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Autore: Layla    09/12/2013    3 recensioni
"Lui sbuffa.
“Va bene, perché passare la notte in un comodo letto quando possiamo passare la notte all’addiaccio su un’isola stregata?
Io rido.
“Chiamo la babysitter per Jack allora.”
“Chiamala, chiamala.”

{Dal primo capitolo.
Skye/Mark
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Mark Hoppus
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Poveglia II (l'inferno è vuoto, tutti i diavoli sono qui).

 

La puntualità è una bellissima dote, peccato che non sia nostra.
Nonostante i miei tentativi arriviamo comunque con un quarto d’ora di ritardo, il ragazzo sta già camminando avanti e indietro.
“Eccoci! Scusa per il ritardo.”
“Figuratevi. Io sono Angelo, piacere.
Uhm, anche se non so se vi faccio un favore portandovi lì.”
Il grumo di ansia nella mia pancia morde più forte che mai.
“Certo che sei alto, Mark Hoppus!”
Mio marito ride.
“Vuoi una foto con l’autografo?”
“Mi farebbe piacere.”
Angelo annuisce, lui e Mark si mettono in posa e io scatto una foto che Mark firma.
Tutto nella norma, ma cos’è questo sottile senso di paura che si sta impossessando sempre più di me?
È la continuazione dell’ansia di questo pomeriggio?
È paura nuova?
Salgo sulla barca insieme a Mark e ad Angelo e prego che il mio mal di mare mi dia tregua e non mi faccia vomitare.
Pia speranza, la barchetta di Angelo non è un traghetto e non appena si mette a remare sento la mia cena protestare, giù nel profondo del mio stomaco.
Mi rannicchio tra le braccia di Mark e prego che non ci voglia molto a raggiungere Poveglia, non vorrei vomitare addosso a mio marito, è finita da un bel po’ era di vomitare sulle persone.
Finalmente sento la barca fermarsi, Angelo la fa attraccare a un porticciolo e poi ci aiuta a scendere. Io sto troppo male, sento solo lui e Mark che parlano per qualche minuto e poi il rumore dei remi che ritmicamente entrano nell’acqua ed escono.
Io rimango seduta per un po’ sul pontile per farmi passare il mal di mare, intanto la notte cala sulla laguna, si accendono le luci e le stelle, noi siamo in un vasto angolo di buio.
Da noi nessuna luce si accenderà e ho il sospetto che persino le stelle e la luna nascente non amino illuminare questo posto.
In ogni caso siamo qui e non possiamo tirarci indietro.
“Skye? Stai meglio ora?”
Io mi alzo in piedi leggermente barcollante.
“Sì, Mark andiamo.”
Scendiamo dal pontile e seguiamo un sentierino semi invaso dalle erbacce che ci porta dentro l’isola. Anni di incuria hanno fatto crescere piante e piantine rigogliose, ma non è una buona cosa, sembra che non vogliano essere penetrate. Se non avessi paura di passare per pazza giurerei che ci stiano sussurrando di tornare indietro finché siamo in tempo.
“Ahi!”
Esclama Mark.
“Cosa è successo?”
“Questo ramo ha tentato di accecarmi.”
Io sospiro piuttosto inquieta, poco prima una radice ha tentato di farmi cadere a terra e poi c’è troppo buio.
Troppo troppo buio e non si sente il rumore di qualche forma di vita, solo il rumore dei nostri passi che avanzano lenti nella selva.

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura

ché la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura

esta selva selvaggia e aspra e forte

che nel pensier rinova la paura”

La mia mente paranoica recita i versi del primo canto dell’inferno di Dante, il che la dice lunga, visto che probabilmente siamo solo impantanati in un po’ di vegetazione incolta.
Finalmente vediamo la luce.
Usciti dalla vegetazione troviamo un cortile che anticamente doveva essere lastricato di pietre, ma che ora è in balia dell’erba.  È bianco e riluce quasi malefico – come il ghigno di un gigantesco lupo –  e dietro al cortile c’è un edificio lungo con delle finestre mezze rotte.
“Siamo arrivati al manicomio.”
Mi dice Mark.
“Andatevene!”
Urla una voce che fa gelare il sangue nelle vene, seguita da un coro di macabre voci che ripetono la stessa cosa. Non siamo i benvenuti qui, dobbiamo andarcene.
“Li hai sentiti anche tu?”
Chiedo a Mark, che annuisce.
“Sì, ma potrebbe essere una nostra suggestione, no?”
Lo dice poco convinto.
“Beh, allora andiamo avanti.”
Percorriamo il cortile e si sentono solo i nostri passi rimbombare, guidati dalla gelida luce della luna, le pietre scricchiolano leggermente.
All’improvviso si alza un vento freddo, un vento che ci vuole rispedire dritti nella vegetazione  e poi all’imbarcadero. Io e Mark avanziamo a fatica, le braccia davanti al volto e i cuori in tumulto.
Arriviamo alla struttura e troviamo una finestra rotta per entrare, un volta dentro rimaniamo almeno cinque minuti a scaldarci, stringendoci in un abbraccio convulso.
Inizio ad avere paura.
Mi sento come Gretel, dispersa nel mondo grande e pauroso, mi pento di aver proposto questa gita, ma tant’è, ormai siamo qui.
Mark tira fuori una pila e ci guardiamo in giro, siamo in un lungo corridoio che in origine doveva essere dipinto di un azzurro tenue, ora è per metà invaso dalla vegetazione e per metà sporco, qua e là si legge anche qualche scritta, il soffitto sopra di noi sembra reggere e scopriamo di trovarci sotto un grande lampadario.
Percorriamo per un po’ il corridoio, cercando di ignorare le voci che – intorno a noi – ci dicono di andarcene e arriviamo davanti alla porta di una camera.
Con grande attenzione la apro, ma il cigolio che emette è comunque assordante e inquietante in questo grande silenzio carico di minaccia che ci avvolge.
La stanza non è molto grande, ha una finestra in cui dell’edera scura striscia all’interno, c’è un armadio caduto in pezzi, un tavolo che ha fatto la stessa fine, una sedia e un letto di metallo senza materasso o altro. È parecchio arrugginito.

{Sono legata al letto e non posso scappare, presto il dottore arriverà di nuovo, Dio se ci se aiutami!
Non voglio che giochi ancora con la mia mente, non voglio subire un altro elettroshock!
Io sto bene, è solo quest’isola che mi rende strana, ma rende tutti strani.
Loro ci sono anche se il direttore lo nega.
Loro ci sono e si vendicheranno.
La porta si apre, il dottore mi controlla e poi scrive qualcosa sul suo blocco.
“Madre Luisa, la prepari. In serata subirà probabilmente un altro elettroshock.”
Dio, ti prego, no.
Dio, ti prego liberami!
Lacrime silenziose scendono sulle mie guance.}

“Skye?
Perché piangi?”
“Ho visto…. Ho visto cosa facevano qui e Dio è orribile.”
Mark mi prende tra le braccia.
 

Alla fine del corridoio le presenze rumoreggiano di più, sembra quasi che si stiano chiamando a raccolta per cacciarci.
Sopra l’inizio del corridoio è dipinto in blu “Reparto psichiatrico.”, credo sia qualcosa in italiano per indicare che dà lì in poi inizia il manicomio.
Siamo arrivati alla hall, io mi infilo nel banco della hall, Mark in una stanzetta lì vicino.
Poco dopo Mark arriva reggendo fascicoli consunti dal tempo, scritti in italiano e con una bella grafia, sono datati più o meno tutti agli anni ’20 e molti dei pazienti sono donne.
Donne che sfoggiano un’espressione spaventata per la maggior parte delle foto e imbambolata solo per alcune.
Qualcuna ha i capelli lunghi, qualcuna corti.
Sono tutte morte, è un quaderno dei morti e se sapessi un po’ di italiano leggerei le loro storie, ne metto alcuni in borsa e poi torno alla mia postazione.
Da lì vedo la porta, un tempo doveva essere stata in elegante stile liberty –  lo si intuisce dalle curve dell’architettura e dai pochi pezzi di vetro colorato che ancora la decorano – un tappeto consunto e un divanetto squarciato color crema.
Mi appoggio un attimo, giusto per riposarmi.

{Entra l’ennesima famiglia di borghesi con una ragazzina al seguito. Indossa un vestito turchese e si divincola, ha una pancia che è contenuta a malapena dal vestito.
La guardo negli occhi, ha paura, sa che qui vivrà l’inferno, come succede a tutte quelle come lei che vengono qui. Sono segretaria in questo posto da anni ormai e conosco i tipi di pazienti.
La sera la ragazzina è ricoverata, indossa un largo camice bianco, io leggiucchio la sua documentazione.
Si chiama Marta De Santis ha solo quindici anni e ha una non specificata forma di isteria, in realtà è qui perché è incinta e il padre è un ragazzo della sua età che scarica casse al mercato del pesce.
La famiglia ha voluto liberarsi di lei mandandola in manicomio, non è la prima e non sarà l’ultima.
Entrano normali ed escono pazze.
Se si è in un manicomio sani c’è un’alta possibilità di impazzire, se questo manicomio si trova su una vecchia isola infestata dai fantasmi e in cui puoi inciampare in pezzi di scheletri umani se fai un giro in giardino, dare di matto è una certezza.
Guardo Marta con pietà, vorrei che le famiglie non ricorressero a queste soluzioni così drastiche, sentendosi osservata la ragazzina viene da me.
“Quando avrò partorito potrò almeno vedere mio figlio.”
Io rimango in silenzio per un attimo, la risposta corretta sarebbe “no”, ma dirgliela equivarrebbe a distruggerla.
“Non lo so, devo parlarne con il direttore.”
Lei se ne va sconsolata.
Odio il mio lavoro.}

Decidiamo di salire sulla torre dell’istituto, Mark davanti a me mi guida con la luce della torcia, che sembra spettrale. Il richiamo dei morti si fa più forte e ritmico.
Sì, si stanno chiamando a raccolta come le antiche tribù guerriere dell’Africa, solo che invece dei tamburi usano questo strano modo a metà tra un gemito e un ululato.
Arriviamo in cima e respiriamo con gratitudine l’aria fresca.
Sotto di noi vediamo la struttura lunga, qualcuno sui tetti ha dimenticato dei barbecue, segno che qualche pazzo è venuto a farsi una grigliata qui.
Non so come facciano, io ho paura.
Io li sento e non scherzo.
Sento il dolore e il desiderio di vendetta.
Ci sono uomini che sono stati portati sani su quest’isola, semplicemente sospettati di avere la peste che gridano vendetta, ci sono le pazienti come Marta che gridano  giustizia per il trattamento da loro subito.
Li sento, sono qui accanto a me e non vogliono che né io né Mark rimaniamo sulla loro isola, sono anime incattivite che odiano il mondo.
“Fa paura, vista da qui, vero?
Non c’è neanche una luce.”
Il tono di Mark è volutamente leggero, ma qualcosa mi dice che anche lui è inquieto.
Io guardo sotto di noi e mi chiedo come sia buttarsi da una struttura simile.

{Loro non esistono.
Io sono un uomo di scienza e loro non posso esistere, una volta morti si diventa polvere, l’anima non esiste: è solo un’invenzione dei preti.
L’idea di inferno e paradiso è solo un’invenzione per far rigare dritto la gente e per prendersi i loro soldi e abbellire le chiese.
Eppure…
Eppure ieri sera giurerei di avere sentito la voce di Marta De Santis, il che non è assolutamente possibile dato che è morta due anni fa.
Depressione post partum.
Dopo che non le hanno fatto vedere il bambino si è semplicemente lasciata a morire a quindici anni, le sue ultime parole sono state più o meno queste: preferiva l’inferno al rimanere in questa strutture.
Non capisco.
Io li curo per non farli impazzire e loro continuano con la storia dei morti della peste, dicono che li sentono parlare, lamentarsi, gemere.
Baggianate.
Sono solo un mucchio di fottute baggianate, quegli uomini sono polvere da secoli, niente più che polvere.
Eppure…
Sto salendo alla torretta guidato dalla voce di quella ragazzina sciocca, devo essere impazzito, dovrei essere a letto a quest’ora.
Arrivo in cima, da qui Venezia sembra lontana come se fosse su un altro pianeta, qui c’è solo buio. Una macchia di tenebra nella luce del progresso.
Guidato da Marta mi avvicino al parapetto e lo scavalco, rimanendo a lungo con le gambe a cavalcioni ad ammirare le stelle. Era da quando ero bambino che non lo facevo, mio nonno mi mostrava sempre le costellazioni e quando è morto sono morte anche loro per me.
Dopo un po’ lasciarsi cadere diventa naturale, la voce di Marta mi dice che non si prova dolore, che è come lanciarsi in una piscina.
Cado.
Per un attimo credo di volare, ma sto cadendo e l’impatto con il suolo è dolorosissimo, forse se urlo arriverà qualche infermiera.
Urlo come un matto, poi taccio all’improvviso.
Dalla vegetazione li vedo arrivare, argentei e incorporei, ma non per questo meno pericolosi: c’è Marta, ci sono altri suicidi e ci sono loro con i loro consunti vestiti settecenteschi che
ghignano maligni.
In un attimo mille mani invisibili si stringono intorno al mio collo, facendomi soffocare.
Io sto morendo e loro esistono.
Loro esistono.}

“Mark, ti prego, andiamo via di qui.
Andiamo  all’imbarcadero, non mi sento molto bene.”
Lui annuisce.
“Scendiamo piano, questa vecchia baracca potrebbe caderci addosso.”
“Va bene.”
Scendiamo le scale piano e poi percorriamo a ritroso il corridoio e usciamo dalla finestra da cui siamo entrati.
Solo che questa volta è diverso, questa volta ci sono loro.
Non sono né argentei né incorporei, hanno un corpo in putrefazione e sembrano arrabbiati, molto arrabbiati.
Mark deglutisce.
“Skye, preparati a combattere.”
“Co-come?”
“Con del fuoco, tiragli qualcosa in testa. Tira fuori la ribelle che c’è in te, questi sanpietrini ci aiuteranno.”
Io raccolgo una mangiata di sassi e comincio a correre mentre li tiro, forse solo quelli dell’68 e i palestinesi sanno cosa significhi avanzare contro un  nemico pericoloso e superiore a te.
Qualcuno cade, altri tendono le mani verso di me, io tiro fuori un accendino e si ritraggono subito.
Li colpisco con rabbia, ma ben presto mi trovo circondata e senza armi.
“MARK, MARK, AIUTAMI!”
Inizio a piangere, anche io farò parte di quest’isola d’ora in poi. Quello più vicino a me fa per mordermi, ma la sua testa esplode, lanciandomi addosso materia morta e molliccia. Mark fa capolino dietro di lui – ansante – e mi tende una mano.
Avanziamo un altro po’ e poi ci sbarrano ancora la strada ringhiando, si mette male, malissimo!
“Mark, siamo fottuti!”

“No! Skye, dammi l’accendino!”
Io glielo passo senza fare domande e lui dà fuoco a un ramo che ha raccolto per terra e poi lo lancia tra le creature creando panico e confusione. Noi ne approfittiamo per seguire il sentierino che porta all’imbarcadero, graffiandoci e rischiando più volte di inciampare visto che barcolliamo come due ubriachi e abbiamo uno sguardo un po’ folle.
Spero che il diversivo di Mark duri abbastanza da permetterci di andarcene, ma come?
Angelo arriverà domani mattina all’alba e all’imbarcadero non saremo certo al sicuro, anche quello è territorio degli zombie.
Mi sta venendo un mezzo infarto quando Mark mi indica una barchetta, la esamina rapidamente e conclude che può navigare.
“Adesso saltiamo su questa cosa, ma tu mi devi aiutare cercando di mettere un attimo da parte il tuo mal di mare. Ne va della nostra vita.”
Io annuisco.
“Arriveranno, questi sono altri sassi che ho raccolto in cortile, tirarglieli dietro e se ci raggiungono a nuoto cacciali con questo.”
Mi porge un bastone lungo, deve averlo raccolto qui intorno.
“Va bene, Mark.
Va bene.”
Dico impugnando il bastone.
Io salto in barca, lui scioglie il nodo che la lega al pontile e salta dentro a sua volta. Mi sembra così piccola e fragile questa barca, reggeremo fino ad arrivare al Lido?
Io guardo Mark e lui mi fa cenno di sì e si mette a remare.
Non ho altro tempo per pensare perché vedo avanzare gli zombie e le anime perdute verso di noi.
Cerco di mirare alla testa di più zombie possibile e molti cadono, ma molti si buttano anche in acqua seguiti lentamente dalle anime.
Calma, Skye, calma.
Il mio stomaco brontola, ma io lo ignoro, continuo la mia sassaiola, ma ormai le munizioni si stanno esaurendo.
Li vedo avvicinarsi a noi e colpisco il primo con un bastone, l’occhio attraversato dal legno fa un “pop” che mi perseguiterà a lungo nei miei incubi.
Continuo a colpirli con la forza della disperazione, lentamente stiamo uscendo dall’area di influenza di Poveglia.
Non faccio tempo a esultare nemmeno per un secondo perché sento delle mani incorporee che si stringono attorno alla mia gola.
“Mark! L’anima… mi sta…. Strozzando!”
Cerco di togliere quelle mani fredde e forti, ma come faccio con qualcosa che non ha corpo?
Lotto ancora per un po’, poi il mio campo visivo diventa nero e capisco che ormai lo spirito ha vinto, sto per morire.
Un colpo improvviso al collo me lo toglie di dosso e io mi porto le mani al collo respirando a fatica e guardando Mark.
“Ti ho dato un colpo con il bastone…”
“MARK! DIETRO DI TE!”       
Urlo con voce roca, lui si volta e colpisce uno zombie al naso trapassandolo, poi me lo ridà.
“Continua a combattere e io remerò, tra poco saremo fuori dalla loro portata o almeno credo.”
Io annuisco e stringo il pezzo di legno con tutta la forza che ho, i sensi all’erta, pronta a colpire qualsiasi cosa che tenti di intralciare il nostro cammino.
Lo sbatto con poca gentilezza sulla testa di uno zombie e lo mulino davanti a uno spirito urlando.
“Non vogliamo disturbarvi oltre, ce ne stiamo andando, lasciateci andare!”
Non so se serva, ma parlare mi aiuta a non notare la stranezza della situazione e a non impazzire: sono su una piccola barca in mezzo al mare a lottare con degli zombie, un’occupazione normalissima. Tutti, almeno una volta nella vita, l’hanno fatto.
Dio, come mi manca l’Inghilterra!
Continuo a distribuire colpi e a cercare di evitare che mi strozzino fino  a quando la spiaggia del lido non sembra così lontana.
L’ultimo zombie che ci segue lancia un grido acuto da far gelare il sangue e l’esercito di Poveglia si ritira nel quartier generale.
Mark continua a remare ansimando – la spiaggia è a meno di cinquecento metri – io invece vomito due volte prima che l’imbarcazione si incagli sul fondo.
Mio marito è costretto a prendermi in braccio per tirarmi fuori dalla barca, entrambi ci buttiamo sulla spiaggia, senza fiato, spaventati e pieni di lividi e graffi.
Sembriamo due reduci di guerra.
Non so quanto rimaniamo lì, ma quando finalmente ci rialziamo la luna sta tramontando.
Lui mi prende per mano e ci dirigiamo al nostro hotel, per oggi abbiamo avuto abbastanza avventure.

Angolo di Layla

Ringrazio tantissimo MorgueTomi, staywith_men e DeliciousApplePie per le recensioni. Spero che questo non vi deluda.

   
 
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