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Autore: Shichan    18/12/2013    2 recensioni
Dieci anni sono il tempo in cui ha cercato di andare avanti senza chiedere aiuto, in cui ha provato a rifarsi una vita – ed era convinto di esserci riuscito –, in cui si è detto che poteva andare avanti, che lui e Mikasa dopotutto erano sopravvissuti, letteralmente. Perché tutti credono che se non ti uccide una guerra, nulla può farlo.
Nessuno pensa mai a quanto ti uccide la vita, però.

[ReinBerth accennato e implicito; MikaEren (onesided); JeanArmin se vi impegnate socialmente, ma tanto.]
Genere: Angst, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Armin Arlart, Jean Kirshtein, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Lo studio del dottor Heiderich sa di normalità, nel suo arredamento semplice e nelle dimensioni modeste; il che ha fatto sentire Jean in trappola e a disagio dalla prima volta in cui è stato costretto a metterci piede. Non è l’ordine di per sé a disturbarlo, non soffre di alcuna patologia o fobia in tal senso; ad agitarlo è quello che si nasconde dietro quello stesso ordine. È come un costante monito alla sua instabilità: la perfezione dei mobili, della pulizia nella stanza, della disposizione degli oggetti, delle camicie pulite del medico e persino del sorriso che gli rivolge; tutto sembra metterlo sotto esame. Sembra che dirgli che lui appare esattamente così – esatto opposto alla loro perfetta e ordinata normalità.
Jean odia quel posto. Lo odiava già prima di andarci, dopo è solo peggiorato tutto.
Tanto per cominciare, odia essere trattato come un malato mentale: il suo cervello funziona benissimo, e il fatto che dopo tanta fatica per preservare la sanità psichica qualcuno lo tratti da mentecatto lo fa incazzare. Poi lo irrita Heiderich, non tanto come singolo individuo, quanto più come rappresentante di una categoria; non sopporta quelli come lui, quei medici che hanno un titolo di studio e allora si sentono esseri superiori, e lo guardano come il poveretto di turno da salvare.
Lui è stato in guerra, per Dio. Si è già salvato abbastanza da solo.


È un mese che va lì.
Mercoledì, sempre di pomeriggio, perché è il suo giorno libero dal lavoro: fa il cameriere, un impiego come un altro tra quelli che non hanno nulla in comune con la guerra, e che al tempo stesso dovrebbero funzionare in quella che a conti fatti è una terapia. Al contatto con il pubblico, dovrebbe aiutarlo ad abituarsi nuovamente alle persone; per quel che conta, gli basta che sia un lavoro come un altro.
Si è opposto per anni all’idea di farsi aiutare, convincendosi di non averne bisogno. Non ha cambiato idea con il tempo, e l’unico motivo per cui ha ceduto è che se continua a non dormire o a risvegliarsi da incubi atroci ne risentirà tutto quello che in qualche modo è riuscito a mettere su da quando ha preso coscienza di essere sopravvissuto.
Naturalmente, gli incubi sono la prima cosa di cui Heiderich gli ha chiesto: ha voluto che lui descrivesse tutto ciò che riusciva a ricordare di essi – da quanto erano ripresi quando si era finalmente deciso ad andare a farsi aiutare, se cambiava soggetto o se erano ricorrenti, se aveva idea del perché si manifestassero continuamente negli ultimi tempi; e, infine, se avesse preso qualcosa per aiutarsi a dormire.
Jean quella volta aveva risposto, perché non farlo sarebbe stato stupido, essendo gli incubi il suo principale problema o così credeva. Perciò gli aveva detto che erano sogni che si somigliavano in molti particolari, cambiava qualcosa a volte, ma il senso di angoscia e irrequietezza al risveglio – insieme al panico che poi non gli faceva più chiudere occhio – erano sempre gli stessi. Sognava e sogna ancora di campi di battaglia, di guerre e fuoco nemico che si abbattono su di lui. E sogna di compagni che muoiono: non sempre hanno un viso, spesso sono solo corpi a terra privi di vita.
A parte uno.
«Dunque» la voce del medico lo distoglie dai suoi pensieri, facendogli alzare lo sguardo ambrato su di lui «com’è andata questa settimana?» domanda, osservandolo paziente in attesa che lui inizi con il solito, inutile resoconto.
Non ha nulla da raccontargli, perché non cambia nulla: passano due, tre giorni nel migliore dei casi, in cui non sogna nulla o comunque non lo ricorda. Poi, quando si ritrova a sperare che sia finalmente finita, quasi a farlo di proposito quella notte si popola di incubi che si susseguono senza un preciso ordine. Sa soltanto che si sveglia sempre nello stesso modo: di soprassalto, urlando il nome dell’unica vittima il cui viso è sempre fin troppo nitido. E quello è stato uno dei principali motivi per cui ha dovuto abbandonare il primo appartamento in cui è stato, l’unico che abbia provato a condividere con un’altra persona, quando ancora cercava di rimettersi in sesto e non aveva soldi da parte per permettersene uno da solo.
Il ragazzo che abitava con lui era stato anche comprensivo abbastanza da non esortarlo ad andarsene, ma Jean lo aveva fatto comunque: non si poteva pretendere che una persona “normale” fosse costretta a svegliarsi di soprassalto durante la notte a causa delle sue grida. Specialmente all’epoca, in cui gli incubi erano molto più frequenti di ora.
«Uguale.» risponde a mezza bocca; qualsiasi altra persona avrebbe rinunciato da tempo e sarebbe seccata dal suo atteggiamento, ma Heiderich ha quella calma piatta e distaccata che gli permette, dopo un mese, di non lasciarsi sfuggire nemmeno un sospiro rassegnato quando Jean va sulla difensiva in quel modo. Anche quello lo innervosisce.
«Vede ancora Marco, quindi?»
Questa è una cosa di lui che lo fa incazzare. Una delle prime volte che Marco è stato nominato è sempre partito dal dottor Heiderich: evidentemente ha avuto accesso ad ogni minimo dettaglio della sua vita in guerra, perché sapeva perfettamente le condizioni in cui Jean era stato ritrovato… insieme al cadavere di quel ragazzo, morto nel conflitto come tanti altri, di nome Marco Bodt. E già allora, con una reazione forse anche troppo violenta per un posto in cui a conti fatti non c’era alcuna minaccia nei suoi confronti, aveva spiegato che di quello non avrebbe mai voluto parlare.
Che era semplicemente stato trovato con altri cadaveri, che si chiamassero “Marco” o in altri modi non era importante, non era funzionale, non erano affari di nessuno tranne che suoi.
Odia il fatto che Heiderich gli dia ancora del lei, come a dire che rispetta i suoi tempi e i suoi spazi, e poi gli faccia domande dirette che fanno più male che bene; e al tempo stesso odia sapere che prima o poi ne dovrà parlare, che lui stesso vuole capire perché ad intervalli quasi regolari si ritrova a sognare il momento più atroce di tutta la sua vita e che risale a dieci anni fa, ma che lo insegue come un predatore piuttosto caparbio e lo consuma dentro.
Vorrebbe uscirne. Ci ha provato in tutti i modi che la medicina potesse fornirgli legalmente come aiuto – ha preso tranquillanti e persino sonniferi, e Dio solo sa come ha fatto a resistere alla tentazione di mandarne giù una quantità che non lo avrebbe fatto svegliare mai più.
Quando fa pensieri simili, nei momenti in cui Heiderich gli concede tutto il tempo di cui ha bisogno per rispondere, Jean si rende tristemente conto che non è Dio che lo ha salvato dalla voglia di suicidarsi; e non perché lui sia particolarmente coraggioso.
«Non voglio parlare di Marco.» taglia corto, il tono brusco.
Heiderich appunta qualcosa sulla sua cartella, e Jean sa già che gli costerà un altro mese di sedute che non vorrebbe ma che spera ancora gli permettano di dormire.
Non di trovare la felicità, quelle sono stronzate a cui non crede, esattamente come non crede più in Dio.
Solo di non aver paura di chiudere gli occhi e addormentarsi.


Jean non ama parlare di Marco ma, se lo facesse, è sicuro che molti penserebbero erroneamente che erano amici d’infanzia. Invece lui l’ha conosciuto al campo d’addestramento, un ragazzino in mezzo ad altri ragazzini – alcuni persino più giovani di lui, che era poco più di un moccioso.
Si sono conosciuti per caso, messi vicini nella stessa esercitazione a gruppi, e si sono parlati lo stretto necessario che serve a comunicare in guerra. Al campo base, dove c’erano le brande delle reclute come loro, c’era chi riusciva ad apprezzare attimi di falsa normalità, come se non fossero lì per diventare soldati ma in una specie scuola con le armi al posto delle penne e le tecniche di sopravvivenza a sostituire gli argomenti scolastici elementari. E poi c’era chi, come Jean, era spaventato a morte e fingeva di non avere paura di nulla, convinto che bastasse crederci perché alla lunga diventasse vero, e che se avesse mostrato di essere debole, allora non sarebbe mai sopravvissuto nemmeno all’addestramento.
Rimaneva sulle sue e, se fosse dipeso da lui, era abbastanza sicuro che non avrebbe mai legato davvero con nessuno; d’altronde, che senso ha legare in guerra? Nella migliore delle ipotesi, solo un soldato su dieci sopravvivrà.
Ma Marco non era dello stesso avviso: era di quelle persone incapaci di abbandonare gli altri al loro destino, che se lo fossero scelto o che gli fosse stato imposto. Era così che si era avvicinato a Jean, in un momento come tanti altri, in un giorno qualsiasi durante uno dei pasti consumati in gruppo. Il cibo non è di certo da gran ristorante, in guerra; ancora oggi, che in uno di questi locali ci lavora, Jean non riesce sempre a mangiare cose troppo pesanti, come se il suo stomaco fosse stato abituato per troppo tempo a mandar giù poco e nulla, pasti frugali che ti permettessero di entrare in azione in qualsiasi momento e al tempo stesso avessero il nutrimento minimo perché il fisico non crollasse. Ma non si può parlare di “mangiare con gusto”: mangi perché hai fame. Niente di più.
Invece Marco si era seduto di fronte a lui come se fosse la cosa più naturale del mondo, come se quel posto fosse sempre stato occupato da lui, come se quella di mangiare insieme fosse una tacita promessa fin dall’inizio o un’abitudine presa con il tempo; come se quel posto, lì di fronte a Jean, spettasse di diritto a lui e a nessun altro. Era stato strano alzare lo sguardo e trovarsi davanti un sorriso.
Era stato strano pensare che ci fosse ancora qualcosa di bello e felice, in un modo che chiedeva a dei ragazzini di andare a morire per una causa che nemmeno conoscevano.

Alla fine era stato proprio così: quel posto, da quel giorno, era sempre stato di Marco. Non importava che fosse dove mangiavano tutti insieme, o durante l’addestramento, o dove dormivano: accanto a Jean c’era lui. Anche se all’inizio era stato difficile abituarsi non tanto all’altro nello specifico, ma alla presenza di un’altra persona, di un alleato; era stato molto più complicato imparare a fidarsi che apprendere le tecniche di sopravvivenza, ed era stato quasi impossibile riuscire a capire che c’era finalmente qualcuno a cui la vita non avrebbe dovuto toglierla, ma a cui avrebbe potuto affidare la propria.
Era stata la prima volta, da quando era un soldato, che Jean aveva sentito di voler proteggere qualcosa e non solo uccidere per non essere ucciso. Quella sensazione nuova gli aveva riempito cuore e anima all’improvviso, tanto che – ma era certo che si fosse trattato di una suggestione della propria mente, nella confusione del momento – aveva creduto fosse strano persino fare una cosa facile come respirare.
La guerra non era diventata bella, era chiaro: faceva comunque schifo, faceva paura, ti portava ad essere naturalmente incline al pensiero pessimista che non ne saresti mai uscito vivo. Non poteva nemmeno definirsi sopportabile, né aveva acquisito un senso – quello le guerre non lo hanno mai – ma aveva finalmente avuto un suo scopo.
Restare vivi. Aggrapparsi alla vita con tutta la forza che aveva in corpo, non per sopravvivere e basta ma per tornare a vivere.
E per mesi, Jean non aveva saputo dargli un nome, e quando a Marco faceva discorsi particolarmente seri la notte prima di essere mandato al fronte – cercava di dirgli addio senza dirglielo davvero, perché gli sembrava di sprofondare in un’oscurità peggiore di quella che si sentiva dentro quando uccideva persone su persone, soldati come lui uno dopo l’altro – riceveva un sorriso.
«Dormi, Jean.» lo ammoniva con gentilezza «Il mondo non finisce domani.»
Gli dava speranza. Una cosa che a Jean era mancata anche prima della guerra.

Era vero. Il mondo non era finito il giorno dopo, né il mese successivo, né l’anno seguente; era ancora lì, pieno di persone che andavano avanti.
Jean non se ne era stupito, non era mai stato il tipo di persona che si chiedeva – come nei libri troppo sentimentali per i suoi gusti – “come mai il sole sorge anche se tu non ci sei più”; aveva sempre creduto, e l’esperienza della guerra aveva rafforzato fin troppo questa sua convinzione, che non ci fosse nessuno di insostituibile al mondo e che pertanto questo continuasse, non importava quante persone morissero o chi fossero state in vita. Non glielo insegnava la storia dell’umanità, dopotutto? Un susseguirsi di guerre, di scontri senza senso che avevano sempre vittime. Vincitori e vinti, certamente, ma in comune c’era sempre quello: il numero incalcolabile di perdite. Perciò no, Jean non si era stupito quando alla morte di Marco nulla sembrava essere cambiato in ciò che vedeva, sentiva, in ciò che si muoveva intorno a lui.
Jean si era chiesto perché lui riuscisse a svegliarsi ancora ogni mattina, perché respirare non fosse difficile, perché il suo corpo gli imponesse ancora di nutrirsi. Perché sul campo di battaglia aveva imparato che il mondo di una persona non era necessariamente uguale a quello di un’altra, che poteva limitarsi ad un altro individuo, o alla famiglia, o a un valore.
Per tre anni il mondo di Jean era stato Marco, il legame con lui e la certezza di volerne uscire vivo con lui; di poter vivere non come ragazzini-soldato, ma come ragazzini e basta: frequentare la scuola che Jean a malapena ricordava come fosse, scoprire com’era la sensazione di una famiglia, andare a dormire con la possibilità di fare tardi senza preoccuparsi delle ripercussioni che la cosa avrebbe avuto. Preparare un pasto per conto proprio, cercare un proprio posto nel mondo sapendo che comunque, per quanto difficile fosse costruirsene uno proprio, avrebbe sempre avuto una casa in cui tornare; e non sarebbe stato solo.
La speranza che Marco gli aveva dato era quella di una vita normale, fatta di cose semplici e della totale assenza di solitudine: un’esistenza in cui gli incubi popolati da armi e cadaveri sarebbero stati solo un ricordo lontano e, se anche qualche volta fossero tornati a perseguitarlo, Marco sarebbe stato accanto a lui a passargli una mano calda sulla schiena e a dirgli che era stato solo un brutto sogno.
Ora, quando Jean si sveglia da un incubo – a volte urlando, a volte no – si ritrova in un letto vuoto, la maglia che usa come pigiama attaccata alla schiena per il sudore, e il terrore nel cuore di chi è destinato a rivivere un errore per tutta la vita.
Non c’è nessuno accanto a lui, proprio come non c’è stata la spensieratezza che dopo la guerra aveva sperato di poter assaporare; aveva avuto un’istruzione media in una di quelle scuole serali per chi aveva perso troppi anni di scuola per mettersi in pari normalmente, viveva in un appartamento da solo perché non era in grado di convivere con una persona senza spaventarla con urla notturne, lavorava per mantenersi e dirsi cittadino di un mondo di cui non si sentiva parte, e ancora una volta non avrebbe saputo dire cosa significasse tornare in una casa in cui sentirsi bene.
Nessuno aspettava, in quell’appartamento, e nessuno gli diceva che era solo un brutto sogno; aveva smesso di impegnarsi a cambiare qualcosa che non era in suo potere far cambiare.
Aveva smesso di sperare in qualcosa di più della sopravvivenza e si accontentava di aspettare, dandosi una parvenza di normalità con una routine organizzata che gli desse la sensazione di stabilità.
Non pregava, perché Dio – se c’era – l’aveva abbandonato troppo tempo fa perché lui ricordasse ancora come ci si rivolgesse a qualcuno con così tanta fede.
Non c’è nessuno a ricordargli che il mondo non finisce domani.
Per quel che lo riguarda, il suo mondo lui l’ha annientato dieci anni fa.


«Signor Kirstchein.» lo richiama Heiderich, e a quel puntoJean è costretto ad alzare lo sguardo.
Il medico raramente ha cambiato espressione con lui, in quel primo mese di terapia; o meglio, non gli ha mai rivolto occhiate particolarmente severe, nemmeno quando le reazioni del giovane sono state esagerate, fuori luogo, o quando l’unica cosa che lui gli ha rivolto è stato il silenzio.
«Abbiamo quasi finito il tempo a nostra disposizione.» gli comunica, con un’occhiata veloce all’orologio al polso «Vorrei assegnarle un compito, per la prossima seduta.» prosegue quindi, quando Jean era già in procinto di alzarsi; lo guarda perplesso, rimanendo dov’è e inarcando un sopracciglio. Heiderich non gli ha mai dato “compiti”, né particolari cose da fare. D’altronde è lui il medico e per quanto ne sa Jean, magari l’assenza di provvedimenti nei suoi confronti era dovuta solo ad un’analisi iniziale che l’altro stava facendo con le sue domande e l’osservazione dei suoi atteggiamenti.
«Vorrei che lei scrivesse.» inizia l’uomo, e forse l’aria scettica che si riflette nello sguardo di Jean basta a convincerlo a spiegarsi meglio «Non un diario. Ma quando si sveglia dagli incubi, ad esempio. O quando si sente particolarmente frustrato.» continua: «E la prossima settimana, se avrà scritto qualcosa, vorrei che me la portasse.» conclude.
Jean non ha idea se sia una cosa che fa fare a tutti i suoi pazienti, ma sospetta di no. Ha la sensazione che sia un metodo che sta rispolverando con lui perché passano metà della seduta – se non di più – con lui che guarda ostinatamente un punto imprecisato della stanza, o rivolge occhiatacce allo stesso medico, dando risposte che di definito hanno solo il tono sgarbato con cui le pronuncia e il modo in cui si mette sulla difensiva.
Scrivere. Non scherziamo: «Veramente l’ultima cosa che voglio è ricordarmi quello che sogno.» gli fa presente, alzandosi finalmente dal divanetto dove si siede ogni mercoledì e muovendosi verso la porta. Ricorda già i dettagli degli incubi senza bisogno di metterli su carta, con il rischio di imprimerseli ancora di più nella mente; è lì per smettere di essere perseguitato da quelle immagini, non per aiutarle a rendergli la vita un inferno per almeno altri dieci anni.
«Signor Kirstchein.» lo richiama Heiderich, con il tono pacato che sembra non incrinarsi mai; sospira seccato, ma si volta comunque in sua direzione, la mano già sulla maniglia perché davvero, vuole soltanto uscire da lì: «Anche se ora non ci crede, andrà meglio.» gli fa presente, quasi confortante.
Si richiude la porta alle spalle senza dire nulla.


Passava ore perdendo tempo, seduto su quel divano troppo impersonale, come a dire che fuori da l
ì sarebbe piombato di nuovo tutto addosso. Era in una stanza a parte, fuori da tutto, dove parole calcolate gli dicevano che sarebbe passata, che il dolore sarebbe scomparso un giorno, senza che nemmeno se ne accorgesse; che era la rabbia a tenerlo ancorato all'odio e che l'odio lo logorava dentro.
Passava ore ad ascoltare stronzate da uno che la guerra non l'aveva vista nemmeno da lontano e che avrebbe dovuto risolvere i suoi problemi, e ci si aspettava da lui che annuisse in silenzio e fingesse di sentirsi felice.
Ma la verità era che uscito da l
ì il mondo non era bello, la realtà non era meno dolorosa: era ancora tutto come prima, e lui non era felice perché quando uccidi la gente non puoi più raggiungerla la felicità delle persone normali.
E ogni volta che varcava la soglia perché "il tempo a nostra disposizione è scaduto", avrebbe voluto tornare sui suoi passi fino alla poltrona dove sedeva Heiderich e stringergli le mani al collo e dirgli che non gliene fregava un cazzo se era uno "specialista".
Lui non stava meglio, il mondo faceva schifo e l'unica cosa che poteva renderlo felice non c'era.
Marco non era da nessuna parte e lui, del suo "andr
à meglio col tempo", non se ne faceva un cazzo.
Questo avrebbe voluto dirgli.
Ma, dopotutto, a cosa sarebbe servito?

   
 
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