Poveglia III (un messaggio dai morti)
Camminare di notte tra le strade
di Venezia dovrebbe
essere una cosa romantica.
Se tu sei reduce da una battaglia con degli zombie
diventa una lotta continua contro la paranoia, a ogni angolo
controlliamo che
non ci sia nessuno dall’altra parte e ogni vicolo scuro ci
appare una minaccia,
senza contare che sobbalziamo al minimo rumore.
Arriviamo al hotel con i nervi a pezzi, suoniamo il
campanello e il portiere notturno viene ad aprirci, nonostante le
trecento
scuse che gli facciamo sembra lo stesso contrariato per essere stato
svegliato
a quest’ora così poco ortodossa. Dobbiamo fargli
una cattiva impressione, con
la sabbia addosso, i vestiti stracciati ei graffi.
Cercando di fare meno rumore possibile ci infiliamo in
uno dei lussuosi ascensori del hotel e arriviamo al nostro piano.
Apriamo la porta, la prima cosa che faccio è controllare
che Jack ci sia – c’è – e che
stia dormendo – sta dormendo – nel letto accanto
a lui invece dorme Marta, la baby sitter.
Mark è il primo a infilarsi sotto la doccia e ne esce
dopo mezz’ora, poi tocca a me e ci metto anche di
più visto che devo anche
asciugarmi i capelli.
Una volta uscita barcollo verso il letto e mi lascio
cadere di schianto, con un po’ di fatica mi metto sotto le
coperte e tra le
braccia di Mark.
“Mark, chiama Angelo, digli di non andare
sull’isola, che
noi siamo già tornati.”
Lui annuisce e prende il suo prezioso i-phone e compone
il numero del ragazzo, si scambiano qualche battuta
sull’orario in cui lo
stiamo chiamando.
“Beh, a parte l’orario, non andare
sull’isola domani. Noi
siamo già tornati e se ci andassi potresti trovare dei non
morti piuttosto furiosi.”
Pausa.
“Con cosa siamo tornati? C’era una barca attraccata
all’imbarcadero e anche se sembrava un rudere ci ha permesso
di arrivare al
lido.”
Altra pausa.
“Davvero? Che storia strana. Dopo stasera nulla potrebbe
sorprendermi. Non andare a Poveglia, hai capito?”
Silenzio.
“Ok, buonanotte.”
Chiude la chiamata e si massaggia le tempie con
un’espressione di dolore.
“Cosa ti ha detto?”
“Mi ha raccontato la storia della nostra barca.”
“E?”
“Praticamente è stata rubata a un pescatore della
zona,
solo che a un certo punto della traversata il ladro si è
trovato nel bel mezzo
di una tempesta e ha dovuto attraccare a Poveglia.
Sparito.
La barca è rimasta lì, il suo legittimo
proprietario non
osava reclamarla, ho detto ad Angelo che se vuole dirgli che
è al Lido di farlo,
non credo ci servirà ancora.
Adesso tutto quello che ci vuole è una dormita, sono
sicuro che domani alla luce del sole tutto questo ci
sembrerà diverso.
Almeno credo…
No, fanculo, non lo so! Mi scoppia la testa!”
“Scusa per averti coinvolto in questa storia.”
“Non fa niente, ma adesso dormiamo, ok?”
Io annuisco.
Mark dopo nemmeno cinque minuti dorme come un sasso, io
fisso impaurita le ombre che si muovono sul soffitto, le mie mani
massaggiano
il punto in cui ho rischiato di essere strozzata da uno spirito.
Se ripenso a quelle mani addosso a me, mi si gela il
sangue.
“Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!”
Ecco di nuovo Dante che mi
perseguita!
Insieme a Dante e ai suoi versi precipito in un sonno
profondo, senza sogni né incubi, un sonno che ha il solo
potere di far riposare
il corpo.
La mattina dopo ci svegliamo alle
nove, il sole entra
dalle tende illuminando la stanza.
Se non fosse per i graffi, i lividi e i dolori sparsi per
il corpo mi sembrerebbe impossibile aver passato la notte combattendo
degli
zombie, invece è così.
Dalla camera accanto sentiamo del trambusto e Jack arriva
seguito da Marta, che arrossisce vedendoci a letto.
“Scusate, l’intrusione.”
Balbetta.
“Non ti preoccupare, siamo noi a essere arrivati
prima.”
La ragazza porta via Jack e la sento che gli ordina di
lavarsi e cambiarsi.
“Bella avventura questa notte, vero?”
Mi chiede Mark stiracchiandosi.
“Decisamente.”
Mi alzo e indosso una maglia e dei jeans puliti, Mark fa
lo stesso, poi entrambi andiamo nella cameretta di Jack, lo troviamo
vestito e lavato
accanto a Marta.
“Scusatemi ancora per prima.”
“Non fa niente, piuttosto, come si è comportato
Jack?”
“Benissimo è un bambino adorabile.”
Lui sorride soddisfatto.
“Beh, sono contenta.”
Pago la ragazza e poi Jack ci segue fino in camera nostra
curioso.
“Com’è andata la serata?
Avete trovato degli zombie?
Com’erano?”
“Jack, calmo, per l’amor del cielo!”
Esclamo io massaggiandomi le tempie, non ho voglia di
raccontare a mio figlio che ha rischiato di rimanete orfano alla tenera
età di
dodici anni.
“Ma io voglio sapere cosa è successo!
E come mai c’è un bastone lì?”
“Lì, dove?”
Gli chiedo distratta.
“Vicino alla portafinestra.”
Io guardo ed effettivamente c’è un pezzo di legno,
sembra
marcio ed emana un odore di alghe e salsedine.
Mi avvicino per studiarlo meglio e mi si gela il sangue
nelle vene: è un pezzo dell’imbarcadero di
Poveglia!
“MARK!”
Urlo fuori di me, lui accorre subito e appena lo vede
impallidisce.
Loro sono stati qui.
“Adesso scendo a pagare l’albergo, tu fa’
le valigie.”
Mi ordina secco, io annuisco, Jack non capisce.
“Perché ce ne andiamo?”
“Perché è pericoloso stare qui, magari
faremo un altro
week end più avanti.”
“Ma a me Venezia piace.”
Mi risponde deluso.
“Anche a me, ma per ora è un luogo
pericoloso.”
Lui rimane un attimo in silenzio, guarda me che rimetto
le nostre cose dentro la valigia e il pezzo di legno.
“Avete fatto arrabbiare gli zombie di Poveglia?”
Le maglie che stavo mettendo in valigia mi cadono di
mano.
“Come fai a saperlo?”
“Marta mi ha raccontato tutto. Mi ha raccontato un sacco
di leggende spaventose sulla città!”
I suoi occhi brillano di eccitazione, come solo gli occhi
di un dodicenne innocente possono fare.
“Sì, li abbiamo fatti arrabbiare. Ecco
perché ce ne
andiamo, torneremo quando si saranno calmati.”
Lui annuisce e mi dà una mano con le valigie.
Una mezz’ora dopo Mark torna in camera.
“Ho pagato l’hotel, scusandomi cinquecentosessanta
volte
con il direttore e assicurandogli che il servizio è ottimo e
che non me ne vado
perché mi sono trovato male.
Gli ho detto che, purtroppo, un impegno improvviso e
improrogabile mi costringe a tornare in patria e che tornerò
e mi godrò le
bellezze di Venezia e la magnifica ospitalità del suo hotel
un’altra volta.
Ho prenotato un volo, non ce n’è uno che parte da
Venezia
in tempo utile, ma uno stasera che parte da Milano Malpensa.
Abbiamo un treno da prendere e parte da mezz’ora, come
vanno i bagagli?”
“Abbastanza bene, devo mettere via le ultime cose.”
“Ti do una mano.”
Con il suo aiuto finiamo quasi subito di preparare i
bagagli e usciamo dalla stanza, io sono ancora scossa dalla visione di
quel
singolo pezzo di legno.
Per fortuna non hanno toccato Jack o li avrei uccisi.
Prendiamo uno degli ascensori e arriviamo al piano terra,
da lì usciamo e l’aria fresca mi colpisce come un
balsamo.
Va tutto bene.
Mark ferma un taxi e io mi preparo a stare male, cosa che
puntualmente avviene, solo stanotte il mio mal di mare ha deciso di
darmi
tregua.
Arriviamo davanti alla stazione di Venezia Santa Lucia,
entriamo e con i bagagli a seguito andiamo alla biglietteria che per
fortuna
non è molto affollata.
“Sono Mark Hoppus, sono venuto a ritirare il biglietto
che ho prenotato stamattina.”
“Freccia d’argento delle dieci e mezza,
vero?”
Lui annuisce, l’uomo ce lo porge.
“Andate al binario 11, lo troverete là.”
“La ringrazio.”
“Si figuri, arrivederci.”
Sono le dieci e un quarto e quasi corriamo per
raggiungere il dannato binario 11, riusciamo a salire su un treno che
indica
come destinazione Milano Centrale e tiriamo un sospiro di sollievo.
Ce l’abbiamo fatta!
Con un po’ di fatica raggiungiamo il nostro
scompartimento e i nostri posti, sistemiamo i bagagli e poi finalmente
ci
sediamo.
Dai finestrini vediamo Venezia allontanarsi insieme ai
suoi misteri.
Una ragazza passa con il carrello degli alimenti, io e
Mark compriamo un cappuccino e una brioche ciascuno, Jack del latte
caldo e una
brioche.
Non hanno a che vedere con quelli del hotel, ma il solo
fatto che ci stiamo allontanando da quei mostri li rende buoni.
Mark fotografa tutto con il cellulare, quando finalmente
arriviamo sulla terra ferma sbircio e le sta mettendo su instagram,
è rimasto
il solito ragazzino non ancora del tutto cresciuto.
“Uhm, è bello il fatto che non cambi mai,
Mark.”
“Ma dai, sono solo quattro foto.
Ho un sonno pazzesco.”
“Anche io, facciamoci una dormita.”
Ci addormentiamo, dopo aver raccomandato a Jack di non
disturbare, raccomandazione pressoché inutile visto che sta
giocando a Pokemon
e il treno potrebbe deragliare e non se ne accorgerebbe nemmeno.
Dormiamo fino a una città chiamata Brescia, non deve
mancare molto a Milano stando alla cartina che c’è
sul mio cellulare.
Sono sollevata.
Jack si è addormentato, io e Mark lo guardiamo con
tenerezza.
“Pensa che non avremmo più potuto
vederlo.”
“Per fortuna ci siamo salvati. Non tornerei su
quell’isola per nulla al mondo.”
“Nemmeno io, anche perché non avrei mai creduto
che ci
seguissero fino a Venezia.”
Io rabbrividisco.
“Quando ho visto quel pezzo di legno sono quasi morta di
infarto, ma non manca molto ormai. Stiamo per arrivare a Milano e da
lì saremo
al sicuro a Londra.”
Lui annuisce e si stiracchia.
“Che brutto weekend! Ne faremo uno romantico a
Parigi.”
“Mi porti a visitare la catacombe vero?”
Lui sospira.
"Il lupo perde il pelo, ma non il vizio, eh?
Sì, comunque ti ci porto perché so che
lì i morti
rimangono morti.”
“Sei un amore.”
Gli schiocco un bacio sulla guancia.
“No, sono solo uno stupido che si fa abbindolare dai tuoi
occhioni.”
Ridacchia lui.
Quando passa di nuovo il carrello delle bibite, prendiamo
due panini e decidiamo di lasciar dormire nostro figlio. In fondo
può mangiare
sull’aereo.
I panini sono leggermente più buoni rispetto al
caffè e
Milano è sempre più vicina.
Quando finalmente annunciano “Milano Centrale”
svegliamo
Jack e scendiamo dal treno, essendo già stati a Milano
sappiamo già come è
fatta e trascinando i nostri bagagli usciamo all’aperto. Mark
chiama un taxi e
ripartiamo con destinazione Malpensa.
L’ansia che ho avuto per tutto il viaggio si sta
lentamente placando, stiamo mettendo abbastanza miglia tra noi e loro.
Milano è una città grande e caotica e riusciamo
ad
arrivare in aeroporto appena in tempo per il check-in.
Altri dieci minuti e saremmo rimasti a terra e – per la
prima volta in vita mia – non avrei avuto voglia di visitare
la città della moda.
Solo seduta sull’aereo mi sento al sicuro, tra poco si
alzerà in volo e noi saremo nella cara e piovosa Londra.
Quando l’aereo finalmente si alza in volo sento il
familiare vuoto allo stomaco e un peso mi scivola dalle spalle. Credo
che ora
siamo davvero fuori dalla loro portata, ringraziando Dio.
Jack è affamato così ordiniamo un panino per lui
alla
ragazza che passa con il carrello, lui lo divora rapidamente e poco
dopo
ingurgita anche la cena.
Fuori è buio e a tratti si vedono le luci delle
città e i
vuoti delle campagne in cui nessuna luce viene a turbare la
tranquillità.
Non dovremmo metterci molto ad arrivare a Londra.
“Non ho preso neanche una maglia all’Hardrock
Caffè.”
Jack protesta, incrociando le braccia e mettendo il
broncio.
“Però hai conosciuto Marta e le leggende
veneziane.”
“Mica me la posso portare a Londra, Marta.”
Mugugna a denti stretti, facendomi sorridere. E così mio
figlio si è preso una cotta per la baby sitter, precoce come
il padre, chissà
quanti cuori spezzerà tra qualche anno.
Il volo procede tranquillo, le luci passano sotto di noi
e ben presto siamo sul canale della Manica e poi sopra Londra e le sue
mille
luci.
Atterriamo che sono le undici di sera, piove tanto per
cambiare, ma non importa.
Ritiriamo i bagagli e il rumore di noi che corriamo nelle
pozzanghere alla ricerca di un taxi mi mette allegria.
Troviamo un taxi, gli diamo l’indirizzo, Mark chiama il
cinese all’angolo per avere almeno la parvenza di una cena.
Quando la macchina si ferma sotto il palazzo dove abitiamo
mi sento finalmente felice e a casa, entriamo salutando il portiere.
“Signori Hoppus, ho un biglietto per voi.”
Io lo prendo e lo metto in tasca senza leggerlo, sono
troppo impegnata a caricare i bagagli nell’ascensore.
Arrivati a casa mi metto subito a sistemare le valigie,
mentre mio marito e mio figlio aspettano il ragazzo del cinese come due
cani il
padrone.
Una mezz’oretta dopo il campanello suona, io sono a buon
punto e Mark e Jack hanno già pagato e apparecchiato la
tavola, devo solo
mangiare.
Cosa che faccio volentieri ridendo e scherzando con mio
marito e mio figlio, mi sento bene, benedetta quotidianità!
Dopo cena lavo i piatti, mi faccio una doccia e poi mi
siedo sul divano con Mark che sta guardando i Simpson.
“Finalmente siamo a casa, il portiere ha detto che
c’era
un biglietto per noi, io l’ho messo via.”
“Allora tiralo fuori che lo leggiamo, sarà qualche
vicino.”
Io lo cerco nella felpa e poi torno sul divano, lo apro e
il cuore rischia di fermarsi.
È vergato in una scrittura stentata, ma è
chiarissimo.
“Non tornate,
non siete i benvenuti!
Rimanete a Londra.”
Mark lo getta istericamente nel fuoco del nostro
caminetto.
“Non ci disturberanno più ora!”
Esclama con uno sguardo un po’ spiritato.
“Hai ragione!”
Rispondo io con un filo di voce.
Non metterò mai più piede a Poveglia e credo che
ci vorrà
qualche anno per convincermi a rimettere piede a Venezia.
Certe volte le leggende sono vere e vanno ascoltate,
questa è una di queste.