Storie originali > Generale
Segui la storia  |       
Autore: endif    22/12/2013    3 recensioni
Quel sole le stava friggendo il cervello.
Registrava l’implacabile innalzamento termico, il pigro sfrigolio e il progressivo obnubilamento delle attività cerebrali con una sorta di curioso interesse accademico.
In quel momento, ad esempio, guardava le labbra della donna al suo fianco muoversi a venti centimetri dai suoi occhi, ma era stata catapultata in un luogo di totale deprivazione sensoriale quando la lancetta dell’orologio aveva conquistato le due del pomeriggio e, dunque, ritenne di essere già fortunata così. A poterla almeno vedere ancora.
D’altra parte quella arrancava stoicamente lungo un lastricato di sampietrini in lieve pendenza che in circostanze normali avrebbero potuto percorrere a braccetto, con dodici centimetri di tacco a spillo e il sorriso sulle labbra, ma in quel momento a lei parve solo di muovere un tronco di sequoia secolare davanti all’altro. Dubitava, quindi, che Francesca avesse da pronunciare qualcosa di senso compiuto, ma la profonda amicizia che nutriva per lei la indusse comunque a dire qualcosa, giusto per solidarietà.
«Sei proprio una stronza», ansimò mentre qualcosa di ruvido le si infilava nei sandali, tra le dita dei piedi.
Genere: Generale, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
acciaroli

3




«Puoi iniziare con quelle lampade da tavolo. Devono essere spolverate».

Carla lanciò uno sguardo sgomento alla direzione che Giambattista le aveva indicato non appena aveva messo piede nello squallido negozietto di antiquariato. Poiché quelle erano le prime parole che le rivolgeva senza alcun riguardo alla cortesia di un saluto convenzionale, la ragazza realizzò che quaranta gradi all’ombra non erano nulla se paragonati a quanto l’avrebbe fatta sudare quel tipo per decidersi a darle il quadro di suo nonno.
S’era pure fatta bella. Con un vestitino di lino senza maniche e i capelli acconciati in modo vaporoso ma naturale sotto un cappellino bianco con un nastrino di raso rosso. E aveva portato un sacchetto di dolci alle mandorle e un bricco di caffè preparato dalla proprietaria linguacciuta del B&B perché se un uomo le diceva che poteva fare di meglio, a lei non restava che raccogliere la sfida e fargli rimangiare ogni parola.
Depose dolci e bevanda su uno dei tavolini vicino all’ingresso con molta meno grazia di quanto si era ripromessa, tolse il cappellino con un gesto brusco impigliandosi una ciocca, naturale e vaporosa, nella paglia e ingoiò buona parte dei commenti al vetriolo che sentiva salire alle labbra, intendendo risparmiarli per un secondo momento. Preferibilmente dopo aver raggiunto il suo obiettivo.
«Sicuro che devono essere spolverate?». Carla si rigirò tra le dita un orrendo puttino che al posto della testa aveva una lampadina e cercò di reprimere una smorfia di disgusto. «Queste non se le prende nessuno. Nemmeno se sei tu a pagare loro».
Lanciò uno sguardo fugace a Giambattista intimandosi di essere più cordiale e meno pungente, ma quello entrava ed usciva da una porticina, evidentemente un retrobottega, senza prestarle in apparenza la minima attenzione. Carla soppesò la macabra lampada da tavolo nella mano e, valutando la distanza, gli ostacoli, la luce, il vento e la pendenza nel negozio, ritenne di poter centrare la testa del proprietario senza sforzo.
Giambattista rispuntò dal retro reggendo due colonnine di legno intarsiate che la ragazza non trovò eccessivamente sgradevoli come gran parte di ciò che era presente in quella bottega, ma incastrati sotto a un braccio l’uomo portava anche i due piccoli ripiani superiori: come gran parte di ciò che era presente in quella bottega, anche le colonnine andavano riparate.
Tutto, in quel negozio, attendeva di essere riparato.
Pensò di scagliare il puttino alla cieca: in un colpo solo poteva risparmiare a Giambattista almeno sette, otto ore di lavoro e, invece di terminarlo, ne avrebbe conquistato la riconoscenza. E il quadro di suo nonno.
Ma poi le arrivò addosso un fagotto polveroso e pungente di abiti come se fosse un proiettile. Solo grazie ai suoi poderosi riflessi, la ragazza evitò una caduta accidentale della preziosa lampada da tavolo e nel contempo riuscì a non mancare il lancio.
«Mettili, se vuoi che il tuo vestito resti bianco e grazioso».
Mai, nemmeno in un milione di anni lei avrebbe indossato gli indumenti di un ricattatore, sfruttatore, approfittatore che fingeva di avere a cuore il suo abitino da trecento euro.
«Non credo che mi servir-»    
Qualcos’altro le colpì il braccio.
«Con questo puoi coprire i capelli. Gente di città…».
E scomparve nel retrobottega, scuotendo il capo.

*****

«Posso sapere cosa stai guardando?». Carla sbirciò tra le dita della mano destra e scorse Giambattista, un gomito appoggiato sul ginocchio a reggersi il mento, il martello penzoloni nell’altra mano, che la fissava, proteso verso di lei.
«E’ da un’ora che fai quella cosa con le dita», smozzicò quello, due chiodi che si reggevano in bilico da un angolo della bocca.
«Quale cosa?»
«Quella. Ti strofini gli occhi. In continuazione». L’uomo si tirò indietro, prese un chiodo dalle labbra, lo posizionò e diede un paio di martellate allo sportello del comò che stava riparando. «Hai i canaletti otturati? Una volta avevo un cane che lacrimava sempre. Aveva i canaletti otturati». E giù con l’altro chiodo.
Carla lo fulminò con un’occhiata sprezzante, gentilmente offerta dai suoi “canaletti” pervi. «I miei dotti lacrimali funzionano benissimo, nonostante non li eserciti da quando avevo sette anni circa. E’ la polvere», chiarì. «Mi fa starnutire e mi strofino la base del naso, vicino agli occhi, per evitarlo».
Giambattista annuì senza guardarla. «Anche il mio cane. Si strofinava il naso con la zampa quando gli prudeva».
La ragazza chiuse gli occhi e cercò le ultime briciole di pazienza dentro di sé. «Forse era allergico», replicò sarcastica.
«Avverto nelle tue parole una leggera riprovazione. Non ti sarai offesa?», domandò l’uomo. «Guarda che è stato un buon cane. Gli volevo bene».
«Offesa? Fammi pensare …», Carla si mise un dito al centro del labbro inferiore e volse lo sguardo verso l’alto. «Hai cercato di vendermi qualunque cosa presente in questo negozio su cui, sciaguratamente, è caduto il mio sguardo provando a truffarmi sul prezzo il cento per cento delle volte. Eccetto che per il quadro di mio nonno. Quello non vuoi venderlo. No, perché i soldi io voglio darteli ma per quello tu non intendi prenderli. Dici che posso fare di meglio e allora torno qui, con tutta l’umiltà e la buona volontà che possiedo, ma tu hai una visione mistica e decidi che sono perfetta per spolverare, rassettare, lucidare le tue cianfrusaglie mentre tu dai qualche colpo di martello qui e lì, in una versione tutta personale del lavoro di restauro, ma universalmente riconosciuta di sessismo».
La ragazza si alzò dallo sgabello scuotendo polvere e sporcizia dalla parte anteriore del suo vestito – vestito che si era categoricamente rifiutata di sostituire a beneficio degli abiti che Giambattista le aveva offerto – e si strappò dalla testa il foulard che aveva accettato, invece, per proteggere i capelli. Sentiva un calore montarle al cervello ma s’impose di mantenere una parvenza di controllo, sebbene fosse consapevole che ormai era giunta al limite della pazienza.
«E adesso mi paragoni al tuo cane. Che sarà stato pure più fedele di Lassie, ma resta pur sempre un animale, che ha fatto la pipì sui tronchi degli alberi e sulle ruote delle auto. Ma no. Perché mai dovrei sentirmi offesa?».
Ribolliva di rabbia.
Non avrebbe saputo spiegarlo diversamente, ma dopo ore impegnate in lavori manuali si sentiva il corpo indolenzito, le spalle contratte, le dita intorpidite e il naso continuava a pruderle incessantemente per tutta la polvere che dagli strofinacci le si era riversata addosso. Era stanca, affamata e non aveva più la forza di tergiversare, né di tenere a freno le sue emozioni.
Giambattista, che per tutto il tempo non aveva smesso di martellare, diede un ultimo colpo solenne all’anta del comò, si raddrizzò, depose l’attrezzo sul ripiano superiore del mobile e tirò fuori la pezzuola lercia dalla tasca per strofinarsi con calma le mani.
«Ti sei offesa», constatò con irritante placidità.
«Okay, ora ne ho davvero abbastanza». Carla avanzò con passo battagliero e si fermò ad un passo da lui. «Ho fatto tutto quello che volevi. Ho riso delle tue battute stupide, sono stata gentile e carina con te. Ora, perché non mi dici se hai intenzione di darmi il mio quadro e la facciamo finita?».
«Dalle mie parti, nessuno ti definirebbe gentile. Carina sì. Ma gentile …». Giambattista scosse appena il capo in segno di riprovazione e Carla batté il piede a terra per la stizza.
«Dimmi, pessima Carla, cosa sta facendo la tua amica in questo momento?», incalzò l’uomo.
La ragazza aggrottò la fronte per la sorpresa. Che c’entrava Francesca in tutto questo?
Fece spallucce. «Credo… mi pare che sia tornata alla Torre. Ha detto che stanno allestendo una mostra e che il custode l’avrebbe fatta entrare in via eccezionale… non lo so! Ma che t’importa?», spalancò le braccia per lo sconforto. Dove voleva andare a parare con quelle domande?
«Bene. Allora, dimmi», ammiccò lui e le si accostò un po’. «Cosa sei disposta a fare per avere quel quadro?».
Carla fece un passo indietro e raddrizzò la schiena. Quello di sicuro non era disposta a farlo.
«Se credi che sia quel tipo di persona, di donna», riprese fiato. «Oh, ma certo! Tu sei convinto che io sia pronta a fare quello che pensi facciano le donne per ottenere qualcosa. Tipico di voi uomini!». S’interruppe perché la veemenza dell’indignazione che aveva preso il posto della rabbia la soffocava.
«Hai finito?», le domandò quello, senza scomporsi e Carla si chiese come potesse restarsene così calmo dopo una proposta tanto sfacciata. Strinse le labbra tra loro indispettita e dopo qualche attimo di silenzio da parte di entrambi si voltò, pronta ad andarsene via.
«Quando sei diventata così diffidente nei confronti del prossimo, Carla? E’ stato tuo padre a deluderti?».
La voce di Giambattista bloccò i suoi movimenti. Poteva essersi lasciata sfuggire qualche commento personale durante il tempo trascorso insieme, ma questo non autorizzava le sue illazioni.
«Come ti permetti … tu non mi conosci», sibilò risentita, girandosi a guardarlo.
«Lo credi davvero? Sei una donna giovane, bella ma avvizzita nell’animo. E hai sofferto talmente tanto in vita tua che non permetti più a nessuno di raggiungerti. Sei avvelenata dal rancore e lo usi per schermarti dal resto del mondo. Non ho bisogno di conoscerti quando mi basta riconoscerti».
Giambattista le era così vicino che Carla dovette inclinare il capo indietro per sostenerne lo sguardo. «Hai bisogno di allontanare la rabbia da te. E’ importante, credimi».
La ragazza continuò a fissarlo, in silenzio.
«Perdonati, Carla. Lui l’ha fatto».
Il respiro le si bloccò in gola. Non poteva… non era possibile che lui sapesse…
Si voltò e fuggì via dalla quella bottega e da quel paesino del Cilento.

*****

«Fate largo alla balena spiaggiata! Oh, tesoro! Sono arrivata!».
Francesca entrò in casa di Carla assicurandosi che tutto il vicinato sapesse che lo stava facendo. Erano degli impiccioni. Ogni volta che camminava sul pianerottolo li poteva quasi sentire respirare dietro le porte, a studiare il nuovo arrivato dallo spioncino e a domandarsi cosa ci fosse tra quelle due donne che stavano sempre insieme. Specie ora che una delle due camminava fieramente con un bel pancino gravido di sei mesi.
Che pensassero pure che erano lesbiche e che avessero realizzato l’inseminazione artificiale. D’altro canto, lei non riteneva differente da questo il modo in cui era rimasta incinta sei mesi prima, poco prima che il suo ex fosse beccato a bazzicare le prostitute e fermato dalla polizia. L’aveva fatto uscire grazie alla sua amicizia con il Questore, ma non aveva voluto più vederlo. E da allora non l’aveva più sentito.
«La smetti di urlare come una pazza? Che poi esageri sempre: sei un’acciuga, altro che balena. In tutto avrai messo su tre chili».
«Cinque! Ti rendi conto? Arriverò a fine gravidanza che avrò perso il conto».
Carla le prese il soprabito e le sorrise comprensiva. «Andremo a fare jogging insieme, non temere. La strega la portiamo con quei passeggini ergonomici… ne ho visto uno delizioso su un catalogo on-line…»
Francesca ricambiò il sorriso. Carla era stata stupenda con lei. Le aveva rivelato della gravidanza solo dopo il viaggio che avevano fatto insieme, quattro mesi prima quell’estate nel Cilento. Lei aveva bisogno di riflettere sul futuro suo e di quella creatura e quel viaggio era stato rivelatore: non avrebbe mai smesso di ringraziare Carla per averla portata lì, ad Acciaroli, dove Francesca aveva capito davvero quale fosse la scelta giusta da compiere.
E la sua amica si era dichiarata entusiasta e disponibile ad aiutarla quando le aveva confidato che quel bambino voleva tenerlo. L’aveva abbracciata e le aveva detto che le cose succedono sempre per una ragione.
«Sei incredibile», mormorò Francesca, ferma sulla soglia del salotto. «Come fai a creare un ambiente così caldo, confortevole, così… natalizio, senza nemmeno un camino?». Osservò l’albero che toccava quasi il soffitto, le luci dorate e blu che si accendevano e spegnevano lentamente, le palline decorate in tessuti preziosi che pendevano dal soffitto, le finestre bordate di finta neve, il tappeto rosso ed oro che dominava il pavimento e pensò che sua figlia sarebbe stata una bambina fortunata ad avere una zia come Carla.
«Faccio l’arredatrice, che cavolo! Saprò decorare un ambiente in occasione del Natale».
Mentre Francesca si accomodava sul divano e cercava di non farsi allettare dai profumini provenienti dalla cucina, Carla tornò con piatto di stuzzichini che poggiò sul tavolino dinnanzi a lei. Le strizzò l’occhio. «Jogging. Stai tranquilla».
Prese un salatino e lo portò alle labbra, beandosi dell’atmosfera confortevole da cui era più che bendisposta a farsi avvolgere. «Mmm, sono i quadri di tuo nonno quelli?», domandò prima di mordersi la lingua. Parlare del  nonno non era un argomento indolore per Carla, anche se di recente sembrava più incline a farlo. Dopotutto lei sapeva che l’amica non si era mai perdonata di non esserci stata quando suo nonno era morto, solo in un ospizio. E benché Francesca avesse rimarcato come quella struttura fosse la più adatta alle esigenze dell’anziano, malato di Alzheimer da anni, Carla non si era mai convinta del tutto.
L’amica annuì, lanciando uno sguardo alle pareti su cui aveva esposto alcuni dei lavori di suo nonno. «Sì. Ho pensato che il loro posto è questo, dove possono vederli tutti».
Francesca approvò studiando l’espressione dell’amica: sembrava serena.
«Mi dispiace per quel dipinto, quello di Acciaroli. Sei davvero sicura che fosse di tuo nonno?», domandò.
L’amica fece spallucce. «La firma era illeggibile, ma ne sono quasi certa. Non importa, comunque. Costava davvero troppo».
«Allora. Vuoi dirmi qual è il menu della se-»
Il ronzio del citofono nell’ingresso interruppe la sua domanda e lei e Carla si scambiarono uno sguardo interrogativo.
«Hai invitato qualcun altro?», domandò.
«La sera di Natale? Nessuno merita questo onore. Dammi un momento», rispose Carla e si allontanò dalla stanza.
Quando udì il rumore della porta d’ingresso, Francesca lanciò uno sguardo alle scarpe di cui si era disfatta quasi immediatamente pensando – ma solo per qualche breve istante - che poteva essere più corretto se le avesse infilate di nuovo, specie in previsione del nuovo, inatteso ospite.
Ma quando Carla tornò era sola e reggeva un grosso pacco ricoperto con carta per imballaggio e fissato con uno spago.
«Caspita. Un regalo». Si alzò dal divano, sollevata di non essere stata costretta a recitare la parte dell’avvocato di successo su dodici centimetri di stiletto e si avvicinò all’amica. «Chi te lo manda?».
Carla osservava il pacco con la fronte aggrottata. «Non c’è nessun biglietto», e quindi lo scartò velocemente.
Era un quadro, simile in modo impressionante a quelli che ornavano le pareti della stanza in cui si trovavano e, incastrato in un angolo della cornice, c’era un biglietto, la carta ingiallita dal tempo.
«E’ quello? Il dipinto che volevi acquistare?», domandò alla sua amica, ma quella era intenta a leggere il messaggio, dopo aver staccato il cartoncino dal bordo del quadro. Lo lesse due volte, prima di voltarlo per vedere se ci fosse scritto altro sul retro e solo allora Francesca notò che non si trattava di un bigliettino di auguri tradizionali, ma di una foto, in bianco e nero, lisa ai bordi.
«Non è possibile…», mormorò Carla.
«Cosa? Ti hanno mandato il quadro di tuo nonno, giusto?», sollecitò l’amica e visto che non le rispondeva le tolse di mano la foto e lesse il messaggio, senza troppi convenevoli.

Sapevo che qualcuno sarebbe arrivato.
Niente accade per caso, pessima Carla.
Buon Natale
G.

Francesca voltò la foto per vedere chi ritraesse. C’era un gruppo di uomini e donne in posa, ma con abiti dismessi, segno che l’istantanea era stata scattata rubando un momento alla quotidianità. Davanti a loro uno stuolo di bambini, con i visi e le mani tutti sporchi di polvere e fuliggine. Dietro di loro, Francesca riconobbe la Torre Normanna di Acciaroli.
«Ehi, ma questo non è tuo nonno?», domandò strizzando gli occhi per sovrapporre l’immagine del giovane che aveva tra le mani e quella dell’uomo che rammentava di aver visto in molte foto presenti per casa.
Carla annuì col capo, tenendosi la mano alla base della gola.
Francesca osservò la foto per qualche altro istante e poi spalancò gli occhi e la bocca per la sorpresa. «Tuo nonno era tra le persone che avevano salvato tutti quei fuggiaschi, nascondendoli nei cunicoli sotto la Torre durante la guerra! Perché non me l’hai mai detto?».
La ragazza scosse il capo e deglutì, ma non si unì alla meraviglia dell’amica che continuava a studiare la fotografia, i volti di quelle persone, di quei bambini, per lo più ebrei.
«Caspita. Tuo nonno era un eroe. Me le ricordo alcune di queste persone. Il custode della Torre mi ha mostrato la stanza che hanno dedicato loro per quella mostra di cui ti ho parlato. Vedi questa?», con un dito indicò una donna dall’aria dolce e remissiva. «Due nazisti bussarono alla sua porta e lei li uccise a sangue freddo per proteggere cinque di questi bambini che nascondeva in cantina. E questo qui?». Avvicinò la foto all’amica per facilitarle la visuale, ma quella si ostinava a guardare da un altro lato. «Questo con quegli orrendi pantaloni e le braccia muscolose? Che si strofina le mani con quello straccio? S’è fatto torturare per giorni prima di essere giustiziato per non aver voluto rivelare il nascondiglio dei fuggiaschi. Ha salvato centinaia di persone, la maggior parte bambini.       Aveva un nome assurdo…  Gian-qualcosa…»
«Giambattista. Il suo nome era Giambattista».



FINE






Salve a tutti.
Per chi mi conosce già per aver infestato il fandom Twilight per anni: il vostro masochismo non ha limiti se mi avete seguito anche qui. Bentrovati.
Per chi mi legge per la prima volta: non abbiate paura, questa è solo una brevissima incursione nel sito, ma già fra qualche minuto potrete dimenticare di avermi mai conosciuta. Grazie per la fiducia accordatami leggendo fino alla fine.
Questa minific è nata come una OS. Anzi, come una singola scena che mi ha lacerato la mente diversi anni fa e che ho dovuto accantonare per forza maggiore: una ragazza che scendeva sospettosa i gradini di un sottoscala in quel posto meraviglioso che è Acciaroli. Perché scriverla adesso? Perché, come molti di voi già sanno, qualche mese fa mi sono assunta l’impegno di revisionare la fan fiction “Una sera, per caso …”, senza sapere che sulla mia strada sarebbero comparse due editor terrificanti, e la revisione sarebbe passata a riscrittura. Non fraintendetemi. Mi sto divertendo come una pazza, ma il mio personale concetto di divertimento è, forse, un po’ deviato: fare le due di notte per apportare delle correzioni pur sapendo di dovermi svegliare alle sei di mattina per andare a lavoro. E poi, il giorno dopo, ricorreggere ancora. E magari ancora.
Ecco. Io mi diverto quando mi demoliscono una scena o un intero capitolo, perché questo significa che non ho dato ancora il massimo e ci si aspetta che possa fare di più.
L’OS/minific nasce dalla necessità di rilassarmi tra un colpo d’accetta e una lavata di capo, un modo per riportare lo stress a livelli accettabili, per scrivere senza pretese né troppe seghe mentali. Per scrivere e basta.
Soprattutto, è il mio modo di augurarvi Buon Natale, perché amo il Natale e volevo che aveste qualcosa di mio da scartare sotto l’albero: la speranza e la fiducia nella vita, la capacità di riconoscere le occasioni e il coraggio di saperle cogliere.
Ed è il mio ringraziamento speciale per Francesca, a cui l’intera storia è dedicata.
Vi va di scartare un altro regalino? Per chi non si fosse già fiondato, passate qui perché Mirya è tornata su EFP con una nuova storia!
Se avete piacere a seguirmi e a conoscere il destino della spremitura dei pochi neuroni ancora all'attivo vi invito su Twitter, Facebook e sul mio blog.

 Auguri!
 E.M.
   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: endif