Poveglia II (l'inferno è vuoto, tutti i diavoli sono qui).
La puntualità
è una bellissima dote, peccato che non sia
nostra.
Nonostante i miei tentativi arriviamo comunque con un
quarto d’ora di ritardo, il ragazzo sta già
camminando avanti e indietro.
“Eccoci! Scusa per il ritardo.”
“Figuratevi. Io sono Angelo, piacere.
Uhm, anche se non so se vi faccio un favore portandovi
lì.”
Il grumo di ansia nella mia pancia morde più forte che
mai.
“Certo che sei alto, Mark Hoppus!”
Mio marito ride.
“Vuoi una foto con l’autografo?”
“Mi farebbe piacere.”
Angelo annuisce, lui e Mark si mettono in posa e io
scatto una foto che Mark firma.
Tutto nella norma, ma cos’è questo sottile senso
di paura
che si sta impossessando sempre più di me?
È la continuazione dell’ansia di questo pomeriggio?
È paura nuova?
Salgo sulla barca insieme a Mark e ad Angelo e prego che
il mio mal di mare mi dia tregua e non mi faccia vomitare.
Pia speranza, la barchetta di Angelo non è un traghetto e
non appena si mette a remare sento la mia cena protestare,
giù nel profondo del
mio stomaco.
Mi rannicchio tra le braccia di Mark e prego che non ci
voglia molto a raggiungere Poveglia, non vorrei vomitare addosso a mio
marito,
è finita da un bel po’ era di vomitare sulle
persone.
Finalmente sento la barca fermarsi, Angelo la fa
attraccare a un porticciolo e poi ci aiuta a scendere. Io sto troppo
male,
sento solo lui e Mark che parlano per qualche minuto e poi il rumore
dei remi
che ritmicamente entrano nell’acqua ed escono.
Io rimango seduta per un po’ sul pontile per farmi
passare il mal di mare, intanto la notte cala sulla laguna, si
accendono le
luci e le stelle, noi siamo in un vasto angolo di buio.
Da noi nessuna luce si accenderà e ho il sospetto che
persino le stelle e la luna nascente non amino illuminare questo posto.
In ogni caso siamo qui e non possiamo tirarci indietro.
“Skye? Stai meglio ora?”
Io mi alzo in piedi leggermente barcollante.
“Sì, Mark andiamo.”
Scendiamo dal pontile e seguiamo un sentierino semi invaso
dalle erbacce che ci porta dentro l’isola. Anni di incuria
hanno fatto crescere
piante e piantine rigogliose, ma non è una buona cosa,
sembra che non vogliano
essere penetrate. Se non avessi paura di passare per pazza giurerei che
ci
stiano sussurrando di tornare indietro finché siamo in tempo.
“Ahi!”
Esclama Mark.
“Cosa è successo?”
“Questo ramo ha tentato di accecarmi.”
Io sospiro piuttosto inquieta, poco prima una radice ha
tentato di farmi cadere a terra e poi c’è troppo
buio.
Troppo troppo buio e non si sente il rumore di qualche
forma di vita, solo il rumore dei nostri passi che avanzano lenti nella
selva.
“Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura”
La mia
mente
paranoica recita i versi del primo canto dell’inferno di
Dante, il che la dice
lunga, visto che probabilmente siamo solo impantanati in un
po’ di vegetazione
incolta.
Finalmente vediamo
la luce.
Usciti dalla
vegetazione troviamo un cortile che anticamente doveva essere
lastricato di
pietre, ma che ora è in balia dell’erba.
È bianco e riluce quasi malefico –
come il ghigno di un gigantesco lupo
– e
dietro al cortile c’è un edificio
lungo con delle finestre mezze rotte.
“Siamo arrivati al
manicomio.”
Mi dice Mark.
“Andatevene!”
Urla una voce che
fa gelare il sangue nelle vene, seguita da un coro di macabre voci che
ripetono
la stessa cosa. Non siamo i benvenuti qui, dobbiamo andarcene.
“Li hai sentiti
anche tu?”
Chiedo a Mark, che
annuisce.
“Sì, ma potrebbe
essere una nostra suggestione, no?”
Lo dice poco
convinto.
“Beh, allora
andiamo avanti.”
Percorriamo il
cortile e si sentono solo i nostri passi rimbombare, guidati dalla
gelida luce
della luna, le pietre scricchiolano leggermente.
All’improvviso si
alza un vento freddo, un vento che ci vuole rispedire dritti nella
vegetazione e poi
all’imbarcadero. Io e
Mark avanziamo a fatica, le braccia davanti al volto e i cuori in
tumulto.
Arriviamo alla
struttura e troviamo una finestra rotta per entrare, un volta dentro
rimaniamo
almeno cinque minuti a scaldarci, stringendoci in un abbraccio convulso.
Inizio ad avere
paura.
Mi sento come
Gretel, dispersa nel mondo grande e pauroso, mi pento di aver proposto
questa
gita, ma tant’è, ormai siamo qui.
Mark tira fuori una
pila e ci guardiamo in giro, siamo in un lungo corridoio che in origine
doveva
essere dipinto di un azzurro tenue, ora è per
metà invaso dalla vegetazione e
per metà sporco, qua e là si legge anche qualche
scritta, il soffitto sopra di
noi sembra reggere e scopriamo di trovarci sotto un grande lampadario.
Percorriamo per un
po’ il corridoio, cercando di ignorare le voci che
– intorno a noi – ci dicono
di andarcene e arriviamo davanti alla porta di una camera.
Con grande
attenzione la apro, ma il cigolio che emette è comunque
assordante e
inquietante in questo grande silenzio carico di minaccia che ci avvolge.
La stanza non è
molto grande, ha una finestra in cui dell’edera scura
striscia all’interno, c’è
un armadio caduto in pezzi, un tavolo che ha fatto la stessa fine, una
sedia e
un letto di metallo senza materasso o altro. È parecchio
arrugginito.
{Sono legata al letto e non posso scappare,
presto il dottore arriverà di nuovo, Dio se ci se aiutami!
Non voglio che giochi ancora con la mia mente,
non voglio subire un altro elettroshock!
Io sto bene, è solo quest’isola che mi rende
strana, ma rende tutti strani.
Loro ci sono anche se il direttore lo nega.
Loro ci sono e si vendicheranno.
La porta si apre, il dottore mi controlla e poi
scrive qualcosa sul suo blocco.
“Madre Luisa, la prepari. In serata subirà
probabilmente un altro elettroshock.”
Dio, ti prego, no.
Dio, ti prego liberami!
Lacrime silenziose scendono sulle mie guance.}
“Skye?
Perché piangi?”
“Ho visto…. Ho
visto cosa facevano qui e Dio è orribile.”
Mark mi prende tra
le braccia.
Alla
fine del
corridoio le presenze rumoreggiano di più, sembra quasi che
si stiano chiamando
a raccolta per cacciarci.
Sopra l’inizio del
corridoio è dipinto in blu “Reparto
psichiatrico.”, credo sia qualcosa in
italiano per indicare che dà lì in poi inizia il
manicomio.
Siamo arrivati alla
hall, io mi infilo nel banco della hall, Mark in una stanzetta
lì vicino.
Poco dopo Mark
arriva reggendo fascicoli consunti dal tempo, scritti in italiano e con
una
bella grafia, sono datati più o meno tutti agli anni
’20 e molti dei pazienti
sono donne.
Donne che sfoggiano
un’espressione spaventata per la maggior parte delle foto e
imbambolata solo
per alcune.
Qualcuna ha i
capelli lunghi, qualcuna corti.
Sono tutte morte, è
un quaderno dei morti e se sapessi un po’ di italiano
leggerei le loro storie,
ne metto alcuni in borsa e poi torno alla mia postazione.
Da lì vedo la porta,
un tempo doveva essere stata in elegante stile liberty – lo si intuisce dalle curve
dell’architettura
e dai pochi pezzi di vetro colorato che ancora la decorano –
un tappeto
consunto e un divanetto squarciato color crema.
Mi appoggio un
attimo, giusto per riposarmi.
{Entra l’ennesima famiglia di borghesi
con una
ragazzina al seguito. Indossa un vestito turchese e si divincola, ha
una pancia
che è contenuta a malapena dal vestito.
La guardo negli occhi, ha paura, sa che qui
vivrà l’inferno, come succede a tutte quelle come
lei che vengono qui. Sono
segretaria in questo posto da anni ormai e conosco i tipi di pazienti.
La sera la ragazzina è ricoverata, indossa un
largo camice bianco, io leggiucchio la sua documentazione.
Si chiama Marta De Santis ha solo quindici anni
e ha una non specificata forma di isteria, in realtà
è qui perché è incinta e
il padre è un ragazzo della sua età che scarica
casse al mercato del pesce.
La famiglia ha voluto liberarsi di lei
mandandola in manicomio, non è la prima e non
sarà l’ultima.
Entrano normali ed escono pazze.
Se si è in un manicomio sani c’è
un’alta
possibilità di impazzire, se questo manicomio si trova su
una vecchia isola
infestata dai fantasmi e in cui puoi inciampare in pezzi di scheletri
umani se
fai un giro in giardino, dare di matto è una certezza.
Guardo Marta con pietà, vorrei che le famiglie
non ricorressero a queste soluzioni così drastiche,
sentendosi osservata la
ragazzina viene da me.
“Quando avrò partorito potrò almeno
vedere mio
figlio.”
Io rimango in silenzio per un attimo, la
risposta corretta sarebbe “no”, ma dirgliela
equivarrebbe a distruggerla.
“Non lo so, devo parlarne con il direttore.”
Lei se ne va sconsolata.
Odio il mio lavoro.}
Decidiamo
di salire
sulla torre dell’istituto, Mark davanti a me mi guida con la
luce della torcia,
che sembra spettrale. Il richiamo dei morti si fa più forte
e ritmico.
Sì, si stanno
chiamando a raccolta come le antiche tribù guerriere
dell’Africa, solo che
invece dei tamburi usano questo strano modo a metà tra un
gemito e un ululato.
Arriviamo in cima e
respiriamo con gratitudine l’aria fresca.
Sotto di noi
vediamo la struttura lunga, qualcuno sui tetti ha dimenticato dei
barbecue,
segno che qualche pazzo è venuto a farsi una grigliata qui.
Non so come
facciano, io ho paura.
Io li sento e non
scherzo.
Sento il dolore e
il desiderio di vendetta.
Ci sono uomini che
sono stati portati sani su quest’isola, semplicemente
sospettati di avere la
peste che gridano vendetta, ci sono le pazienti come Marta che gridano giustizia per il
trattamento da loro subito.
Li sento, sono qui
accanto a me e non vogliono che né io né Mark
rimaniamo sulla loro isola, sono
anime incattivite che odiano il mondo.
“Fa paura, vista da
qui, vero?
Non c’è neanche una
luce.”
Il tono di Mark è volutamente
leggero, ma qualcosa mi dice che anche lui è inquieto.
Io guardo sotto di
noi e mi chiedo come sia buttarsi da una struttura simile.
{Loro non esistono.
Io sono un uomo di scienza e loro non posso
esistere, una volta morti si diventa polvere, l’anima non
esiste: è solo
un’invenzione dei preti.
L’idea di inferno e paradiso è solo
un’invenzione per far rigare dritto la gente e per prendersi
i loro soldi e
abbellire le chiese.
Eppure…
Eppure ieri sera giurerei di avere sentito la
voce di Marta De Santis, il che non è assolutamente
possibile dato che è morta
due anni fa.
Depressione post partum.
Dopo che non le hanno fatto vedere il bambino
si è semplicemente lasciata a morire a quindici anni, le sue
ultime parole sono
state più o meno queste: preferiva l’inferno al
rimanere in questa strutture.
Non capisco.
Io li curo per non farli impazzire e loro
continuano con la storia dei morti della peste, dicono che li sentono
parlare,
lamentarsi, gemere.
Baggianate.
Sono solo un mucchio di fottute baggianate,
quegli uomini sono polvere da secoli, niente più che polvere.
Eppure…
Sto salendo alla torretta guidato dalla voce di
quella ragazzina sciocca, devo essere impazzito, dovrei essere a letto
a
quest’ora.
Arrivo in cima, da qui Venezia sembra lontana
come se fosse su un altro pianeta, qui c’è solo
buio. Una macchia di tenebra
nella luce del progresso.
Guidato da Marta mi avvicino al parapetto e lo
scavalco, rimanendo a lungo con le gambe a cavalcioni ad ammirare le
stelle.
Era da quando ero bambino che non lo facevo, mio nonno mi mostrava
sempre le
costellazioni e quando è morto sono morte anche loro per me.
Dopo un po’ lasciarsi cadere diventa naturale,
la voce di Marta mi dice che non si prova dolore, che è come
lanciarsi in una
piscina.
Cado.
Per un attimo credo di volare, ma sto cadendo e
l’impatto con il suolo è dolorosissimo, forse se
urlo arriverà qualche
infermiera.
Urlo come un matto, poi taccio all’improvviso.
Dalla vegetazione li vedo arrivare, argentei e
incorporei, ma non per questo meno pericolosi: c’è
Marta, ci sono altri suicidi
e ci sono loro con i loro consunti vestiti settecenteschi che
ghignano maligni.
In un attimo mille mani invisibili si stringono
intorno al mio collo, facendomi soffocare.
Io sto morendo e loro esistono.
Loro esistono.}
“Mark,
ti prego, andiamo
via di qui.
Andiamo all’imbarcadero,
non mi sento molto bene.”
Lui annuisce.
“Scendiamo piano,
questa vecchia baracca potrebbe caderci addosso.”
“Va bene.”
Scendiamo le scale
piano e poi percorriamo a ritroso il corridoio e usciamo dalla finestra
da cui
siamo entrati.
Solo che questa
volta è diverso, questa volta ci sono loro.
Non sono né
argentei né incorporei, hanno un corpo in putrefazione e
sembrano arrabbiati,
molto arrabbiati.
Mark deglutisce.
“Skye, preparati a
combattere.”
“Co-come?”
“Con del fuoco,
tiragli qualcosa in testa. Tira fuori la ribelle che
c’è in te, questi
sanpietrini ci aiuteranno.”
Io raccolgo una
mangiata di sassi e comincio a correre mentre li tiro, forse solo
quelli
dell’68 e i palestinesi sanno cosa significhi avanzare contro
un nemico
pericoloso e superiore a te.
Qualcuno cade,
altri tendono le mani verso di me, io tiro fuori un accendino e si
ritraggono
subito.
Li colpisco con
rabbia, ma ben presto mi trovo circondata e senza armi.
“MARK, MARK,
AIUTAMI!”
Inizio a piangere,
anche io farò parte di quest’isola d’ora
in poi. Quello più vicino a me fa per
mordermi, ma la sua testa esplode, lanciandomi addosso materia morta e
molliccia. Mark fa capolino dietro di lui – ansante
– e mi tende una mano.
Avanziamo un altro
po’ e poi ci sbarrano ancora la strada ringhiando, si mette
male, malissimo!
“Mark, siamo
fottuti!”
“No! Skye, dammi l’accendino!”
Io glielo passo senza fare domande e lui dà fuoco a un
ramo che ha raccolto per terra e poi lo lancia tra le creature creando
panico e
confusione. Noi ne approfittiamo per seguire il sentierino che porta
all’imbarcadero, graffiandoci e rischiando più
volte di inciampare visto che
barcolliamo come due ubriachi e abbiamo uno sguardo un po’
folle.
Spero che il diversivo di Mark duri abbastanza da
permetterci di andarcene, ma come?
Angelo arriverà domani mattina all’alba e
all’imbarcadero
non saremo certo al sicuro, anche quello è territorio degli
zombie.
Mi sta venendo un mezzo infarto quando Mark mi indica una
barchetta, la esamina rapidamente e conclude che può
navigare.
“Adesso saltiamo su questa cosa, ma tu mi devi aiutare
cercando di mettere un attimo da parte il tuo mal di mare. Ne va della
nostra
vita.”
Io annuisco.
“Arriveranno, questi sono altri sassi che ho raccolto in
cortile, tirarglieli dietro e se ci raggiungono a nuoto cacciali con
questo.”
Mi porge un bastone lungo, deve averlo raccolto qui
intorno.
“Va bene, Mark.
Va bene.”
Dico impugnando il bastone.
Io salto in barca, lui scioglie il nodo che la lega al
pontile e salta dentro a sua volta. Mi sembra così piccola e
fragile questa
barca, reggeremo fino ad arrivare al Lido?
Io guardo Mark e lui mi fa cenno di sì e si mette a
remare.
Non ho altro tempo per pensare perché vedo avanzare gli
zombie e le anime perdute verso di noi.
Cerco di mirare alla testa di più zombie possibile e
molti cadono, ma molti si buttano anche in acqua seguiti lentamente
dalle
anime.
Calma, Skye, calma.
Il mio stomaco brontola, ma io lo ignoro, continuo la mia
sassaiola, ma ormai le munizioni si stanno esaurendo.
Li vedo avvicinarsi a noi e colpisco il primo con un
bastone, l’occhio attraversato dal legno fa un
“pop” che mi perseguiterà a
lungo nei miei incubi.
Continuo a colpirli con la forza della disperazione,
lentamente stiamo uscendo dall’area di influenza di Poveglia.
Non faccio tempo a esultare nemmeno per un secondo perché
sento delle mani incorporee che si stringono attorno alla mia gola.
“Mark! L’anima… mi sta….
Strozzando!”
Cerco di togliere quelle mani fredde e forti, ma come faccio
con qualcosa che non ha corpo?
Lotto ancora per un po’, poi il mio campo visivo diventa
nero e capisco che ormai lo spirito ha vinto, sto per morire.
Un colpo improvviso al collo me lo toglie di dosso e io
mi porto le mani al collo respirando a fatica e guardando Mark.
“Ti ho dato un colpo con il bastone…”
“MARK! DIETRO DI TE!”
Urlo con voce roca, lui si volta e colpisce uno zombie al
naso trapassandolo, poi me lo ridà.
“Continua a combattere e io remerò, tra poco
saremo fuori
dalla loro portata o almeno credo.”
Io annuisco e stringo il pezzo di legno con tutta la
forza che ho, i sensi all’erta, pronta a colpire qualsiasi
cosa che tenti di
intralciare il nostro cammino.
Lo sbatto con poca gentilezza sulla testa di uno zombie e
lo mulino davanti a uno spirito urlando.
“Non vogliamo disturbarvi oltre, ce ne stiamo andando,
lasciateci andare!”
Non so se serva, ma parlare mi aiuta a non notare la
stranezza della situazione e a non impazzire: sono su una piccola barca
in
mezzo al mare a lottare con degli zombie, un’occupazione
normalissima. Tutti,
almeno una volta nella vita, l’hanno fatto.
Dio, come mi manca l’Inghilterra!
Continuo a distribuire colpi e a cercare di evitare che
mi strozzino fino a
quando la spiaggia
del lido non sembra così lontana.
L’ultimo zombie che ci segue lancia un grido acuto da far
gelare il sangue e l’esercito di Poveglia si ritira nel
quartier generale.
Mark continua a remare ansimando – la spiaggia è a
meno
di cinquecento metri – io invece vomito due volte prima che
l’imbarcazione si
incagli sul fondo.
Mio marito è costretto a prendermi in braccio per tirarmi
fuori dalla barca, entrambi ci buttiamo sulla spiaggia, senza fiato,
spaventati
e pieni di lividi e graffi.
Sembriamo due reduci di guerra.
Non so quanto rimaniamo lì, ma quando finalmente ci
rialziamo la luna sta tramontando.
Lui mi prende per mano e ci dirigiamo al nostro hotel,
per oggi abbiamo avuto abbastanza avventure.
Angolo di Layla
Ringrazio tantissimo MorgueTomi, staywith_men e DeliciousApplePie per le recensioni. Spero che questo non vi deluda.