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Autore: _Kiiko Kyah    10/12/2013    3 recensioni
From the 28th chapter:
"-Sono una ragazza piena di sorprese.- scrollò le spalle, incrociando le mani sul petto.
Ray non smise di sorridere. -Non hai più paura di me?- si informò altrettanto sereno e sarcastico.
-Sì, forse un pochino.- strinse pollice e indice tra loro per mostrare l’infinitesimale spazio che aveva lasciato in mezzo alle due dita. -Ma non mi faccio mettere paura da un uomo con le manette.- sorrise, indicando le mani legate del suo interlocutore."
Ci si becca dentro, magari, sì? ♥
Genere: Fluff, Romantico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Axel/Shuuya, Nuovo personaggio, Shuu, Un po' tutti
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Scusate l’atroce ed imperdonabile eternità che ci ho messo ad aggiornare! Davvero, non ci riuscivo proprio; un po’ perché non ho avuto il tempo materiale, un po’ perché sapevo cosa scrivere a balzi, insomma alcune parti le ho dovute tirare con le pinze, un po’ perché ho tantissime cose per la testa, un po’ perché sono in agonia per l’attesa di Frozen al cinema, un po’ perché quando penso a questa fic ultimamente mi vengono in mente le cose che scriverò quando arriverò ad un punto -perché ci arriverò, con un salto enorme ma ci arriverò- in cui i personaggi avranno intorno ai venti anni, ecc.
La mia vena romantica sta impazzendo e ho tante cose per la testa—l’ho già detto questo, vero?
Comunque. Capitolo di passaggio. Così, tanto per fare. Mi devo liberare di Daniel e Matthew e poi ho tempo di dedicarmi a questo povero OC qual è Daniel gods se lo amo. Indovinate cosa comincia nel prossimo capitolo- dai, sapete l’ordine dei fatti, no? Su, non deludetemi. E già che ci sono voglio subito chiarire una cosa piccina picciò: nel futuro di questa storia io non vedo assolutamente  possibili capitoli dedicati a quella storia degli Apostoli del Cielo eccetera eccetera. Solo per avvertirvi; so che non sarebbe il primo taglio, ma dato che ne sto facendo sempre di meno uno così importante mi sembrava giusto segnalarlo, just in case. Ho paura di piangere per la prossima fetta di storiadio mio kageyaaaaaamaaaaaaaa//meno male che s’era detto niente spoiler.
Beh, vi mando un bacione e mi auguro che questo intermezzo vi piaccia. wut tha
                                       ♥ Anna.
P.S., le persone che recensiranno questo capitolo entro una settimana avranno una drabble ciascuno in una oneshot/raccolta che posterò; così, ho voglia di farvi un regalo, a voi che mi rendere felice questi sette giorni. Allo scadere della settimana posto il tutto e basta c: (non che questo impedisca a qualcun altro di recensire, a me vanno bene recensioni anche a gennaio o.o)


Quando piove con il sole.


L’aeroporto brulicava di gente; come tante api in pieno fermento per la nuova giornata di impollinazione tutte le persone che arrivavano o preparavano ad andarsene dall’isola di Liocott si muovevano rapidamente per le scale mobili, le hall, i check-in e beh, eccetera eccetera. Poche erano le persone ferme, in quel gigantesco luogo pieno di tanti culture diverse, mondi diversi, che si erano uniti in un’unica isola solo grazie a dei ragazzi che giocavano a pallone. Il calcio era proprio un mezzo per unire il mondo. Certo che, detta così, sembrava molto una frase alla Mark Evans.
Fra tutti i presenti, comunque, la nostra attenzione si ferma su quattro figure, in piedi non troppo lontano dal check-in, in attesa che arrivasse la chiamata per l’aereo diretto a New York, sul quale due persone fra le quattro che stavano salutandosi allegramente sarebbero dovute salire.
Il più alto di tutti era di sicuro quello più vivace, ma sembrava anche abbastanza triste. Sua nipote sorrideva appena, cercando di contenere i piagnistei dell’uomo dovuti al fatto di doversi separare dalla sua “little sweetie Bibì”. Ecco, quest’ultima tentava più che altro di trattenersi dal gridargli contro, piuttosto invano effettivamente. Parlando degli altri due ragazzi, beh, sembravano nel bel mezzo di una gara a chi riusciva a fulminare meglio l’altro con lo sguardo.
Keep yourself together! – sbottò ad un certo punto Bianca, imponendo il silenzio al trentacinquenne, il quale la squadrò con la stessa aria che avrebbe avuto un bambino di sei anni al quale fosse stato vietato di fare qualcosa di molto divertente.
La ragazza si portò una mano sul viso, esasperata. Quella mattina non si sentiva proprio, poiché infatti non lo era per niente, nelle condizioni fisiche né tantomeno mentali adatte per sopportare oltre l’infantilità di suo zio. Per carità, lei detestava farsi salire a quel modo la pressione arrabbiandosi con Daniel, ma quell’uomo era troppo, troppo svampito. Mentre i suoi occhi chiari si scontravano con quelli più scuri del castano, quest’ultimo sbatteva le palpebre con aria persa, come se si fosse perso un passaggio di un racconto, o qualcosa di simile.
– Bibì— – il palmo aperto dell’interpellata davanti al suo viso lo zittì.
– Bi. An. Ca. – sillabò le bruna, una smonca occhiata seria. – Ti prego. Non ho cinque anni.
– Lo odiavi anche quando avevi cinque anni. – ricordò con un sorriso tenero quell’altro, sistemandosi meglio gli occhiali da sole sul capo. Stupita un po’, la coordinatrice non rispose e si limitò ad arrossire lievemente, quasi sentendosi in colpa, eppure motivo non ce n’era.
Si strinse nelle spalle, come un brivido le attraversò l’intera spina dorsale, e un sorrisetto furbo e divertito le si formò in viso, il labbro inferiore stretto fra i denti e la dita in un continuo torturarsi fra di loro. Axel pensò che gli improvvisi cambi di atteggiamento fossero una specie di marchio, per lei. Sì, Bianca Plus era di certo la più lunatica ragazza della storia, spesso ai danni degli altri. 
Non che le si volesse meno bene per quel motivo; anzi, probabilmente era proprio quella una delle cose che la rendevano così particolare, così tanto che non si poteva fare a meno di amarla e desiderare ogni attimo di abbracciarla forte, un po’ per farla stare zitta e un po’ per la genuina necessità di sentire il forte profumo emanato dai suoi capelli scuri. Se non si arrabbiava.
– Alla fin fine ti voglio bene, zio Dan. Potrei, chissà, sentire persino la tua mancanza. – aggiunse allegramente la quindicenne. Il trentacinquenne serrò e riaprì rapido come un lampo la palpebra destra in un occhiolino divertito e la abbracciò forte, facendola volteggiare un paio di volte.
Prima che lei potesse protestare per l’imbarazzo che le stava provocando, le fece riingoiare le parole, interrompendola sul nascere. – I’ll surely miss you, Bianca. – il battito delle mani di Matthew invitò suo padre a lasciare la presa sulla sua adorata nipotina, accogliendo le sarcastiche congratulazioni per essere riuscito a dire un nome senza la minima storpiatura con un’evidente leggerezza.
Il figlio ebbe la forte tentazione di fare un passo indietro quando, separatasi dall’uomo, sua cugina rivolse a lui quel suo sguardo ceruleo come acqua e severo come il nulla; proprio a lui che per chissà per quale arcano meccanismo scattato nella sua testa non pensava di poter affrontare—non voleva affrontare! Stava riscontrando adesso le conseguenze delle sue azioni. Detta proprio papale, per quel che era, semplicemente aveva voglia di tagliare la corda.
Chiamate il volo, si ritrovò a gridare dentro sé stesso, chiamate quello stramaledetto stupido volo.
Non riuscì neanche a stupirsi quando la Plus sorrise. Tentò di schiudere le labbra per dire qualcosa, come se fosse sano dire qualcosa, come se la sua gola avesse avuto davvero l’intenzione di far uscire parole articolate dalle sue corde vocali. Il tempo di realizzare che era troppo timoroso, dannazione, per dar fiato ai suoi pensieri non ci fu: il rapido movimento grazie al quale in un secondo le labbra sottili del ragazzo furono poggiate sulle dita strette a pugno di B colse tutti di sorpresa. L’americano scorse ancora quel sorriso dietro al braccio che gli copriva la visuale.
Si chiese come aveva fatto a sferrare un pugno così rapido, e fermarsi anche in tempo per non colpirlo davvero. Gli importava seriamente? Affatto. Però se lo domandò. Dopotutto forse se lo sarebbe meritato un pugno vero. No, dannazione, no! Ma in che razza di maniera aveva cominciato a ragionare?! Da quando rifletteva davvero su cose del genere?! Accidenti a lui!
– Fai buon viaggio. – gli augurò sincera Bianca, piegando leggermente il braccio per allontanare il pugno dal viso di Matt.
– Credevo che fossi arrabbiata, con me. – notò invece quest’ultimo stringendo le mani intorno alla sua borsa a tracolla. Non evitò di incrociare quegli occhi, non si nascose.
Axel pensò che fosse ammirevole. In un certo senso. – Certo che lo sono! – saltò su con ovvietà inafferrabile quella, – Perché mai non dovrei esserlo! – aggiunse inarcando un sopracciglio.
Era schiacciante il modo in cui sapeva essere schietta. Purché si trattasse di sentimenti negativi, s’intende. Altrimenti tendeva a chiudersi a riccio e non aprirsi più.
– E allora perché sua signoria è così allegra, quest’oggi? – obiettò il quindicenne dalla chioma caramello, scettico, tuttavia palesemente turbato.
La bruna sospirò e scosse la testa con aria rassegnata, portandosi le mani sui fianchi. – Fammi capire, il fatto che sono arrabbiata con te dovrebbe impedirmi di augurarmi che il viaggio vada bene? Cosa dovrei fare, liquidarti con un’occhiataccia, col rischio di non vederti per chissà quanto tempo? Preferiresti che lo facessi? Guarda che per me non c’è nessun problema.
Beh, il Karver dovette ammettere a sé stesso che messa a quel modo, lui era proprio un stupido. Non c’era niente da fare. Incassò questa verità senza emettere fiato, ingoiando a vuoto e mordendosi la lingua per impedirsi di imprecare contro Blaze che si era messo a sogghignare. Senza contare che non aveva proprio capito per quale motivo era venuto anche lui. Senso zero.
Un secondo sbuffo della nippoamericana lo distolse dai suoi pensieri, e per un’ulteriore volta si ritrovò colto da stupore. Afferrandogli di scatto la mano, Bianca se lo tirò vicino per abbracciarlo; posò il proprio mento sulla sua spalla, affondando il viso nel profumo di shampoo alla vaniglia che emanavano i capelli dell’americano, il quale rimase rigido per una buona manciata di secondi.
– Ti voglio bene, degenerato. – fu il soffio lieve che percepì a malapena, e istintivamente ricambiò l’abbraccio della sua unica amica sul pianeta, stringendola più forte che poteva.
– Mi manchi già da morire. – le mormorò nell’orecchio. Lei sorrise ancora di più e chiuse le palpebre, beandosi di quel breve attimo di pura umanità. Chi lo sa, forse anche uno dei rarissimi momenti in cui il vampiro Matthew Karver spiccicava un paio di parole sincere.
L’abbraccio si sciolse; l’unica cosa unita adesso erano le mani. – Allora vieni a trovami in Giappone. – propose serena la coordinatrice, ammiccando. – Abbiamo un tour di dolci da finire dopotutto.
– Non so se me lo merito. ...ma verrò. – Il plin plon dell’altoparlante colse la loro attenzione.
Prima chiamata per il volo numero 4529 per New York, i passeggeri sono pregati di trovarsi a bordo entro dieci minuti.
Daniel si portò le dita sulla guancia, la fede dorata che rifletteva la luce che entrava nell’aeroporto dalle grandi finestre. – Accidenti, di già? – lamentò incrociando l’altro braccio a quello piegato verso di sé. – Ahh, I don’t want to go away! – riprese a piagnucolare, come se fino a quel momento sua nipote non avesse detto una parola riguardo al suo comportamento.
Stavolta, però, Bianca non sembrava arrabbiata. Tutto ciò che fece fu afferrarlo nervosamente per un orecchio e guardarlo con attenzione, severa. – Bene allora! – gracchiò infastidita, lasciando preso la presa. – Questo significa che bisogna rivedersi presto, no? – sbottò ovvia – Verrò qualche volta a trovarvi io in America, contento?
Il moro non parve affatto convinto, anzi. – E dove li troveresti i soldi per venire?
– Lasciami fare, in qualche modo farò! E’ una promessa. – insistette quella con un sorriso determinato.
Tum. Tum.
Un flash. Uno solo. Un solo istante in cui gli occhi così celesti e luminosi di Bianca, allo sguardo dell’uomo, parvero di un rosso acceso come il rubino più prezioso. Un attimo in cui le immagini sfocate e ovattate di un ricordo si sovrapposero alla realtà. Un secondo in cui le sue labbra si schiusero per pronunciare sette lettere, un sussurrio appena udibile che uscì senza preavviso.
“Melanie” era l’ordine di quelle lettere. Forse non si accorse del lento movimento all’indietro che il suo corpo fece. Non si accorse di certo della chiamata per i sette minuti alla chiusura degli sportelli dell’aereo che doveva prendere. Non notò affatto i visi stupiti dei tre adolescenti. Tutto ciò che gli fu possibile concepire era che aveva visto sua sorella. Per la prima volta dopo due lunghi anni interi. L’espressione non di rabbia, non di gentilezza, bensì di pura determinazione che aveva sempre caratterizzato la sua amata sorellona, Melanie Karver—in seguito Plus.
Sempre.

I piagnistei di un bambino dalla chioma color cioccolato disturbavano la quiete del parco. Il vento primaverile si scontrava contro la sua bocca aperta, congelando e irritando la sua gola, dandogli ancora più fastidio—ma a quattro anni, come poteva sapere di dover chiudere la bocca per evitarlo?
– Danny! – il richiamo serio di quella voce familiare non lo distolse dal suo pianto.
La figura sottile e minuta di una ragazzina si piantò a gambe larghe e braccia conserte davanti a lui, un’espressione inflessibile dipinta sul viso. Corte codini neri e due scintillanti occhi rossi, uno sprazzo di lentiggini sul naso che con gli anni sarebbero scomparse. La fisionomia tozza di quella novenne che sarebbe presto diventata una splendida donna. Non che fosse difficile prevederlo.
– Dan-ny! – scandì, resasi conto che il fratellino non se la stava filando minimamente. Si avvicinò ancora di più e lo prese per un orecchio, visibilmente infastidita.
Daniel la guardò di traverso. – Ahia! Sei cattiva, Melanie! Mi fai male, lasciamiii! – il suo inglese ancora sbilenco poteva sembrare quasi carino. Non alla bambina.
– E tu sei fastidioso! – rimbeccò dura, ignorando i richiami della mamma, non troppo lontano da loro, che le raccomandava di non maltrattare suo fratello. – Si può sapere perché piangi così forte?! Non puoi sempre dare così tanto fastidio alla mamma! Ha da fare!
– Il mio aquilone si è impigliato in quell’albero! – si giustificò in lacrime il quattrenne, indicando l’oggetto di carta. Probabilmente bucherellato dai rami, anche se era troppo lontano per esserne certi.
Melanie sbuffò. – Mi prendi in giro? Quel coso si può buttare. Basta prenderne uno nuovo!
– No! – fu la pronta, prevedibile, infantile risposta. – Io voglio quello!
La bruna si chiese se a quattro anni anche lei fosse stata così insopportabile. Forse sì. Passarono un paio di attimi così, lei lasciò la presa all’orecchio del fratellino e si mise a pensare forte. – Bene allora! – saltò su ad un certo punto, nervosa. – Questo significa che bisogna recuperarlo, no? – si chinò su Daniel per guardarlo dritto negli occhi. – Vado a prenderlo, contento?
Lì per lì il bambino non lo poteva sapere, ciò nonostante quello sarebbe stato uno dei primi ricordi che avrebbe avuto della sua intera vita. Il viso determinato di sua sorella che tentava di nascondere come volesse recuperare quell’aquilone per farlo felice, non per farlo smettere di lamentarsi.  
– Ma Mel, è troppo alto! Non puoi farcela!
– Lasciami fare, in qualche modo farò! – sollevò due dita nel segno della vittoria. – E’ una promessa.


Non ci era riuscita, ricordava Daniel. Si era arrampicata, era caduta, e aveva rischiato di rompersi la tibia. Fortunatamente ne ricavò solo qualche graffio e una lieve contusione alla gamba. Non era un ricordo triste per lui, anche se allora piangeva disperato. Rovinato e sgualcito, come la pellicola di un vecchio film dalle immagini color seppia, quel frammento della sua vita non gli trasmetteva sensazioni malinconiche; a fornirgliele era quella consapevolezza che momenti così non ce ne sarebbero stai mai più. E adesso, invece, sotto i suoi occhi aveva qualcosa di incredibile.
Aveva sempre notato quanto Bianca somigliasse a Melanie. Un po’ per il colore degli occhi e un po’ per il poco tempo passato assieme, però, non aveva mai capito quanto fossero identiche. O quantomeno, quanto ci fosse una parte di Mel che non era morta con lei: e quella era Bianca.
– Mel. – mormorò di nuovo, e una lacrima rigò il suo viso sempre sorridente. – S-Sorry. – si coprì gli occhi con la mano. – E’-E’ che— tu sei così... come Lei... e... e... – non lo fermò, il singhiozzo che premeva per uscire. – per un attimo... mi è parsa di averla qui con me. – si chinò per stringere sua nipote fra le braccia. Lei non si ritrasse né si lamentò. Si trattenne dal piangere insieme a lui.
Le persone più tristi hanno il sorriso più luminoso. – sussurrò Axel. L’aveva letto da qualche parte e al momento non ci aveva fatto caso. Adesso, gli sembrava molto vero.
Matthew spostò i suoi occhi su di lui. – Le persone più sole sono le più socievoli. – aggiunse. Per la prima volta da quando si erano conosciuti, in quelle iridi verde acido non v’era astio. L’aveva letto da qualche parte anche lui. Il “vampiro” non aveva mai visto suo padre piangere. In tutta la sua vita. Non che ne avesse avuto occasione. Non era mai stato molto unito a suo padre. Peccato.
Perché non vogliono che qualcun altro soffra come loro. –
Plin Plon.
Si strinsero la mano, l’americano e il giapponese. La Plus era impegnata ad accogliere lo sfogo di suo zio per essere soddisfatta dell’occhiata non alla “ti faccio fuori” che si erano scambiati.
Ultima chiamata per il volo numero 4529 per New York, i passeggeri sono pregati di collocarsi nell’aereo.


* – Io e tua zia – Matt staccò gli occhi dalla cintura appena allacciata e si voltò verso il trentacinquenne; quest’ultimo guardava fuori dall’oblò, godendosi il decollo. Gli occhiali scuri abbassati sugli occhi, forse per coprire il rossore dovuto al pianto. – abbiamo litigato quando si è voluta trasferire in Giappone con il padre di Bibì. – confessò.
Una punta di interesse si accese dentro il ragazzo. Si sporse verso il padre. – Parli sul serio? – s’incuriosì. Non lo vedeva proprio, suo padre, ad opporsi ad una cosa così... come aveva fatto lui.
– Appoggiati. E’ pericoloso stare storti durante il decollo. – eh sì, era proprio un genitore in fin dei conti. Matthew obbedì. – Il primo litigio vero. Non una stupida disputa fra fratelli, di quelle ho perso il conto. – non appena il decollo terminò, appoggiò il gomito all’oblò e si posò sul dorso delle dita. Quelle dell’altra mano presero a torturarsi a vicenda. – Le dissi che non credevo sarebbe stata felice in Giappone. – si tolse gli occhiali, forse per impedire alla mano di frantumarsi in quel movimento nervoso. – La verità è che non sapevo quanto avrei resistito lontano da lei. La volevo tutta per me. Era sempre stata la mia colonna, fino ad allora. Mi sentivo perso. – ammise stancamente. – Mi sentivo nel giusto.
– Perché hai accettato che se ne andasse? – commentò confuso il suo interlocutore.
Dan sospirò. – Ricordi quando Bianca mi è stata data in affidamento? – sviò. Un perplesso gesto d’assenso fu un invito a continuare. – Eravamo tutti ancora sconvolti per l’incidente. Pensavo che tutte le cose che mi stava dicendo per convincermi a lasciarla in Giappone... fossero frutto di uno shock. O qualcosa di simile. Però poi è successo. – si abbandonò sullo schienale del sedile. – L’ho rivista. – si portò il braccio a coprire le palpebre chiuse, – L’immagine di mia sorella che mi gridava che la sua casa era il Giappone. Che la sua felicità era da qualche parte lì, pronta ad essere afferrata.
– E’ quello che ha detto Bianca.
– Sì. E’ quello che ha detto.
Okay, quello era strano. Era orribile. Matthew aveva sempre pensato che suo padre fosse stato uno sconsiderato a lasciare la corvina da sola a Tokyo. Non aveva mai dubitato del fatto che fosse stata un’idiozia. Insomma, quale adulto sano di mente lascerebbe una all’epoca dodicenne tutta sola a badare a sé stessa al polo opposto a dove la sua famiglia vive? Era pura follia. Eppure adesso si sentiva pessimo per averlo anche solo lontanamente creduto.
– Quindi zia Melanie era riuscita subito a convincerti che sarebbe stata felice in Giappone.
– Per niente. – soffiò Karver. – Affatto. Odiai tuo zio con tutto il mio cuore per mesi. Non ho smesso completamente di odiarlo prima che morisse. E mi faccio schifo per questo. – il suo tono era sempre meno greve. Era in qualche modo percepibile il fatto che non ne aveva mai parlato con nessuno. Perché, all’improvviso, aveva deciso di aprirsi così tanto? Solo per togliersi il peso?
Il quindicenne più ascoltava, meno capiva. – E allora perché- perché hai lasciato che-
– Non lo so. So solo che dopo un po’... qualche mese dopo credo... non era la prima volta che la rivedevo, però... il suo sorriso, i suoi modi di fare... era felice. Lo era davvero. Ho capito di aver preso la decisione giusta, ed è per questo che ho preso la stessa con Bibì.
– Capisco.
– No, non capisci. Pensi di aver capito. La verità è che è ancora presto perché tu ti penta davvero di tutte le cretinate che hai fatto e detto in questi due giorni. – ora che il verde bottiglia delle iridi di Daniel si mossero su di lui, Matt la vide: la cognizione di tutto ciò che era successo.
Ebbe un tremito. – Di che- – il padre gli diede un schicchera sulla fronte, per poi afferrargli una ciocca dei lunghi capelli e tirarla più forte possibile.
– Pensavi che non me ne accorgessi? Sono tuo padre, dannazione! Santo cielo, sei stato pessimo! Certo, adesso sei dispiaciuto, ma il pentimento è un’altra cosa! – non alzò la voce solo per non disturbare gli altri passeggeri. Due in un giorno solo: prima volta che si era fatto vedere in lacrime, e prima volta in cui era palesemente incavolato nero con lui! – Così in basso io non ci sono mai arrivato! Chi diavolo ti ha insegnato a comportarti così?! – l’unica cosa che il ragazzo articolò fu una supplica di lasciare andare i capelli. – Ti meriti una bella raddrizzata! Non appena arriviamo a casa ti piazzerò davanti alle registrazioni delle partite delle due passate stagioni- perché sì, lo so che per te guardare le partite di calcio per “assecondarmi” è una tortura.  
– Sei sicuro di essere lo stesso di ieri, papà?
– Oh sì, altroché. Sono solo meno propenso a catalogare tutto come “fase adolescenziale”.
– Oh Dio.
– Ah, e un’altra cosetta... – il tono giocoso e allegro di Daniel, in quel preciso istante, era ancora più preoccupante di quello collerico di poco prima. – pensa di nuovo che tuo padre sia uno stupido e vedrai che fine fai, chiaro? –  fu così che Matthew Karver scoprì che anche le persone più inimmaginabili possedevano un lato oscuro, all’occorrenza.



Celia alzò la faccia quando una goccia di pioggia le piombò sul naso. Così fecero quasi tutti, nonostante la ‘pioggia’ fossero appena due gocce. Era davvero singolare, considerato che il sole spaccapietre di due attimi prima ancora non era scomparso e le nuvole a pecorelle erano rade e bianche come latte. Silvia ridacchiò un po’. Qualcuno si sdraiò stanco sull’erba sintetica del campo di allenamento, Scott si mise a girare su sé stesso e qualcun altro si coprì la testa con un asciugamano. Fortunatamente l’allenamento era già quasi finito quando aveva cominciato a piovere.
David si sedette accanto a Jude, sull’erba. – Bianca è ancora in camera sua? – s’informò.
– Sì, da quando è tornata dall’aeroporto non è più uscita. Penso sia stanca. – confermò il rasta, alzando le spalle. – Ora che ci penso questa pioggia le somiglia.
Hurley trovò giusto intromettersi, evidentemente, perché si piegò verso di loro. – In che senso?
– Beh, perché è- – non gli fu concesso di terminare.
– -Lunatica? Strana? Bipolare? – lo interruppe infatti Caleb, meritandosi lo sguardo torvo di quelli che si erano messi ad ascoltare.
Il capocannoniere della squadra, seduta a gambe conserte, fu l’unico a non guardarlo di traverso. Inarcò invece un sopracciglio, sollevandosi lievemente. – Non prendetemi per pazzo, ma credo che Caleb non abbia del tutto sbagliato, stavolta.
Ci fu un attimo di silenzio. – ...Se lo dici tu. – sbatté incerto le palpebre Nathan.
– Siate sinceri e ditemi: neghereste il fatto che la mia ragazza è inevitabilmente lunatica, strana, e unica nel suo genere? – insistette Axel, e nessuno ebbe il coraggio di rispondere, dato che la replica sarebbe stata un no. Le risate che quella reazione provocò al biondo aleggiarono nell’aria per un tempo che a molti parve interminabile.

Sdraiata a pancia sotto sul proprio letto, le gambe che dondolavano verso l’alto e il busto sollevato sui gomiti per leggere per l’ennesima volta i propri appunti, la penna stretta tra i denti e lo sguardo perso in mille pensieri diversi, Bianca non notò la pioggia. I raggi del sole filtravano dalle tende bianche della stanza dell’albergo, e la sua mente era ben lontana dall’interessarsene.




(*) Il dialogo fra Matt e Daniel sarebbe in inglese: loro sono americani e fra di loro parlano così. Come anche ovviamente il dialogo fra Daniel e Melanie nel flashback. Naturalmente non potevo mettermi a scrivere dialoghi interi in inglese. Però, fate finta che lo abbia fatto(?)
 
 
 
 

 
  
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