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Autore: KillingJoker    16/12/2013    1 recensioni
Un uomo con un passato misterioso, arrivato esausto in un villaggio pacifico ed isolato dopo un lunghissimo viaggio. Un cavaliere instancabile che viene fermato da un ponte. Un cavallo che sparisce lasciando a terra solo ossa.
-"Il loro dovere era di primaria importanza su tutto. Sulla carità, sul riposo, sul cibo e persino sulla stessa vita. Nulla avrebbe dovuto fermarli. Nulla avrebbe osato..."-
A metà tra il solito fantasy e una moderna visione della magia e delle ambientazioni, questa è una storia di misteri e di strani personaggi, di potenti magie e di antiche entità. Il classico dei classici? Forse. Ma spero che resti comunque interessante.
Buona lettura
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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-Cap. 5, “Segreti e giochi di potere pt.2”-

 

 

Era notte, l'elfo era ancora all'inizio del suo lavoro. Aveva progettato un sistema che gli permettesse di tenere sotto controllo gran parte di quella parte di foresta: avrebbe costruito un rifugio nel folto degli alberi, con un sistema di ponti sospesi e corde posti in punti strategici, così da salire e scendere rapidamente dagli alberi. Dopotutto era un arciere elfico; ciò per cui era stato addestrato fin da piccolo era tirare da punti nascosti e rialzati. Doveva solo adattare il territorio al suo stile di caccia. Per ora aveva appena iniziato a radunare il legno che gli sarebbe servito alle costruzioni, ma gli serviva al più presto un rifugio per passare la notte. Il cuore della foresta non è affatto tenero come i confini dove era abituato a vivere, lo sapeva bene e ciò che era diventato lo aiutava costantemente a ricordarlo.

Proprio mentre raccoglieva delle foglie per fare un giaciglio sentì arrivare qualcuno. Non era un animale, altrimenti l'avrebbe percepito. No. Era un elfo, tradito da un passo troppo leggero; un cacciatore per l'esattezza, lo si capiva dall'andamento allenato per non fare rumore; quelli che sentiva erano suoni che conosceva molto bene. Si rese conto che li riconosceva fin troppo bene in realtà, dovevano essere di qualcuno che conosceva. Forse qualcuno del suo villaggio che lo aveva seguito, magari... “Falandria!”.

“Ciao Faraes. È bello vedere che stai bene” - disse l'elfa. Ma il suo volto lasciava trasparire un'inquietudine mal celata. “Cosa ci fai qui?” - chiese sorpreso lui. “Sono venuta a vedere come stai. Te ne sei andato senza salutare, senza dirmi nulla. Perché non me ne hai parlato?”.

“Di cosa avrei dovuto parlarti? Del fatto che non avevo più motivo per seguire le tradizioni del nostro clan? Che avrei dovuto lasciare la mia famiglia?”

“No” - rispose la ragazza - “ma avresti potuto dirmi che dovevi lasciare me”.

A quelle parole Faraes non sapeva rispondere. Era stata dura, ben conscia di esserlo stato: lo aveva colpito nell'unico punto in cui sapeva che non si sarebbe potuto difendere, quello della loro amicizia.

I due passarono la serata parlando. Lui le raccontò cosa aveva visto nelle stanze di suo padre, cosa aveva letto e appreso. Le disse tutto, si svuotò. E poi si maledisse per aver scaricato tutti quei pesi su di lei. Lei che era fuggita di nascosto solo per trovarlo e sapere come stava, lei che stava lì ad ascoltarlo senza proferir parola. Lei, che c'era sempre stata e che, come sempre, anche adesso era lì sotto la luna insieme a lui. Si maledisse per tutto: per averle detto tutto, per averle dato la responsabilità di mantenere il suo segreto, per averle permesso di essere lì, al suo fianco, illuminata d'argento. La luce della luna ne tracciava il contorno ed i lunghi capelli dorati risplendevano, lungo le sue spalle, dandole l'aspetto di uno spirito notturno. La pelle candida metteva in risalto gli occhi, due prigioni di ghiaccio che lo avevano appena catturato: intorno a lui c'era il nulla, un nulla del colore dei fiori di ciliegio che si espandeva in dolci curve, per poi prendere improvvisamente una deviazione in un rosa più acceso che si muoveva ipnotico. Rimbombavano dei suoni intorno a lui ma non riusciva a distinguerli, perché, ora che si era spostato cercando una via d'uscita, aveva visto ciò che sicuramente lo avrebbe incatenato dove si trovava, per sempre. Fu prigioniero del diamante e la sua anima si smarrì in un azzurro così freddo da congelare ogni pensiero, rinchiuso per sempre in una prigione di ghiaccio capace di fermare perfino un cuore così inquieto come il suo.

 

“Allora, mi rispondi? Ma che ti prende? Mi stai fissando come se avessi visto un fantasma!”

Si riscosse. All'improvviso fu libero. “Si, scusa” - disse confuso - “cosa dicevi?”. Non riuscì a dire altro.

“Ti ho chiesto se per te va bene se resto qui nei prossimi giorni, così ti aiuto” - ripeté Falandria.

“No! Sei pazza? Ti cercherà tutto il villaggio e se ti trovano con me penseranno che hai voluto abbandonarli come ho fatto io! Ti puniranno, ed io non posso permetterlo. Devi andartene”. Sì. Era esattamente questo che avrebbe voluto dirle, e lo pensava così intensamente che era quasi certo che lei lo avrebbe sentito. Ma in realtà l'unica cosa che riuscì a dire fu - “Certo, grazie”.

Calò la notte e i due approntarono un riparo improvvisato. Falandria aveva viaggiato tutto il giorno seguendo le tracce dell'amico e crollò quasi subito per la stanchezza, ma non fu così per Faraes, che invece non riuscì a chiudere occhio. Si addormentò una volta sola, per poi svegliarsi di colpo dopo aver visto di nuovo quegli occhi. Decise che avrebbe passato la notte a vegliare su di lei, ma altro non era che una scusa per giustificare a sé stesso il fatto che continuasse a guardarla.

 

Fu mattino in un attimo. Lei si svegliò guardandolo negli occhi ma aveva qualcosa di diverso. Lo guardava con sguardo più serio. “C'è qualcosa che devi vedere” gli disse. Lui la vide mentre si slacciava le maniche della casacca, mentre allentava i nodi che le stringevano la maglia sul petto. Sentiva il sangue che gli pulsava nelle tempie ed il cuore che gli usciva dalla gabbia toracica. Poi capì cosa intendeva lei: vide i primi segni e riconobbe le rune, si accorse subito delle cicatrici. “Sono come te, l'ho fatto per te” disse.

Lui gridò. Gridò così forte da svegliarsi, madido di sudore, mentre la sua amica lo chiamava.

Dopo averlo calmato chiese - “Faraes che ti succede? Da ieri sei strano, non capisco cosa ti sia successo... che ti hanno fatto?” - chiese lei preoccupata. Ma lui non rispose. La strinse invece. La strinse a se così forte da toglierle il fiato. Non c'erano cicatrici né rune e la casacca (per fortuna o meno) era chiusa da nodi ben saldi. La mano sinistra dell'elfo si era già spostata sull'impugnatura dell'arco, che giaceva accanto a lui. Afferrò l'arma e la cintola della faretra con quella mano, mentre l'altra si posava delicatamente sul viso della giovane. “Che succede?” - chiese sempre più preoccupata. Era certa di non aver sentito alcun rumore.

“Non fare niente di stupido, e non seguire la mia strada, o ne morirei” - le disse mentre le accarezzava una guancia.

 

Fu fulmineo. Così veloce che non si rese nemmeno conto se era davvero successo o se la sua mente aveva sognato tutto. L'elfa cercò di ripetere la scena nella sua testa, per capire. Il suo migliore amico, Faraes, aveva impugnato l'arco, quasi come se ci fosse un pericolo imminente; poi l'aveva guardata, con uno sguardo così dolce che le aveva fatto perdere per un attimo la concentrazione, e, in un battito di ciglia, si era avvicinato a lei, troppo. Aveva sentito, ora ne era certa, il suo respiro. Avvertiva il calore che il suo corpo emanava. D'un tratto le labbra le stavano pulsando, e solo adesso ne comprendeva il motivo. Fu un bacio sfuggito alla realtà, così come le era sfuggito lui, saltando giù dall'albero per sparire nel fitto del bosco.

  
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