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Autore: Aika Morgan    05/12/2013    4 recensioni
Faceva freddo e, attorno a lui, c'era il vuoto.
Erano sei anni che i confini del suo mondo erano delimitati da sbarre e inferriate, sei anni dai giorni tutti uguali, sei anni in più di quando ne aveva venti, sei anni che erano stati la sua pena per rapina reiterata.
Un senso di vertigine lo colse a vedersi in mezzo al nulla, unica figura umana in quel piazzale desolato e silenzioso, delimitato in lontananza dalla tangenziale – e l'unico rumore erano le automobili che sfrecciavano veloci – e circondato da vegetazione incolta, di quella che nessuno si occupava mai di curare.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Linea 439 – Stazione Centrale – Zona industriale (deviazione Bicocca).

 

Faceva freddo e, attorno a lui, c'era il vuoto.

Erano sei anni che i confini del suo mondo erano delimitati da sbarre e inferriate, sei anni dai giorni tutti uguali, sei anni in più di quando ne aveva venti, sei anni che erano stati la sua pena per rapina reiterata.

Un senso di vertigine lo colse a vedersi in mezzo al nulla, unica figura umana in quel piazzale desolato e silenzioso, delimitato in lontananza dalla tangenziale – e l'unico rumore erano le automobili che sfrecciavano veloci – e circondato da vegetazione incolta, di quella che nessuno si occupava mai di curare.

Il secondino, lì, all'uscita, gli aveva detto che il 439 passava una volta ogni ora, e l'aveva buttato di nuovo in pasto al mondo senza complimenti, certo che a lui andasse benissimo l'idea di chiudersi per sempre quel posto alle spalle.

La pensilina dell'autobus era a circa cinquanta metri da lui, spoglia, senza nemmeno un cartello che indicasse quali linee si fermavano lì. In realtà sarebbe stato inutile, tutto sommato: sua madre gli aveva detto che da Bicocca passava un solo autobus, il 439, quello che prendeva lei ogni giorno – non importava che ci fosse sole, vento, pioggia e qualche volta anche grandine – per andarlo a trovare.

Con lei, Giovanni aveva imparato a contare il tempo secondo gli orari del 439.

Erano le undici meno dieci quando arrivava, le dodici meno un quarto quando iniziava a sistemare la borsa di plastica dentro la quale custodiva i suoi vestiti sporchi come tesori ai quali dare una nuova dignità con il bucato, come se con quel gesto avesse potuto ripulire anche l'anima di quel suo figlio scapestrato.

Le domande che gli faceva erano sempre le stesse, e Giovanni aveva imparato a memoria le risposte da dare per non farla stare in pensiero, ed era comunque l'unico diversivo che poteva concedersi durante la giornata.

Non le aveva detto che sarebbe uscito dal carcere la mattina presto quel giorno, voleva prendere da solo il 439 per tornare a casa, in uno di quei palazzoni di Librino che a vederli da lontano sembravano quasi appartamenti di lusso, ma che dentro erano case popolari l'una uguale all'altra, dove persino i mobili sembravano disposti in maniera uguale, da appartamento ad appartamento. Librino, per chi non l'aveva mai vista e non sapeva che posto fosse, poteva sembrare anche bella, aveva pure le strade larghe con le rotatorie, quelle che al centro storico se le sognavano. Forse era per quello che quelle quattro ragazze sedute in fondo, quelle che ridacchiavano all'idea di essere passate davanti al carcere di Bicocca – “Facciamo che ti lasciamo qua, che dici?” aveva detto ridendo una di loro a quella che le stava seduta accanto – non capivano.

Giovanni voleva assaporare quei primi attimi di libertà da solo, respirare l'aria fredda di dicembre senza nessuno accanto. E poi sua madre avrebbe di sicuro pianto, facendo piangere anche lui e lui no, lui non voleva piangere.

Così, alle nove meno dieci – un'ora prima che sua madre compisse il quotidiano pellegrinaggio verso Bicocca per l'ultima volta, o almeno così sperava – era salito sul 439 senza dire una parola, trascinandosi sulle spalle un borsone nero e scambiando appena uno sguardo con una donna che invece a Bicocca c'era scesa. Anche lei come sua madre aveva una busta di plastica piena in mano, probabilmente vestiti di ricambio o qualche piccolo tesoro – sigarette clandestine, forse – che rendesse le pene dell'inferno più sopportabili.

Era libero davvero, adesso, e quella libertà aveva un sapore nauseante, che gli faceva girare la testa.

Era libero e l'unica cosa che avrebbe voluto era tornare dentro, protetto dalle sbarre, perché il vuoto attorno a sé gli aveva fatto capire che lui al mondo non sapeva più come starci.

Catania era identica a come l'aveva lasciata anni prima, eppure quasi non la riconosceva, perché per troppo tempo non vi era appartenuto: quelle ragazze in fondo all'autobus continuavano a parlare di Ikea e minchia, gli svedesi dovevano avere uno strano senso dell'umorismo per aprire un centro commerciale nei pressi delle zone più malfamate di Catania.

O forse l'avevano perché era lì che c'era tanto spazio a perdere, che sarebbe andato perduto esattamente come s'era perso lui il giorno che aveva deciso che farsi chiudere a Bicocca poteva essere un prezzo onesto da pagare per tre rapire da mille euro con la minaccia di una pistola giocattolo.

Sui sostegni di cemento di un ponte dell'ennesima rotatoria c'erano dei murales a tre dimensioni, e Giovanni vi lesse versi di speranza, che per un attimo gli ricordarono – o cercarono di ricordargli – che la vita era bella e che forse adesso c'era una speranza anche per lui.

Erano stralci di poesie che non conosceva, probabilmente opere di artisti che Librino manco sapevano cos'era, perché proprio l'arte con quel ponte non c'entrava un cazzo, quell'azzurro strideva col grigio delle strade, e col cemento del ponte, e non aveva niente a che fare persino coi nuvoloni ammassati in cielo, coi suoi pensieri confusi, con la sua nausea e con la sua voglia di tornare indietro.

Quando arrivò alla sua fermata, scese dal 439 come se ci fosse qualcuno a guidare i suoi passi goffi, e rimase qualche minuto immobile sul marciapiede a guardare le finestre di quei palazzi, tutte uguali fra loro, con le tapparelle abbassate quasi ad impedire al mondo esterno di entrare fra le pareti.

È questo, il mio posto nel mondo?

Non era molto sicuro che uno di quei palazzi anonimi potesse ancora esserlo. Guardò il 439 allontanarsi in fretta, sparire all'orizzonte prima che potesse imprimersene la forma nella memoria e decise che presto l'avrebbe ripreso.

Linea 439 – Stazione Centrale – Zona industriale (deviazione Bicocca).

Quella deviazione era l'unico modo che, prima o poi, gli avrebbe consentito di trovare un posto al mondo che gli appartenesse davvero.

 

 

 

 

 

 

_________

 

Buonasera a tutti ^^

Questo spaccato di vita immaginaria è ambientato in una strada che esiste davvero, su un autobus che ho preso oggi, e prende spunto da tre immagini che mi hanno toccata nel profondo, proprio mentre andavo (per la prima volta in vita mia) all'IKEA di Catania, appunto: quella di un ragazzo che se ne stava immobile davanti al carcere Bicocca, quella di una donna che è scesa a questa fermata e quella dei graffiti che davvero ho visto sul sostegno di un ponte di cemento. Le speculazioni su Giovanni sono ovviamente frutto della mia fantasia contorta, specialmente il finale, che vede in lui un personaggio pronto a delinquere pur di sentirsi al sicuro nel più paradossale dei posti, il carcere.

Catania è così, è bella e tragica, e ce l'hai dentro anche nei momenti più impensati e io la amo per questo ^^ Aveva ragione chi parlava di sicilitudine, mi sa ^^

Niente, se volete lasciarmi una recensione a cotal delirio, io non mi offendo ^^

Un bacio,

Aika.

   
 
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