti di Jun, dal
momento che nemmeno lo conosceva.
«Ah. Quindi sarebbe lui
Aomine.» mormorò piano Akira all’indirizzo del modello, mentre camminavano
seguiti da Daiki e Momoi; i due avevano deciso di trattenersi – forse più per
gentilezza di Satsuki che non di Aomine – e Akira aveva ben altre
preoccupazioni che non fossero quanta gente si accalcava in corridoio o perché,
né la crisi esistenziale che poteva venire a Kise nell’avere quel tizio lì
presente.
Ryouta annuì lentamente e Akira sospirò; evitò di fare commenti e si ripromise
mentalmente che avrebbe dato il meglio di sé in un altro momento: ora come ora
aveva i nervi così tesi per Jun che avrebbe potuto dire le cose peggiori come
le più insensate al solo scopo di sfogarsi. A dirla tutta non si era nemmeno
aspettato che Kise si unisse a loro: quando Jun era stato aggredito c’erano
solamente la sua manager e Akira con lui e, anzi, lei era giunta in un secondo
momento – per fortuna, forse.
Sapeva perfettamente dell’orientamento di Jun e della sua relazione con Akira,
così come era a conoscenza del motivo dell’aggressione: omofobia.
«Forse è meglio se gli dico che puoi andare solo tu.» borbottò a bassa voce
Ryouta, osservandolo con la coda dell’occhio, forse per non insospettire troppo
i due che li seguivano a poca distanza: «Voglio dire, non c’entrano nulla con
questa cosa di Jun, sono praticamente estranei.» fece notare. Akira non avrebbe
saputo dire al momento se Kise stesse dicendo quelle cose solo ed unicamente
per delicatezza nei suoi confronti, o se – in parte – fosse anche perché temeva
i due scoprissero cosa aveva portato all’aggressione di Jun.
Scrollò le spalle: «Come ti pare.» rispose soltanto, più bruscamente di quanto
avrebbe voluto in realtà, tanto che vide il più giovane tornare con lo sguardo
di fronte a sé senza aggiungere altro, né voltarsi verso i due amici. Rimase
indietro rispetto ad Akira, però, quando furono in prossimità della stanza al
cui interno veniva ancora visitato Jun. Fuori da essa la manager di Kise e quella
dell’altro modello parlottavano l’una vicina all’altra; di fronte a loro,
stavano un paio di agenti di polizia.
«Che diamine…?» sentì pronunciare ad Aomine e sospirò. Era esattamente ciò che
avrebbe voluto evitare di dovergli spiegare, specie perché non erano coinvolti.
Si voltò comunque verso lui e Momoi, leggendo la preoccupazione nello sguardo
di lei: «Ki-chan, che è successo? C’è addirittura la polizia?» domandò,
lasciando vagare brevemente lo sguardo verso i due agenti e tornando poi
sull’amico.
«Beh, è stata un’aggressione e… è un modello, insomma, credo che l’agenzia stia
anche cercando di non dare la notizia alle riviste o ai giornali.» azzardò;
anche perché sarebbe stato un bel problema per Jun, se certi particolari
fossero trapelati. A volte, quando parlavano, lui aveva ammesso di non aver mai
avuto molti problemi a vivere la propria relazione: ma il Giappone, come molti
altri Paesi, non era minimamente aperto verso le coppie omosessuali. Quindi,
gli aveva detto Jun, era relativamente facile vivere la propria vita nei
quartieri gay, ma non lo era altrettanto fuori: era come avere un mondo solo
per te, pronto ad accoglierti e che a modo suo ti proteggeva – ma ti
imprigionava anche, perché quando uscivi da lì non c’era comprensione, non c’erano
tante cose di cui avresti avuto bisogno.
Jun non era così ingenuo, capiva che ad un certo punto era stato necessario
dividere le persone in due categorie, per quanto farlo non gli fosse mai
piaciuto: chi poteva capire e chi non poteva farlo.
«Ma hanno cercato di rubargli qualcosa?» azzardò Momoi, con quanta più
delicatezza poté, ritrovandosi con Aomine a fare da eco: «Non sarà stata
qualcuna delle vostre fan fuori di testa?» aggiunse, facendo incurvare le
labbra di Kise in un sorriso leggero.
«Aominecchi, le fan non ti vogliono picchiare, di solito.» al massimo volevano
fare altro, ma questo evitò di dirlo. Anche perché proprio in quel momento si
stava avvicinando uno dei due agenti, che si rivolse ad Akira con niente più di
uno sguardo veloce agli altri tre ragazzi: «Gli aggressori hanno detto nulla?
Qualcosa che potesse far capire come mai ce l’avessero con Yamashita-san?»
chiese, pratico. Akira scosse la testa, ingoiando un insulto verso quei tizi di
cui – nel momento della colluttazione – aveva sì e no visto vagamente i
vestiti, concentrato più che altro su Jun, a terra.
Gli venivano i brividi, se ci pensava, e per alcuni istanti che gli erano
sembrati un tempo orribilmente lungo non era stato nemmeno capace di muoversi;
quando l’aveva fatto i due aggressori se l’erano data a gambe – se per il
panico di essere stati colti sul fatto o perché avevano creduto che Akira
avesse chiamato aiuto non lo sapeva – e lui non aveva avuto altro in mente che
Jun.
«Stavano discutendo, o erano persone con cui il tuo… amico aveva avuto dei
problemi in passato?» insisté quello, guadagnandosi un’occhiataccia dal
ragazzo; la manager si avvicinò, posandogli una mano sulla spalla e
rivolgendogli uno sguardo quasi incalzante, per poi annuire in un muto
permesso.
Sembrò come se avesse aperto una porta, lasciando finalmente libero chi era
chiuso dall’altra parte.
«L’unico problema che avevano è essere dei grandissimi figli di puttana.»
ribatté brusco, arrabbiato e… spaventato, pensò Ryouta. Anche se sicuramente
Akira credeva di far passare il leggero tremolio nella voce più come ira, che
non come paura, sentendosi probabilmente in dovere di rimanere calmo e tutto
d’un pezzo; anche se nessuno se lo aspettava da lui. «E io e Jun» riprese «non
stavamo facendo nulla di male. Ci stavamo solo salutando.» pronunciò, guardando
quasi con fare accusatorio l’agente «Lei non la saluta sua moglie o la sua
fidanzata, quando va al lavoro?» insinuò.
Ryouta pensò che nonostante tutto, considerando che – secondo quanto gli
avevano raccontato – era stato Jun il primo a “fare pace” con il proprio
orientamento sessuale, fosse incredibile che Akira fosse lì, con la paura e la
preoccupazione per il proprio ragazzo aggredito, a dire davanti a diversi
estranei e a testa alta che non aveva fatto nulla che giustificasse un’aggressione.
Certo, Kise lo pensava; Jun era un ragazzo gentile e premuroso, che non avrebbe
mai provocato nessuno e sì, forse Akira aveva un carattere un poco più
turbolento ma non avrebbe mai messo in pericolo Jun né agito in un determinato
modo senza un motivo più che valido.
Eppure, lo lesse fin troppo facilmente negli occhi dell’agente, nonostante
nessuno stesse dicendo nulla era chiaro che l’uomo considerasse non legittimo,
ma quasi inevitabile quanto era accaduto.
«Ki-chan, noi andiamo.»
pronunciò Satsuki, un sorriso leggero sulle labbra. Akira si era allontanato –
gli agenti andati via poco prima, dopo un breve scambio con la manager di Jun –
e lei, Daiki e Ryouta si erano spostati un poco più in là per una questione di
privacy più che altro. A dirla tutta, Kise si sentiva già abbastanza in colpa
ad aver quasi “costretto” Akira a parlare dell’aggressione di fronte agli altri
due, che a conti fatti il ragazzo non conosceva se non di vista o per sentito
nominare dal modello stesso.
«D’accordo.» replicò incurvando le labbra a sua volta, a metà tra una tacita
scusa per averla fatta preoccupare al telefono e un ringraziamento; se perché
se ne stesse andando portando via con sé Aomine o se per essersi precipitata lì
non avrebbe saputo dirlo con certezza nemmeno lui.
«Dovresti andartene.» interruppe bruscamente Aomine, sorprendendo entrambi. Da
quando si erano uniti ad Akira non aveva quasi aperto bocca ed ora,
all’improvviso, si faceva avanti. Anche se a Ryouta sembrava seccato, più che
preoccupato – non che avesse difficoltà ad immaginare perché.
«No, voglio aspettare di sapere come sta Jun.» ammise, vedendo Aomine inarcare
un sopracciglio e Momoi spostare lo sguardo tra loro due; non capiva cosa
lasciasse tanto perplesso l’ex compagno di squadra: forse l’assenza di un
nomignolo, cosa che utilizzava per abitudine con tutti quelli che in qualche
modo rispettava o ai quali era legato? In effetti, si era sorpreso lui stesso
di non trovare istintivo applicare quella sorta di regola personale anche al
collega; poi, si era detto, forse era per il semplice fatto di aver affrontato
con lui discorsi piuttosto intimi.
«Stanne fuori, Kise.» ribatté, Momoi che fece per posargli una mano sul
braccio, quasi a contenerlo ancora prima che scoppiasse «Dai-chan, torniamo—»
«Jun è un mio amico oltre che un mio collega.» la interruppe Ryouta,
l’espressione un misto di confusione per l’atteggiamento dell’altro e la
serietà che era strano vedergli in viso «Non conosci la situazione…»
«Ah no?» lo schernì l’altro, una smorfia sarcastica che prendeva forma, non
preannunciando nulla di buono. Kise inarcò istintivamente un sopracciglio, ma
non ebbe tempo di formulare domande, non prima che Aomine continuasse.
«Fai come ti pare, allora. Ma non voglio saperne nulla quando Satsuki mi
chiamerà per dirmi che ti sei fatto pestare come quelli lì.» sputò fuori a
mezza bocca, infilando le mani nelle tasche con l’intento di andarsene.
Kise non avrebbe mai voluto che Jun e Aomine, o Akira e Aomine si conoscessero
e il motivo era stato sempre chiaro, lo stesso per cui aveva evitato l’altro
ultimamente, che si trattasse di uscite di gruppo o meno: sapeva che Aomine
sarebbe stato esattamente così. E aveva sempre creduto che evitare il discorso,
anche alla lontana, fosse la cosa migliore da fare… perché l’alternativa era
qualcosa che Ryouta non avrebbe mai saputo gestire.
«Cosa significa quelli lì?» domandò e
si stupì lui stesso di sentire la durezza del proprio tono di voce, la severità
quasi fosse un rimprovero e che a giudicare dall’occhiata ugualmente sorpresa di
Momoi, doveva essersi riflessa anche nel proprio sguardo; lui che in passato
sembrava aver sempre avuto un occhio di riguardo per Daiki a causa
dell’ammirazione provata per lui e che non lo aveva mai contraddetto, non
credendoci sul serio almeno, sembrava sul punto di fargli una ramanzina.
Una cosa che lo stesso Akashi non aveva mai fatto, lasciando libero l’ex ace della Teikou di fare il bello e il
cattivo tempo sulle presenze agli allenamenti a seconda del suo umore, purché
la prestazione in partita non ne venisse influenzata negativamente.
«Lo sai.»
«No, non lo so, Aominecchi.» ribatté punto sul vivo.
Sapeva che sarebbe andata a finire così. Ed era esattamente per questo che non
avrebbe mai voluto parlarne.
«Sta’ a sentire.» riprese Daiki, le mani nuovamente fuori dalle tasche – Ryouta
si aspettava, da un momento all’altro, che lo afferrasse per la maglia; non
sarebbe stato poi così strano – si fece avanti di un mezzo passo «Non sto
dicendo che andavano aggrediti. Dico che non hanno fatto nulla per evitarlo.
Poi fai come ti pare, sono problemi tuoi se ci finisci di mezzo.»
Aomine non era tipo da fare giri di parole. Per questo Kise sapeva, in fondo,
che il ragazzo era sincero nel dire che non credeva l’aggressione fosse stata
giusta o legittima; ma al tempo stesso era come se stesse dicendo “però anche
loro avrebbero potuto evitare di fare quello che hanno fatto”.
Come se “è normale che la gente possa avere reazioni del genere di fronte a
certe cose”.
«Hai ragione.» iniziò «Sono problemi miei.» proseguì, puntando lo sguardo in
quello del ragazzo di fronte a lui, ignorando totalmente Momoi in quel
frangente: «Sono problemi miei se penso che non sia normale aggredire due
persone che non stanno facendo nulla di male.» sputò fuori senza mezzi termini
e forse tanta certezza in ciò che diceva – quando negli ultimi mesi, su
quell’argomento, di certezze non ne aveva avute – o tanta sincerità furono ciò
che per un attimo sembrò far vacillare Daiki. Fece schioccare la lingua in un
fare stizzito: perché diamine Kise se la prendeva tanto a cuore?
Non gli era mai fregato così tanto nemmeno del basket, almeno fino agli anni
delle medie!
«Ohi, hai almeno capito che sto dicendo?» sbottò spazientito e lo vide allora,
un incurvarsi di labbra da parte dell’altro che non era il sorriso scemo di
quando gli correva dietro alle medie, non era quello tutto sommato annoiato di
quando sai di non avere rivali degni di nota, né quello idiota che aveva sempre
e non significava mai nulla.
Non sapeva cos’era, e la cosa lo irritava ancora di più.
«L’ho capito bene cosa stai dicendo.» e fu il turno di Ryouta di fare un passo
in avanti – aveva tenuto la distanza quanto più possibile per paura che lo
tradisse, e invece ora era lui che si avvicinava di propria sponte? – «Quindi
posso prenderti a pugni se ti vedo mano nella mano con una ragazza, Aominecchi?
Giusto, tu certe smancerie con le ragazze non le fai.» si corresse
automaticamente da solo ed era palese l’insinuazione nel suo tono di voce.
Satsuki quasi non riusciva a riconoscerlo: aspro, provocatorio. Kise non era
mai stato così.
«Beh, qualunque cosa tu possa fare con una ragazza. O nel tuo caso va bene?
Stai dicendo che tu puoi fare i tuoi comodi per la strada solo perché—»
«Quale persona sana di mente
attirerebbe l’attenzione per strada quando è con un altro uomo?!» sbraitò
Aomine, muovendosi in avanti. Kise immaginava già cosa sarebbe successo e non
riuscì davvero a stupirsi dello spostamento, né al pensiero che Aomine stesse
davvero per mollargli un pugno o qualcosa del genere.
Aveva sempre pensato che il rifiuto, esplicito o meno, sarebbe stato
inevitabile e al tempo stesso qualcosa che non avrebbe saputo gestire; eppure
al momento non sentiva nulla di tutto ciò che pensava avrebbe provato: non
riusciva a sorprendersi dell’opinione di Daiki, del suo modo di fare. Non
riusciva ad appellarsi alla preoccupazione di fondo che c’era per lui, perché
era troppo arrabbiato dall’ignoranza
e da qualcosa a cui non sapeva nemmeno dare un nome semplicemente perché non
aveva senso.
Era troppo basito dalla consapevolezza che ora Daiki avrebbe preso le sue parti
se fosse stato aggredito, ma che se avesse saputo che lo vedeva in quel modo automaticamente non sarebbe
più stato suo alleato, ma giudice. Di cosa, poi?
Aveva solo una gran voglia di prenderlo a pugni; e, al tempo stesso, di
lasciare che fosse l’altro a farlo – almeno la fitta di dolore sarebbe stata anche
fisica.
Invece si ritrovò ad osservare Aomine che veniva colpito e che indietreggiava.
E, dopo qualche attimo di smarrimento, si rese conto che ad essersi frapposto
fra loro era stato Akira, il pugno ancora alzato, le spalle rigide.
«Vattene.» gli sentì sibilare quando ancora non era stato in grado di muovere
un muscolo, rispetto a Momoi che esclamato un “Dai-chan” aveva affiancato
l’amico.
«Akira—» tentò, posandogli una mano sulla spalla, prima che l’altro se la
scrollasse di dosso; si rivolse a Ryouta, ma lo sguardo era fisso su Aomine: «Non
azzardarti a difenderlo o ti giuro che ti riempio di botte.» chiarì subito «Quanto
a te tornatene a casa. Non so come faccia Ryouta a tenersi da conto uno stronzo
simile, ma ti assicuro che al prossimo commento da omofobo di merda troverò il
modo di spezzarti qualche osso e non sarà
un mio problema» calcò la frase, con l’evidente intenzione di ridicolizzare
il suo discorso «se poi dovrai smettere di correre dietro ad una palla da
basket come l’idiota ignorante che sei.» sputò fuori veleno.
Non si diede nemmeno la pena di guardare Kise, né di preoccuparsi del fatto che
alcuni inservienti stessero fermando Aomine dall’iniziare una vera e propria
rissa, né – ancora – di cosa gli stesse sbraitando dietro.
Passando accanto al biondo, si limitò soltanto a pronunciare poche parole; Kise
non avrebbe saputo dire se fossero risultate udibili anche per Daiki e Momoi e
ne fu troppo colpito per preoccuparsi di cosa questo avrebbe comportato.
«Visto? Per ogni persona che ti accetta, altre dieci ti calpestano.»
Nonostante l’aggressione Jun era stato rimandato a casa dall’ospedale il giorno
seguente, tenuto sotto osservazione per sicurezza; aveva avuto però delle
vacanze forzate dal lavoro di modello, non tanto per la slogatura al polso,
quando per le abrasioni, compreso il livido e il gonfiore allo zigomo in via di
guarigione ma ancora visibili.
Akira si era occupato di recuperare gli appunti universitari per lui, cercando
di sistemare i turni del lavoro part-time per non lasciarlo solo a casa troppo
spesso; non importava quante volte Jun gli avesse assicurato di stare bene, che
era chiuso in casa e non sarebbe successo nulla – a prescindere dal fatto che
non credeva nessuno si prendesse la briga di cercare casa di Akira per
aggredirlo di nuovo. Non era stato nulla di premeditato, di questo era
abbastanza sicuro.
«Scusami» si rivolse ad una studentessa che passava in quel momento insieme ad
un paio di compagne di classe, rivolgendole un sorriso cortese: «sapresti
indicarmi dov’è la palestra, per favore?» domandò affabile. Probabilmente una
delle due amiche lo riconobbe, a giudicare dall’espressione sorpresa che
assunse mentre l’altra gli indicava la direzione giusta.
Non gli piaceva mentire ad Akira, ed era uno dei motivi per cui era mentalmente
pronto non solo a raccontargli
tutto quando l’altro sarebbe rincasato quella sera, ma anche a sorbirsi la
sequela di improperi che gli sarebbero stati certamente rivolti, perché Akira
era così: tanto più si preoccupava, più era frettoloso nel dirti quanto stupido
– e molti altri sinonimi, a volte anche coloriti – eri stato a fare qualcosa.
Ma Jun sapeva che era solo il suo modo di scaricare l’agitazione, che non
intendeva dire davvero almeno la metà di quello che pronunciava.
Forse stava agendo d’impulso, si era detto, e forse quanto stava per fare
avrebbe portato Akira a pensarci due volte prima di raccontargli alcune cose;
probabilmente, si era persino detto, Ryouta si sarebbe sentito tradito.
«Ehm» sentì pronunciare alle proprie spalle, voltandosi ed inquadrando una
ragazza senza troppe difficoltà: «sta cercando qualcuno?» chiese lei.
«Ah, tu devi essere Momoi-san, giusto?» azzardò lui, vedendola annuire ancora
incerta «Mi chiamo Jun, sono il collega di Ryouta.» spiegò ed era abbastanza
certo che lei avesse già fatto tutti i collegamenti del caso «C’è Aomine-kun?»
chiese quindi, lo stesso tono gentile usato con le compagne di lei poco prima.
Aomine non era uscito nel
mezzo dell’allenamento, o meglio: forse l’avrebbe anche fatto, ma Jun aveva
espressamente chiesto a Satsuki di non interromperlo, assicurando che avrebbe
potuto aspettare tranquillamente una pausa o la fine dell’attività del ragazzo.
Ma era stato proprio durante una pausa che lei si era fatta vicina all’amico d’infanzia,
parlottando un poco con lui; Jun suppose che non avesse voluto farlo aspettare
fino alla fine dell’allenamento, nonostante tutto, perché poco dopo Aomine era
sulla soglia e con lo sguardo seccato su di lui.
Gli aveva lasciato il tempo di studiarlo quanto preferiva, anche se era
abbastanza sicuro che l’altro avesse capito chi fosse, un po’ dallo zigomo
ancora tumefatto e un po’ per come lui stesso si era presentato alla manager
della Touou.
«Allora? Che c’è?» lo incalzò impaziente Daiki, fissandolo poco convinto, o
come se si aspettasse un qualche rimprovero.
«Ho saputo che Akira ti ha dato un pugno, in ospedale.» rispose «E sono venuto
a scusarmi, perché in ogni caso non avrebbe dovuto.» aggiunse placido, lo
sguardo che non sembrava intimorito dal cipiglio di Aomine; che da parte sua
era confuso: quel tipo non sapeva anche perché si fosse beccato un pugno?
«Il tuo amico non sa scusarsi da solo?» sbottò, seccato. Era già abbastanza
irritato dall’essersi preso un pugno da quel nano che nemmeno conosceva, senza
contare tutto quello che gli aveva detto senza che lui potesse almeno
ricambiare la cortesia del colpo ricevuto, essendo stato fermato. Ritrovarsi di
fronte quello che era stato aggredito e per il quale era successo tutto quel
casino era l’ultima cosa che avrebbe voluto.
Inoltre, il pensiero di Kise che lo difendeva a spada tratta ancora gli faceva
ribollire il sangue, se ci pensava.
E Jun, che in quel momento ridacchiò, non lo stava aiutando a calmarsi: «Che c’è
da ridere?»
«Scusami. Il “mio amico”, per usare i tuoi termini, non si sarebbe mai scusato.»
fece presente «E fino ad un certo punto non credo nemmeno che dovrebbe. Io mi
sto scusando solo perché se non fosse stato agitato, non avrebbe alzato le
mani. Non è da lui.» si limitò a spiegare.
«Non sembrava avesse molti problemi ad alzarle.» rimbeccò Aomine con un tono
arrogante. Jun non rispose subito, dando all’altro la piacevole sensazione di
un piccola vittoria personale: «Beh, se non hai altro da dire…»
lasciò cadere con tono annoiato, facendo per voltarsi e rientrare nella
palestra.
«C’è un’altra cosa che vorrei dirti, se hai ancora qualche minuto.» lo fermò l’altro,
aspettando che Daiki fosse di nuovo rivolto verso di lui, prima di proseguire: «Sono
venuto anche perché non penso di aver bisogno di essere difeso. Né da Akira, né
da Ryouta.» iniziò, mantenendo un tono calmo ed educato, ma riservando allo
sguardo quella sfumatura decisa che lasciava ad intendere senza alcun dubbio
quanto serio fosse per lui il discorso che stava per fare.
«Perciò sono venuto fin qui per qualcosa che magari a te non interesserà
sapere, ma preferisco dirtelo comunque.» ammise, e Aomine stava seriamente per
mandarlo al diavolo quando l’espressione seria e al tempo stesso di chi è
completamente a proprio agio lo spiazzò, specie se accostata alla frase che Jun
pronunciò senza battere ciglio: «Io sono omosessuale.»
Daiki, per dirla tutta, non si era mai posto grandi problemi; a lui piacevano
le tette grandi e le ragazze, si masturbava con le classiche riviste per
ragazzi che giravano tra i compagni. Era un sano adolescente, e chi aveva gusti
diversi non era mai stato affare suo, complice anche il fatto di non aver mai
conosciuto qualcuno così e nonostante il casino in ospedale non si considerava
omofobo: aveva solo difficoltà ad immaginare un uomo in certi atteggiamenti con
un altro uomo. Avere davanti Jun che con una sola frase ammetteva di essere un maschio
a cui piacevano quelli del suo stesso sesso, ma soprattutto di non vedere nulla
di strano o sbagliato nella cosa quando l’intera società condannava quelli come
lui, lo stupì forse più della notizia in sé o di quanto assurdo fosse il
contesto in cui glielo stava dicendo.
«E a dire il vero non penso che a te possa interessare particolarmente, né che
io sia tenuto a dirtelo. Ma non devo delle scuse a nessuno, per questo.»
proseguì, e forse per la prima volta gli sembrò che lo sguardo dell’altro si
fosse indurito impercettibilmente, benché il tono non si fosse alzato né altro.
«Non voglio nemmeno le tue scuse, nonostante io pensi che reputare un’aggressione
legittima solo per quello che faccio nella mia vita privata e che non crea
problemi a nessuno sia qualcosa di estremamente stupido. Ma ognuno ha il suo
punto di vista, immagino, e non ho la presunzione di cambiarlo con quello che
sto dicendo.» ammise, come se non ci avesse creduto nemmeno per un momento, in
effetti: «Ma Ryouta è un bravo ragazzo.» aggiunse, destando l’attenzione di
Aomine.
«Che c’entra Kise, ora?» sbottò, guardingo.
«Ryouta» sembrò ignorarlo totalmente Jun «è il tipo di persona che si sente a
suo agio con me e Akira. E se tu, Aomine-kun, hai qualche problema in merito a
questo» proseguì, facendosi ancora più serio, se possibile: «devi parlarne con
lui. Possibilmente, senza usare me e Akira o quello che siamo come scusa per
arrabbiarti. Perché io non ho pretese nei tuoi confronti, visto che non ti
conosco nemmeno, come non le ho nei confronti di nessun altro. Io non mi
aspetto né di essere “accettato”, né di essere “tollerato” dal momento che vivo
la mia vita e questo non è qualcosa che deve essere sopportato» calcò la parola «è un sacrosanto diritto. La tua
opinione in merito non interessa a me e non interessa ad Akira. Ma vorrei tu
non pretendessi di fare di noi la tua scusa personale, perché non ho intenzione
di esserlo.» concluse.
Aomine strinse i pugni, sentendo montare dentro di sé un misto di rabbia e
frustrazione: a lui non fregava un accidente di cosa facevano quel Jun e quel
nano, così come di Kise che faceva l’amicone di tutti da che aveva memoria; il
semplice fatto di trovarlo irritante com’era
sempre stato non significava un suo coinvolgimento di qualche tipo.
Facesse quello che preferiva, si mettesse nei casini, che li evitasse pure – lo
aveva capito persino lui che Kise li
stava evitando tutti, e questo lo faceva incazzare ancora di più, perché Aomine
non era una persona di pensiero e non lo era mai stata, e odiava quando
qualcuno si rifugiava nel silenzio anziché dirgli le cose in faccia.
E quanto a quel damerino modello, che si sbattesse il suo ragazzo dove gli
pareva, erano affari loro se finivano pestati o chissà che altro.
«Merda.» sbottò, dando un colpo con il pugno chiuso alla porta della palestra,
rientrando ed ignorando i richiami di Satsuki.
Avrebbe voluto dirgli tutto quello, sputarglielo addosso e tanti saluti;
eppure, quando aveva fatto per aprire bocca, Jun se ne era già andato.
Inutile dire che per certi
versi questo capitolo mi soddisfa e per altri no, ossia Aomine, che non penso
sarò mai in grado di muovere IC come vorrei (il che potrebbe far nascere il
dubbio “e perché scrivi AoKise”, ma soprassediamo XD);
in questo capitolo è un mezzo disastro, ma pace.
D’altro canto questo è uno dei tre “punti chiave” della long, ossia l’incidente
di Jun – che porta con sé una delle tematiche base, ossia l’omofobia – e,
spero, l’inizio di una presenza un po’ più attiva da parte di Aomine.
A chi ha ancora la pazienza di seguire i miei aggiornamenti lentissimi, un
sacco di amore (L)