Fanfic su attori > Ben Barnes
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Autore: saraviktoria    10/12/2013    2 recensioni
Dal prologo:
"oddio, chi lo vorrebbe morto?"
"tanto per fare un esempio? Io " certe volte era proprio una bambina. Stava a me riportarla con i piedi per terra. Ma al nostro capo non piaceva molto il mio modo di fare. Era lì, seduto dietro la scrivania, che ci guardava beccarci come due galline. È che proprio non la sopportavo. Ma dico io, con tutta la gente che lavora qui, proprio lei dovevo beccarmi? E, come se non bastasse, adesso anche questo. Avevo ventotto anni, avevo passato due anni a fare l'addestramento a Norfolk, diciotto mesi di servizio attivo a bordo della Enterprise, sei sulla Kitty Hawk, prima di diventare un agente di servizio ordinario della CIA. E ora mi sarebbe toccato fare da baby-sitter a un attore strapagato, viziatissimo e pieno di sé?
Genere: Azione, Erotico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon, Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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buonasera a tutte/i!
oggi vi lascio ben tre capitoli, e un nuovo colpo di scena... dato che, settimana prossima sarò piuttosto impegnata, e non credo che avrò tempo per aggiornare
buona lettura
baci
SaraViktoria


-37: Yvonne

"Halo?"

"Chantal, tesoro … " era mia madre. E qualcosa, nel suo tono di voce non mi convinceva

"è successo qualcosa? Mamma!" iniziò a singhiozzare

"Yvonne" riuscì a dire

"Yv cosa? Mamma, mi vuoi dire cos'è successo a mia sorella?" non faceva mai così, i miei genitori cercavano sempre di dirmi tutto. E io stavo andando nel panico.

"l'hanno investita, qualche ora fa. Il conducente si è fermato, ha chiamato l'ambulanza. Ma …. " le si spense la voce. Ti prego, dimmi che sta bene. Non è successo niente, mamma, dimmi che sta bene …

"ma cosa, mamma?" non potevo, non volevo capire.

"è morta, Chantal. Yvonne non c'è più" era mio padre. Lui riusciva sempre a mantenere la calma, lui piangeva ma trovava sempre la forza per parlare.

Lacrime calde iniziarono a scendermi sul viso, senza che potessi fermarle. La vita di mia sorella era sempre stata legata da un doppio filo alla mia. Nonostante ci vedessimo poco, sapevamo che non avremmo potuto  vivere senza l'altra. No, non era possibile. Non poteva essere possibile. Artigliai le mani alla ringhiera che avevo davanti e in quel momento ricordai che ero su una specie di terrazza. c'era silenzio, un silenzio innaturale che aumentava il mio dolore. NO! Volevo urlare, correre senza fermarmi più.

Sapevo cosa avrei dovuto fare. Dovevo andare in Canada, dalla mamma, da papà, da lei. Da quello che rimaneva di lei. Ma non avevo la forza di farlo, non riuscivo a muovermi di lì, non sapevo fare altro che piangere.

"Chantal?" mi chiamava una voce, un marcato accento inglese. Non volevo rispondere, men che meno a lui.

"Barnes, vattene" disse qualcosa. Faceva freddo, intuii tra le varie parole che uscivano dalla sua bocca. Poi mi vide in faccia e si zittì. "vattene" ripetei, sperando che mi ascoltasse. E invece, in un attimo mi fu vicino, le sue mani intorno alla mia vita. In condizioni normali gli avrei fatto male

"Chantal cos'è successo?" non riuscii più a fermare le lacrime, forse perché quel suo modo di interessarsi alle persone mi ricordava tanto quello di mia sorella, con un carattere così diverso dal mio.

"Yvonne … " balbettai tra le lacrime, la testa appoggiata su quella che -lo capii dopo- era la sua camicia. Ovviamente non poteva sapere chi fosse Yvonne, ma non fece domande

"devi tornare a casa?" chiese solamente. Riuscii ad annuire, o lo capì dalla mia espressione "andiamo" nonostante tutto, mi ci volle poco per registrare quell'assurdità

"d-devo andare in Canada"

"lo so. Vieni " non capivo dove volesse andare a parare, e la mia confusione aumentò quando mi fece sedere nella sua macchina. Anch'io sarei voluta andare subito a casa, ma c'era un piccolo problema, anzi, forse più di uno. Era sabato e ciò, in Virginia, significa aeroporti congestionati fino a lunedì. Come se non bastasse, in città c'erano molte feste, come quella a cui avevamo partecipato noi, uguale: impossibilità di trovare un biglietto aereo. Infine, avevo pensato di andarci in auto ma, oltre a non avere un auto -perché non mi piaceva guidare - il mio odio per la guida mi impediva di guidare senza crollare per più di una decina di miglia. Per arrivare in Canada ci volevano undici ore. E me lo avrebbe impedito anche il primo poliziotto che mi avesse fermato in quello stato. Seduta nell'abitacolo, sentivo le voci della festa ovattate, come da una radio male sintonizzata.

Barnes tornò in auto poco dopo. Prese posto alla guida e mise in moto.

"dove stiamo andando?" chiesi, asciugandomi le lacrime con un fazzoletto che qualcuno mi aveva provvidenzialmente messo in 'borsa'.

"a casa tua"

"voglio andare in Canada" mormorai, come una bambina capricciosa

"appunto" non mi diede altre spiegazioni, ed ero troppo sconvolta per fare domande. Entrò in quella che mi sembrava la 495 nord, e allora riuscii ad aprire bocca

"dove stiamo andando?" chiesi di nuovo

"a casa tua, Chantal" ma grazie! Me lo aveva già detto! "in Canada" precisò, vedendomi aprire di nuovo la bocca.

"in auto?"

"posso guidare per dieci ore" spiegò

"grazie" fu tutto quello che riuscii a dire. 

 

38-e io, che di ambizioni non ne avevo, che vivevo giusto perché mi trovavo lì e qualcosa dovevo pur fare, ero ancora qua.

Non parlammo per gran parte del viaggio. In fondo, pensai, doveva volermi bene. O non avrebbe fatto tutto questo per me.

Era, forse, la prima persona che dimostrava affetto nei miei confronti, negli ultimi anni. Soprattutto perché avevo fatto di tutto pur di allontanare gli altri da me. Perché credevo che rimanendo sola non avrei sofferto. Quanto mi ero sbagliata! Quanto tempo sprecato a chiudermi in me stessa, invece di provare a vivere. Veramente, non come avevo fatto fino ad allora.

E pian piano ero rimasta senza amici, Anne che mi sopportava perché dovevamo lavorare insieme, i miei colleghi che nemmeno mi salutavano, le compagne dell'accademia che spesso dimenticavo di chiamare. Due anni prima mi ero fatta una solenne promessa: buttarmi a capofitto nel lavoro, dimenticarmi del resto, perché il 'resto' fa soffrire. Yvonne mi aveva riso dietro e l'avevo lasciata fare. Ma lei, la mia gemella adorabile, aveva ragione. Sempre. Lei, innamorata dell'amore e di quel principe azzurro che prima o poi sarebbe passato a prenderla, ti diceva la verità tra una risata e l'altra. Vedeva la vita in modo semplice, dove due più due fa sempre quattro, senza variabili impazzite, prevedeva le conseguenze delle cose, ma non si arrabbiava se poi non andava così. Faceva un lavoro - l'agente immobiliare-  che le imponeva di stare a contatto con le persone, indovinare i loro desideri, e soddisfarli. Era più o meno quello che facevo io, solo più sicuro.

Sarei dovuta morire io, per tutte le volte che le avevo risposto male, per tutte le volte che mi aveva aiutato, per tutti i favori che le dovevo, per come mi aveva aiutato a riprendermi dopo il processo, per gli insulti che propinava a Smith quando io li esaurivo. Perché lei si meritava di vivere, di sposarsi, di avere i figli che tanto desiderava. E io, che ambizioni non ne avevo, che vivevo giusto perché mi trovavo lì e qualcosa dovevo pur fare, ero ancora qua. Non era giusto. Per niente.

Mi diceva sempre di non disperare, che avrei trovato anch'io l'uomo giusto per me, quando entrambe sapevamo che non esisteva uomo in America in grado di sopportarmi. Mi diceva che ero speciale, quando la donna incredibile era lei.

"ti ho preso questi" Barnes mi porse un sacchetto. Non mi ero nemmeno accorta che si era fermato.

"dove siamo?" chiesi, stupita, guardandomi intorno

"vicino alla frontiera. Come va?" non mi ero accorta che erano già passate tante ore, che non dovevano mancare più di tre o quattro ore di viaggio. Inclinai la testa, aprendo il sacchetto. Erano un paio di jeans e una maglietta nera, a maniche lunghe "spero di aver azzeccato la taglia" alzai la vita dei jeans all'altezza dei miei occhi, annebbiati dalle lacrime.

Si fermò un'altra volta, dopo aver passato il cartello con la scritta Quebec. E mi fece scendere.

"vai a cambiarti, che dopo ti devo parlare" disse, dandomi una piccola spinta verso i bagni. Era una stazione di servizio molto pulita e ordinata, con quattro bagni pubblici bianchi e blu. Chiusi a chiave la porta e mi cambiai. La taglia era giusta e quasi riuscii a sorridere. Cacciai senza troppe cerimonie l'abito lilla e la borsetta nel sacchetto di carta e, quando uscii, una donna intenta a lavarsi le mani mi fissò, strabuzzando gli occhi.

Mi incamminai verso l'auto, dove Barnes mi aspettava, appoggiato al cofano

"vieni qua" mi fece sedere accanto a lui "ora che ti sei un po' calmata, mi racconti cos'è successo? E chi è Yvonne?" in quel momento fui piena di gratitudine verso quell'uomo che mi aveva portato in Canada senza sapere nemmeno il perché.

"Yvonne è.. Era mia sorella. l'hanno investita ieri pomeriggio" le lacrime tornarono a scendere. Non riuscivo nemmeno a pronunciare il suo nome. Mi strinse dolcemente a sé. Avevo dimenticato che esistessero dei gesti così confortanti.

"quanti anni aveva?"

"la mia stessa età. Siamo … eravamo gemelle" non riuscivo a parlare di lei come di qualcosa di passato.

 

40-era l'inizio di una nuova giornata, una giornata che non avevo voglia di vivere.

Lei è. Faceva parte di me, ora e per sempre.  Presi una foto dal portafoglio, un piccolo cartoncino sgualcito che mi portavo sempre dietro. Eravamo due gocce d'acqua e il tempo non ci aveva cambiate. Sorridevamo, ricordavo bene l'occasione in cui ci avevano scattato quella foto: eravamo nel parco intorno alla casa dei nostri genitori, dalla parte della strada. Passando, una donna in auto si era fermata a guardarci, scuotendo più volte la testa. Alla domanda di mia madre, aveva spiegato che le eravamo sembrate un effetto ottico. Beh, certo. Mia mamma, come la maggior parte dei genitori di  gemelle, aveva la pessima abitudine di vestirci uguali, tanto che a volte papà faticava a distinguerci.

Crescendo eravamo cambiate ma, viste vicine, stesso taglio di capelli, stessa corporatura. Ma espressione diversa. Perché lei sorrideva sempre, io ero quella imbronciata.

Barnes mi asciugò le ultime lacrime con un bacio e rimasi così per un po'. Vedevo il sole sopra di me, salire lentamente. Era l'inizio di una nuova giornata, una giornata che non avevo voglia di vivere. Mancava qualcosa, lo sentivo. E la cosa peggiore era che sapevo cosa mi mancava, che il mio primo pensiero al mattino e la persona a cui mi rivolgevo inconsciamente quando ero arrabbiata, quando avevo bisogno di conforto, di un consiglio, ora non c'era più.

Fuori dall'ospedale di Mirabel c'erano una decina di persone, lo sguardo basso, il morale sottoterra. La camera mortuaria era uno di quei posti capaci di toglierti la voglia di vivere, facendoti capire che, prima o poi, lì ci saresti stata tu.

Ero sempre riuscita  a evitare di vedere la bara aperta, quando moriva qualche parente. Preferivo ricordarlo com'era in vita, piuttosto che lì, freddo, blu, silenzioso, immobile. Ma questa volta dovevo andare, lo sentivo.

Dietro la bara in mogano c'era mia madre, che piangeva con la faccia nascosta nel fazzoletto e mio padre, silenzioso dietro di lei, che di tanto in tanto di asciugava gli occhi, cercando di non farsi vedere. Intorno, qualche cugino, persone che avevo visto si e no due volte, lo zio Daniel e la nonna Grace, in lacrime tra le braccia del suo primo figlio.

Non salutai, non riuscivo a parlare. Tra l'altro, niente di quello che avrei potuto dire sarebbe servito. Rimasi in piedi all'altezza del viso di Yvonne. Portava un vestito elegante, da cerimonia. Pantaloni e giacca color ghiaccio. Sotto, una camicia nera. Sembrava serena, spensierata come la ricordavo, ma era vuota. Questa constatazione fece scendere nuove lacrime

"Yv … " mormorai a mezza voce, turbata di rompere quel silenzio fatto di singhiozzi e lacrime asciugate in fretta. Dopo qualche ora -o forse parecchi giorni di sole - mi accorsi che molti se n'erano andati, compresi i miei genitori. Ma potevo sentire mia mamma piangere lì vicino. Presi posto su una sedia lasciata in un angolo

"avanti, Yvonne, cosa ti è successo? Tu non dovevi morire, stavi aspettando il principe azzurro, ricordi?" mi fermai. Sapevo che era inutile parlare con un cadavere, che tanto non mi avrebbe risposto, ma non riuscivo a fermarmi. Dovevo scusarmi, dovevo dirle tutto quello che non avevo avuto il tempo di dirle quando poteva ancora rispondermi.  "c'era l'uomo giusto per te, da qualche parte. Magari non era neppure troppo lontano … ero io quella destinata a rimanere sola. Come dicevi sempre tu, non c'è uomo che mi sopporta, in America " a dire la verità diceva anche un'altra cosa, che mi tornò in mente solo in quel momento. Quando arrivavamo alla conclusione che, sul territorio americano, non c'era uomo che potesse resistere con me, lei saltava su con un 'basta allargare gli orizzonti, c'è anche l'Europa!'

c'è anche l'Europa, certo. Ma, nonostante avessi viaggiato, la mia metà non l'avevo ancora trovata.

Dopodiché, quando ebbi esaurito le parole, rimasi in silenzio, a piangere, nascosta dalle mie stesse braccia.

'basta allargare gli orizzonti, c'è anche l'Europa!'

"Chantal, andiamo" non mi ero accorta che fosse rimasto lì, ma mi serviva qualcuno che mi riportasse alla realtà, o sarei rimasta lì in eterno. Quando uscimmo mi accorsi che era sera, e iniziava a fare freddo. Me ne accorsi perché Barnes accese il riscaldamento, prima di mettere in moto

"ti porto a casa …. Ci sono alberghi qui vicino?" ci misi qualche secondo a registrare tutta la frase.

"non se ne parla!" esclamai, contrariata "tu dormi da noi"

"non voglio disturbare"

"e io non voglio dormire" ribattei, cercando di non guardarlo. Mi accorsi troppo tardi del doppio senso della mia frase e del fatto che, forse, avrei preferito non dover passare la notte a parlare.

Avevo bisogno di distrarmi, dovevo tirarmi su. Sapevo per esperienza che dovevo superare la cosa subito,  o me la sarei trascinata per anni, finendo per trasformarla in un'ossessione. Yvonne sarebbe rimasta in me, era la parte di me che sapeva ridere, quella che si prendeva in giro da sola, quella vocina nella mia testa che mi avevano detto si chiama coscienza, e che mi fermava prima che facessi qualche cazzata. Non credevo nel karma, ne tantomeno in Dio, mi fidavo solo di quello che potevo vedere e toccare, ma ero altresì convinta che fosse stata la voce di Yvonne a portarmi nel letto di Barnes, la prima volta.

'basta allargare gli orizzonti, c'è anche l'Europa!'

"vuoi una camomilla, un the? Mamma!" era seduta sulla poltrona, intenta a fissare qualcosa che io non potevo vedere.

"sì, tesoro?" chiese, stupita

"niente, maman" risposi, alzando gli occhi al cielo. Poi mi sedetti di fianco a lei, chiamando a raccolta il tatto e la gentilezza che non avevo "ascoltami" si girò verso di me "so che è difficile, so che ti fa male. Ma non puoi continuare così. Mangia qualcosa, fatti una doccia, vai a dormire. Devi farlo per lei, intesi?" annuì, alzandosi. Controllai che entrasse in bagno e riempisse la vasca, poi la affidai a papà, decisamente più lucido di lei.

Yvonne aveva sempre vissuto con loro e, per quanto mia madre potesse essersi abituata ad avere una sola figlia per casa, la perdita di Yvonne -lo sapevo- significava vuoto. Sarebbero rimasti solo loro due, perché io dovevo tornare in America. Non ero mai riuscita a resistere per più di un mese in quella casa, ero la donna errante, quella che a casa non ci sa stare. Ero sempre stata così. Forse ero fatta male.

Andai di sopra con due tazze di the, fumanti. Barnes era fermo davanti alla camera di Yvonne, guardando all'interno ma senza entrare.

"cosa c'è?" si girò verso la porta di fronte: camera mia. Poi rifece dietrofront.

"niente …. "

"cosa c'è?" chiesi. La sua risposta non mi convinceva. Aspettò che fossimo seduti sul mio letto, prima di parlare di nuovo.

"siete così simili, e allo stesso tempo così diverse … "

"da piccole eravamo identiche. Mia madre ci aveva cresciuto in modo che avessimo lo stesso carattere. Inutile dire che ha fallito miseramente. "

"perché ti chiami Chantal?"

"perché ti chiami Ben?" ripresi, perché capisse l'assurdità della domanda. Non lo capì, come al solito. Anzi, prese la domanda molto sul serio.

"mi chiamo Benjamin, che significa 'figlio prediletto', perché sono il primogenito, e ai miei genitori piaceva. Tra l'altro, non pensavano di avere altri figli. Quando è nato Jack, gli hanno dato un nome che ricordava il volere di Dio, proprio per questo. Tocca a te"

"Chantal significa 'luogo delle pietre' e, dato il mio carattere, credo sia un nome piuttosto azzeccato. Ovviamente i miei genitori non potevano sapere che sarei diventata un orso bruno scontroso. Mia madre ha sempre adorato cantare, e il mio nome deriva dalla parola francese chant, canzone. Perché ti interessa?"

"perché so che Yvonne significa tasso. Volevo capire se c'entrava qualcosa"

"non c'è un motivo. Avevano deciso di dare il nome di una nostra nonna alla prima figlia, e per puro caso è uscita prima lei" mi si era avvicinato tanto lentamente che non me ne accorsi finché non appoggiò le sue labbra sulle mia, una mano sulla schiena.

Devo ammettere che non avevo molto autocontrollo, se ogni volta cedevo. Gli cedevo, per essere precisi. Era anche vero che sceglieva sempre i momenti peggiori

"non te ne approfittare!" esclamai, spostandomi "sei uno stronzo, sapevi che non ti avrei fermato!" ripartii all'attacco, tirandogli un pugno. Fermò la mia mano a un centimetro dal suo petto, facendola avvicinare più lentamente

"so che non è il momento migliore, ma … "

Leanding on me. Merda, ma ci tenevo ad ascoltare! Ecco, visto? Si metteva in mezzo sempre, anche senza volerlo.

 

   
 
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