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Autore: Checie    06/05/2008    2 recensioni
Questa è la mia vita, in pochi capitoli. Tutti i fatti e le persone citate sono realmente esistenti o esistiti. Tutti i riferimenti sono puramente voluti. Spero vi piaccia!!!!!!!
Genere: Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Pasta2 Questo è il primo vero capitolo...fatemi sapere!









Sono stata una bambina felice e spensierata, una simpatica pupattola con la stazza di una balenottera nana, ma con la loquacità di un’ultranovantenne, di quelle che mettono ancora il centrino ricamato sul televisore in bianco e nero. Ho camminato presto, parlato presto (troppo), l’unica cosa che tardava era la dentatura, ma questo non comprometteva l’introito quotidiano di cibo. A dirla tutta, sono stata orribilmente magra e accanita consumatrice di broccoletti e formaggino Mio fino al giorno in cui mi hanno tolto le tonsille ed ho scoperto il potere dei grassi, approdando nel felice mondo di cioccolato e affini. Questo, devo ammettere, ha avuto un effetto immediato sulla mia allora splendida silhouette, facendomi passare da una flessuosa lattante ad una bimba cicciotta, innamorata dei lupetti di ciniglia color Gianduiotto (e l’effetto, addosso, non era molto diverso da quello di un mega cioccolatino umano). Il tutto per la gioia della nonna, che è da sempre in pensiero per la forma fisica dei suoi familiari (credo che il suo sogno segreto sia di vederci superare tutti il quintale, e fa del suo meglio per aiutarci nell’ardua impresa). La mia infanzia è stata scandita da gloriosi anni d’asilo, passati felicemente a fare la pipì nelle pentoline giocattolo e a bere tutti dallo stesso bicchiere. Il ricordo più vivido è quello della piscina: ogni anno, a giugno, puntualmente, le suore tiravano fuori un vaschino 2x2 gonfiabile e lo piazzavano nel mezzo del giardino, ci addossavano il mitico scivolo Chicco di plastica rossa e noi, in fila indiana, aspettavamo pazientemente di fare un tuffo, per poi uscire immediatamente dall’acqua ad altezza bidet e rimetterci ordinatamente in fila. Però, forse, più della piscina, i momenti di panico erano creati dalle recite natalizie, con l’immancabile storia di Maria e Giuseppe e gli angioletti bianchi. Naturalmente più si era grandi, più si poteva ambire a ruoli di prestigio e, ovviamente, il sogno di tutte noi era poter interpretare Maria, che veniva scelta tra una di quelle dell’ultimo anno. Quando giunse il mio di ultimo anno, tutto il mio corpo spasimava per diventare Maria, il personaggio perfetto per eccellenza, ma fui elegantemente relegata al ruolo di pastorella, le cui parole “Qua, pecore, qua!”, vengono tuttora ricordate da mio padre come la formazione dell’Inter ’72-’73.
La fine di questa gioia fu dettata dalla famigerata “Primina”, svoltasi durante il mio ultimo anno di scuola materna, in compagnia dell’altrettanto famigerata nonna, ex maestra, che probabilmente si divertiva più di me. Io, in realtà, la volevo fare spinta dalla competizione con mia cugina che, di due anni maggiore di me, l’aveva già fatta. Quindi, non esitai un attimo nella mia scelta, peccato che in mente avessi molte cose, tranne che l’alfabeto e le tabelline. E così, a sei anni, entrai in seconda elementare, dopo un esamino di cui ricordo ancora ogni istante. La mia stupenda classe (la migliore avuta finora) era composta da nove, portentosissimi e bellissimi, ma non tutti, maschi e cinque simpatiche ragazzette fra cui me, la mia migliore amica dell’epoca, una reincarnazione di Courtney Love, una dolce bimba col caschetto ed un’aspirante suora. Nonostante la nostra giovane età avevamo già un discreto occhio per l’altro sesso ed il più amato era Uba, alias Umberto, il dio-delle-bambine. Non c’era una under 11 della bassa padana il cui cuore non battesse per lui, tranne me, ovviamente. Uba era tutto quello che le bambine sognavano: un indisciplinato, ma intelligente, non eccessivamente bello (secondo me), ma carismatico, e via così, passando per dei profondi occhi scuri e un buon gusto in fatto di vestiti. Ma a me non interessavano le idiozie che faceva per mostrarsi abile e potente, a me piaceva Lui, l’angelo dal sorriso di miele, il ragazzo-del-banco-accanto, studioso, intelligente, spiritoso, con un naturale savoir fare. Anche se, a vederlo oggi, ci si chiede se per caso non abbia inghiottito accidentalmente il bambino che è stato. Ad ogni modo, Lui era l’unico per cui i miei sciocchi sogni di bambina vivevano ed ogni sua parola era come cioccolato caldo con i Mars. Io mi credevo bella, era quello che mi dicevano tutti, non mi rendevo conto che me l’avrebbero detto anche se avessi avuto qualche somiglianza con l’Ispettore Derrick, e quindi credevo che prima a poi avrebbe notato la mia così tanto elogiata bellezza, e sarebbe caduto ai miei piedi. Purtroppo, però, a parte suggerirmi la risposta in un paio di verifiche di storia piuttosto ostiche (Chi è Andrea Mantegna e Come si chiama la moglie di Garibaldi), non mosse mai un passo verso di me. Fu allora che mi convinsi di essere una persona di particolare bruttezza, e ammetto di non avere avuto torto. I miei sogni d’amore vennero così brutalmente fustigati per quattro lunghi anni, ma in compenso la mia consapevolezza teatrale cresceva. Sul palco non importava che fossi bella o brutta, lì dominavo perché ero brava. Anzi, bravissima. Ok, lo ammetto, ho peccato moltissimo di modestia, ma le facce estasiate dei miei cari dopo avermi visto interpretare, in seconda elementare, un ciambellano che reggeva un attaccapanni con un panciotto giallo dell’86, mi sono bastate. Ero potente. In seguito, il mio potere fu accresciuto dal fatto che, effettivamente, ero brava. In terza fui un’attrice presuntuosa e lamentosa che capitava n una compagnia di scalzacani, ma fu in quarta che ottenni il massimo: allestimmo My Fair Lady ed io fui scelta per essere Miss Eliza Doolittle. All’epoca ignoravo che al mondo esistesse un musical all’infuori di Grease, e la cosa mi creò qualche dubbio sull’effettivo valore del nostro spettacolo. La mia voce di bimba-contralto (contro tutte le aspettative col passare degli anni sono diventata un trillante soprano) fu messa alla prova da canzoni adatte a festanti ventenni, come la cara Audrey Hepburn, che poi nel film non è nemmeno lei che canta. Io ci capivo poco di musica e sapevo fare parecchie cose, fuorché cantare e, costretta dapprima in un grembiulino floreale cucito per noi dalla mitica bidella Bruna (madre dell’insegnante di teatro), e poi in un tremendo abito fucsia che mi faceva sembrare un pollo 10+ Amadori, non feci esattamente un’ottima figura. O meglio, questo è quello che credo io, per conoscere le opinioni del resto del montagnanese, basti sapere che ancora oggi, dopo sette anni, vengo fermata per strada per “quello splendido My Fair Lady!”. O vivo in un mondo di gente che si accontenta facilmente, o sono troppo esigente. Ai poster l’ardua sentenza. All’anno di quella tremebonda My Fair Lady risale anche un tentativo (da parte mia, della mia migliore amica, del mio “amore” e di un altro bimbo) di lanciarci nella composizione canora, e realizzammo un brano il cui testo è il seguente:

Maria Stuarda
Nella mansarda
Mangia mostarda
Ma che bastarda
Che di cognome è…turututtutu

Ma-ary Stuart
Nella manStuart
Mangia moStuart
Ma che baStuart
Che di cognome è…turututtutu

Giro Francesca
Mangia ventresca
Sulla saracinesca
Che di cognome è…turututtutu

Brunello il bidello
Si mangia un pisello
Dentro al cestello
Che di cognome è…turututtutu…UAH!!!

Non importa se non avete la musica, il risultato non migliora. Questo splendido pezzo era anche accompagnato da un apposito balletto studiato con precisione certosina, che mi rifiuto di descrivere per conservare un po’ di dignità.
Gli anni delle elementari finirono senza troppi tumulti, salvo un tema agli esami finali, in cui chiesi ad una scioccata maestra di matematica come si scriveva “Tannhäuser”, opera di Wagner amata da mio zio, cui avevo dedicato il componimento.
  
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