Cara
Ary,
forse
nove anni sono pochi per
comprendere ciò che sto per dirti, ma il tuo corpo sta
crescendo e con esso
quella parte di te che desidera, soffre e sa pensare.
Sì.
Sa pensare cose troppo grandi per
una testa che dovrebbe contenere solo fiabe e so – lo so per
certo – che prima
o poi arriverai a formulare le domande.
Così,
oggi che i miei pensieri si
infilano fluidamente l’uno dietro l’altro,
proverò a parlarti di lei: di tua
madre. Del troppo e del niente, e di come si rincorrono l’un
con l’altro,
distruggendosi e rigenerandosi a vicenda.
È
sempre stata strana, lei, Ary, fin da bambina.
I tuoi
sorrisi, la tua socievolezza,
la tua curiosità... lei non li aveva. Era una cosina
imbronciata, cupa,
sarcastica... Quando mai si è visto un bambino sarcastico?
Ma lei la era:
isolata e goffa, seria, esclusa dal mondo come un pezzo di puzzle nella
scatola
sbagliata. Respingeva d’istinto, quasi sempre, respingeva
tutti. Ma non me.
Ero la
sua cugina preferita, quella maggiore,
una sorella grande. Sapevo come prenderla, Ary, e proprio per questo,
oggi
posso parlarti di lei.
Ho
visto il suo vuoto crescere,
giorno dopo giorno: un vuoto d’amore, di certezze, di
accettazione.
La
volevano posata, educata e signorile, aggraziata e intelligente,
speciale e dotata.
Doveva
avere il talento,
l’originalità,
l’ordine,
la
compostezza,
l’obbedienza,
la
distinzione,
la
perfezione.
Perfetta,
la volevano, Ary. Perfetta
vuol dire non difettare in nulla, perché se a un lenzuolo
bianco aggiungi una
macchiolina, ecco: è sporco. Non è solo un
po’ meno pulito, un po’ meno
candido, un po’ meno lindo.
È
sporco.
Volevano
tutto, e per un essere umano, Ary, il tutto è troppo.
Se
vuoi tutto, avrai niente. Se vuoi
il lenzuolo candido, lo avrai sporco. Non importa se di una macchia o
cento,
perché se ti hanno insegnato che se non sei perfetta sei
cattiva, quel
“cattivo” non ha misura.
E lei
si sentiva sporca; me lo disse
quel giorno – aveva sedici anni – quando un suo
amico se ne andò nella notte
per aneurisma e lei iniziò a temere la morte. Mi disse che
non aveva speranza:
se fosse morta in quel momento sarebbe andata all’inferno,
perché non riusciva
a essere senza macchie.
Fu
allora che percepii il suo vuoto.
Aveva fame, una fame insaziabile di sentirsi amata, accettata per
ciò che era.
Le avevano chiesto troppo e dentro di lei era rimasto il niente.
Iniziò
a cercare chi potesse riempire
il suo nulla, una ricerca sempre più vorticosa, come un
ingorgo che la
risucchiava verso il fondo: cambiava ragazzo a ogni piè
sospinto, e li tradiva
tutti. Vendeva se stessa in cambio di un po’
d’amore, di un complimento, della
sensazione di sentirsi cercata, ammirata, corteggiata.
A
pensarci bene, non avrei dovuto
stupirmi quando rimase incinta. Non mi sarei dovuta sorprendere neppure
quando
ti rivendicò come sua, iniziando una battaglia con tuo padre
che non si è mai
conclusa.
Pensava
che avresti riempito il suo niente, Ary; credeva che,
con te, non avrebbe avuto più bisogno di nessun altro.
“La mia serenità è stare
con lei”, mi disse un giorno, “È
lei.”
Durante
i primi mesi dalla tua
nascita, fece progetti di ogni tipo: scuole private, lezioni,
particolari
trattamenti salutari, investimenti... Voleva darti tutto, persino
troppo, e per
un po’ sembrò riuscirci. Ma tu crescevi e
diventavi ogni giorno un po’ più
autonoma, ti staccavi pian pianino, come ogni bimbo è giusto
che faccia... e
lei ricominciò a sentire il vuoto.
Fu
allora che arrivarono i capelli
biondi e i tacchi alti, le extension e le unghie laccate. Durarono un
soffio di
vento, e vennero sostituite dai pantaloni militari e i capelli a
spazzola. Poi
il trucco eccessivo e il rosa shocking, quando cercò di fare
la modella, e
l’anoressia. Gli psicofarmaci, l’alcol, e nuovi
esperimenti sessuali.
Ma il
vuoto non si riempiva, Ary...
non si è mai riempito.
Perché
se ti hanno insegnato che se
non sei troppo allora sei niente... sarai niente per tutta la vita. Ti
usava
come narcotico ai suoi bisogni, dandoti troppo di ciò che
non ti serviva e
niente di quell’accettazione, di quell’amore, di
quella considerazione che lei
non era mai riuscita a ottenere per sé. Non era mai riuscita
a ottenere da se
stessa.
E oggi
che hai nove anni, Ary, e tua
madre brancola nel buio come quando ne aveva sedici, ho voluto parlarti
di lei.
Dici
che non ti vuole bene, ma lei
avrebbe voluto volertene. Avrebbe attinto per te alla sua scorta
d’amore, se ne
avesse avuta una... Ma del troppo che le hanno dato, nulla sembra
essersi
accumulato nella sacca dell’affetto.
Questa
è tua madre, Ary; questo è il
circolo del troppo e del niente, che si generano l’uno
nell’altro in un circuito
che non dà tregua.
Ma tu,
tu che non sei mai stata cupa
né sarcastica, che assorbi l’amore di un padre che
da anni lotta per te... tu,
dallo spirito forte e saldo, forse puoi leggere queste parole e
perdonare.
Perdonare e capire che non importa essere tutto, perché
essere qualcosa è già
abbastanza, in un mondo dove tutti abbiamo delle macchie.
Sei
piccola, Ary, ma stai imparando a
pensare come un’adulta... e presto ti farai delle domande.
Perché
tua madre fa del male agli
altri? Perché ne fa a tuo padre?
Perché
a te?
Quando
questi interrogativi
inghiottiranno la tua vita, apri questa lettera. Non può
consolarti di ciò che
non hai avuto e non può soddisfare la tua sete di
serenità... Ma forse potrà
aiutarti un pochino a capire.
Forse,
un giorno, essa si accumulerà
a tanti altri piccoli motivi che ti serviranno a perdonare.
Solo
il perdono azzera ogni cosa,
Ary: quel perdono che tua madre non sa dare a se stessa. Daglielo tu,
perché
quel niente si colmi.
Il mio
appoggio lo avrai sempre.
Anna