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Autore: Nadie    09/12/2013    3 recensioni
'E tu? Hai già fatto tutto quello che volevi fare prima di morire?'
'Assolutamente no'

[Ben e Prudence]
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Temporale '
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V


Il soffitto della Chiave era più sporco di quanto ricordassi, agli angoli della muffa aveva completamente rovinato l’intonaco e delle ragnatele pendevano e arrivavano quasi a toccare il pavimento.
Mi ricordava tanto il soffitto dello sgabuzzino di casa mia, c’ero entrata una sola volta, da piccola, e quella sola volta mi era bastata.
Era un posto buio e pieno di polvere, occupato da grossi scatoloni.
Allora pensavo che dentro quelli scatoloni si celasse qualcosa di speciale, così ne aprii uno, il più grande di tutti, ma dentro non vi trovai né gioielli, né soldi, né diamanti o cose simili, solo foto, tantissime foto.
Cominciai a guardarle, una per una, non erano male, le studiai con attenzione e una mi catturò particolarmente.
Era la foto di una grossa onda che si abbatteva su una spiaggia.
La tenni in mano a lungo e, con gli occhi chiusi, immaginai di essere su quella spiaggia, proprio in quel momento, mentre la grossa onda si avvicinava, poi all’improvviso tutto diventava scuro e io sentivo l’acqua salata riempirmi la gola.
Mi spaventai molto e ributtai la foto nello scatolone, lo richiusi e scappai via, non rimisi mai più piede in quello sgabuzzino da allora.
Più tardi scoprii che tutte quelle foto le aveva scattate mia madre.
Le foto erano tutto ciò che aveva sempre amato, più di tutto e di tutti, aveva girato il mondo e fotografato ogni cosa, ogni luogo, ogni paesaggio che le era passato davanti agli occhi, aveva viaggiato dall’Irlanda alla Cina, e dalla Cina all’America, imprigionando ogni attimo con la sua macchina fotografica, senza mai fermarsi un istante, finché non aveva incontrato un uomo con un sorriso irresistibile e due grandi occhi blu in cui era affogata.
Si era innamorata, della persona sbagliata ovviamente, ma era comunque innamorata e neanche la fotografia riuscì a tirarla fuori dal gran casino in cui era capitata.
Lui si chiamava Finbar, Finbar Gallagher, era irlandese come lei, lo aveva incontrato la vigilia di Natale, a New York, ascoltare il suo accento mentre parlava l’aveva fatta sentire a casa, le aveva fatto sentire la mancanza di Dublino, la città da cui aveva sempre cercato di fuggire, l’aveva incuriosita, quella sensazione, incuriosita a tal punto che, quando Finbar l’aveva portata sotto l’enorme albero di Natale del Rockfeller Center e aveva premuto le labbra sulle sue, lei non si era affatto tirata indietro. 
Poco tempo dopo era tornata a Dublino, incinta.
‘Ora tu diventerai grande, andrai a scuola e ti riempiranno di parole vuote e poesie sull’amore, e incontrerai un sacco di gente che si metterà in bocca quella stupida parola, ‘amore’, ma la verità è che nessuno ci ha mai capito un tubo!’
Mi aveva detto mia madre una sera, un po’ sbronza, dopo avermi raccontato la sua storia, poi mi aveva dato un rapido bacio sulla fronte ed era andata a dormire.
-Gallagher! A che punto sei? Spero tu abbia finito, sei stata rinchiusa qui dentro tutto il giorno!- la voce di Enoch irruppe tra i miei pensieri, mi voltai lentamente e gli lanciai un’occhiataccia.
-Finito- sospirai, lui sorrise soddisfatto.
Mi alzai dalla panca e gli consegnai il foglio che avevo scritto, lui si affrettò a leggerlo.
-Guarda che ora devo andare- gli dissi, mentre prendevo la mia tracolla, lui annuì senza staccare gli occhi dal foglio.
-Salutami Angie- annuì di nuovo, sorrisi ed uscii fuori.
Dublino era fredda e scura, stropicciata dal vento come un pezzetto di carta, portai la sciarpa fin sopra al naso e camminai frettolosamente su un marciapiede fatiscente.
Per strada c'erano un sacco di turisti.
Chissà da dove venivano.
Mi domandai come guardavano Dublino, cosa ci vedevano in quella città maltrattata da tutti e da tutto, mi domandai se riuscivano a scorgere tutte le ferite che l’avevano lacerata.
Una donna con un grosso zaino mi passò affianco, sorridendo.
Mi ricordò mia madre.
Mi ricordò mia madre la volta in cui, seduta a tavola, senza cibo nel piatto, mi aveva raccontato di un suo viaggio in Spagna, a Barcellona.
Mi aveva detto che aveva dormito in una spiaggia, vicino alla riva, e poi aveva fatto l’autostop finché una vecchia macchina non si era fermata, e allora aveva viaggiato e viaggiato a lungo, ascoltando vecchie canzoni spagnole che passavano alla radio nazionale.
‘Non riuscivo a capire cosa dicessero, anzi, non ne avevo la minima idea, ma doveva essere qualcosa di bello, ne sono sicura’
Mi aveva detto, poi aveva sorriso ed era tornata in cucina, probabilmente a bere altro Whisky.
Scossi leggermente la testa per scacciare ogni pensiero e accelerai il passo, fino a sprofondare scalino dopo scalino alla fermata della metro. 
Quella per Raheny, la mia, era già arrivata e allora corsi e mi intrufolai all’interno, un istante prima che le porte si richiudessero.
Nel mio stesso vagone c’era una coppia sui 30 che litigava, in modo piuttosto acceso. Tutti fecero finta di nulla.
Guardando quei due mi ritornò in mente il rumore dei piatti che si sgretolavano in mille pezzi al contatto violento contro il pavimento.
E delle voci, le voci di uomo e una donna.
‘Sadie, ricorda che se riesci a mettere ancora qualcosa sotto i denti è solo grazie al sottoscritto’
‘Fanculo, Finbar, noi non abbiamo bisogno di te. Io non ho bisogno di te’

E poi piatti, ancora piatti e forse anche qualche bicchiere.
E vetri.
Vetri sul pavimento, vetri sotto al tavolo, vetri sotto i piedi. Vetri dappertutto.
La metro arrivò a destinazione e quando frenò, in modo brusco, andai a sbattere contro uno dei pali grigi, massaggiai per poco il fianco destro e scesi, andando verso la mia panchina.
Era occupata.
-Benjamin?!- lui alzò lo sguardo, un po’ intontito, fece un cenno con la testa e bevve un sorso di birra dalla bottiglia che teneva in mano.
-Lo sapevo che venivi. Qui. 
-Be’ è la mia panchina.
-Pardon- sospirai e mi misi accanto a lui.
-Che ci fai qui, Benjamin?
-Ben.
-Come?
-Ben. Chiamami Ben, non mi piace Benjamin, è troppo lungo e troppo serio per uno come me. Senti che suono… ‘Benjamin’, sembro uno di quei reali francesi che compaiono in quei filmacci scaduti che trasmettono la Domenica sera in televisione. Benjamin. No, meglio Ben. Chiamami Ben.
Bevve un altro sorso dalla bottiglia. Sembrava un po’ sbronzo.
-Okay: che ci fai qui, Ben?
-Cercavo.
-Cosa?
-Bella domanda. La mia pace interiore? Cazzo, ero venuto a Dublino per scappare da tutto il caos che c’è a casa mia, ma, senza offesa, siete più incasinati che a Londra.
Scoppiai a ridere.
-Se la pensi così significa che hai visto solo la Dublino delle strade piene di pub e affollate di gente con litri e litri di Guinness in corpo.
-Perché conosci posti diversi, qui?- si voltò verso di me.
-Puoi dirlo forte!
-Tipo?- chiese, in tono di sfida.
Mi alzai di scatto e lo tirai su per un braccio.
-Ora te la faccio trovare io, la pace interiore!
Lo trascinai su per le scale, fino in strada e corsi noncurante delle macchine che sfrecciavano.
Rischiammo di essere investiti da ben tre automobilisti.
E poi scorsi la solita fermata colma di bus arancioni scoloriti.
Feci scivolare la mano giù dal braccio di Ben, intrecciai le mie dita alle sue, e salii sul bus che portava a Portrane, vicino alla spiaggia.
Ben mi seguiva, inconsapevole del viaggio e della meta, ma non protestava, anzi, sembrava parecchio incuriosito.
Occupammo gli ultimi posti.
-Mi spieghi dove cavolo…- lo zittii all’istante.
-Ce la fai a stare zitto per quindici minuti e guardare fuori dal finestrino?- sorrise, bevve un altro sorso di birra e girò il capo, studiando con attenzione la strada e gli alberi che restava indietro, mentre noi andavamo avanti.
Sui sedili al lato opposto del bus c’erano una donna e una bambina, la donna indicava fuori dal finestrino e la bambina seguiva attenta il suo dito.
Mi ricordò mia madre, quando mi portò ad Amsterdam.
‘Ora che hai gli occhi pieni di Amsterdam, tienili ben chiusi, Prue, tienili ben chiusi, o si svuoteranno in un baleno’
Il bus si fermò e tutti scesero.
Presi di nuovo Ben per mano e lo portai in un posto lì vicino.
Era una sorta di spiaggia, piccola, dove erba e sabbia si fondevano.
Il mare era così scuro, e così profondo.
Tirava un brutta aria e le onde si agitavano in preda al vento.
-Allora? Ora non ti senti pieno come un campo di fiori? E infinito come l’acqua?
-Tu ti senti così, quando vieni qui?- chiese.
-Sì. 
Annuì e spostò lo sguardo verso il mare, mi misi seduta su pezzo di terreno erboso e lui si sedette accanto a me.
Gli presi la bottiglia di birra dalle mani e la svuotai.
Lui restò a fissarmi, un po’ contrariato.
-Non mi piace l’alcol, e le bottiglie con dentro l’alcol e le persone con dentro l’alcol- spiegai.
-Già, però quella l’avevo pagata, sai?
-Peggio per te- scosse la testa, sbuffando, poi prese una sigaretta e un accendino dalla tasca dei jeans e cominciò a fumare.
E si mise a guardare il mare, attento.
-Se continui a fumare morirai, lo sai?- si girò a fissarmi, con quegli occhi difficili da decifrare, con quegli occhi pieni, pieni di storie e pensieri nascosti in un turbine scuro.
Avvicinò il viso al mio e schiuse le labbra.
Del fumo bianco accarezzò il mio viso, e un odore forte mi rubò il fiato per qualche attimo.
-Davvero?- chiese.
-Sì- sorrise, poi alzò il viso verso il cielo.
Restai per un po’ a fissarlo, era così interessante, avevo cercato più volte di abbassare lo sguardo, ma era quasi impossibile.
Guardava il cielo come fanno pochi, sembrava cercasse disperatamente qualcosa, qualcosa di importante.
-Vuoi morire insieme a me?- chiese ad un tratto, e sembrava quasi serio.
-Non abbiamo ancora fatto tutto ciò che vogliamo fare, ricordi?
-Oh, giusto- annuì, buttò via la sigaretta e restò in silenzio.
L’unico suono percepibile era quello del mare, così forte e così delicato allo stesso tempo.
-Sei triste, Prudence.
-No.
-Non era una domanda- non mi guardava, i sui occhi studiavano con attenzione il moto violento delle onde, agitate dal vento.
-Sei molto triste, anche se lo nascondi, si legge nei tuoi occhi e nei tuoi gesti e in tutto quello che dici. Sei triste. Perché?
-Forse sono semplicemente fatta così, fa parte di me. Ci sono le persone creative, quelle intelligenti, quelle simpatiche e quelle tristi. Forse io sono triste, triste e basta, non c’è un motivo. 
Strappò un filo d’erba e se lo rigirò fra le dita
-Tu cosa sei, invece?- rise sommessamente.
-Cosa sono io? A parte un idiota, intendi? Ah, non lo so, ogni tanto me lo chiedo anche io che cosa sono, ma ci sono troppe risposte, è un quesito troppo grande per me, e per te, e per tutti. Io non lo so cosa sono, e tu? Secondo te io cosa sono?
-E’ un quesito troppo grande, l’hai detto anche tu, no? Sai, secondo me le persone, tutte le persone, non sono davvero chi sembrano. Secondo me dentro ognuno di noi c’è un ‘io’ che non può essere cambiato da nulla, non ci sono esperienze, libri, o teorie che tengano, è li, un pezzetto di noi che niente e nessuno può modificare, è all’interno, più in fondo della carne, resta lì, indisturbato, senza far troppo rumore, e sta a guardare chi scegliamo di diventare, sta a guardare cosa ne facciamo della vita che abbiamo. Non so, non ho la minima idea di cosa tu o io possiamo essere, e credo non lo sapremo mai- si girò e mi studiò pensieroso.
-Credi che questo fatidico ‘io’ non possa essere toccato da nulla, nemmeno da un’esperienza o un’emozione forte?
-No. Da nulla- voltò di nuovo lo sguardo verso il mare e annuì.
-E credi che noi non potremo mai davvero conoscere questo ‘io’ che abbiamo dentro?
-Credo che noi non vogliamo davvero conoscere questo ‘io’ che abbiamo dentro.
-Perché?
-Perché abbiamo paura. La gente ha paura, paura di tutto: della verità, delle amicizie, dei ritardi, dell’amore, di Dio, della solitudine, dei luoghi affollati, dell’altra gente, e di ciò che ha dentro.  
-E tu hai paura, Prudence?
-No. Tu?
Girò lentamente il capo verso di me e sorrise.
-Per niente.



Della serie: 'a volte ritornano', ecco il nuovo capitolo. Sì, sì, mi merito le botte, ma voi non avete idea del lavoro che c'è dietro questo capitolo! Dunque, per farla breve, il mio PC sta praticamente collassando(PC con dentro tutte, tutte le mie storie) ma era passato troppo tempo, dovevo aggiornare obbligatoriamente, allora mi sono armata di quadernino magico e ho cominciato a riscrivere tutto sul cartaceo(quindi ho anche stravolto un po' le cose) oggi, subito dopo pranzo, mi sono intrufolata in biblio, ho preso in ostaggio un computer ed ho riscritto il capitolo nuovo su Word(molto di fretta, quindi probabilmente ci saranno errori, voi segnalatemi se li trovate) e poi, dopo un lungo combattimento contro l'editor di EFP, sono riuscita ad aggiornare! 
Spero sia venuto perlomeno accettabile, o tutta questa fatica sarà stata vana!
Detto ciò, rinnovo le mie scuse a quelle due meraviglie di Joy_10 e Clairy93, che ne avranno abbastanza dei miei ignobili ritardi immagino, poi ringrazio tutti i lettori, silenziosi e non, e torno a Catullo e alla sue sfighe d'amore con quella sciagurata di Lesbia(che donna crudele, tradire uno come Caty, bah!)
Hasta luego,
C.
  
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