Non era un dono, ciò che sentiva.
Era strazio, dolore, una voce stridula che lentamente si impossessava della libertà, la consapevolezza, grave e pesante, di dover fare qualcosa prima della fine...
Genere: Dark | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
Le auto sfrecciavano, la gente urlava, il caos cresceva ad ogni secondo.
Sabine si guardò attorno, spaesata.
Non era mai stata a New York, prima d’ora. La immaginava come
un passaggio obbligato, una tana di gente troppo di fretta per
soffermarsi a guardare le cose belle della vita.
Ma non era così. New York era molto peggio.
Era un ammasso informe di smog e inquinamento acustico, vetrine
agghindate e gioielli troppo costosi per essere comprati. Dischi pirata
nascosti in ventiquattrore di pelle, Mercedes tirate a lucido, borsette
false e falsi griffati.
Niente a che vedere con la calma e monotona routine di Stonebury.
Fuori dall’aeroporto, un taxi a scacchi giallo e bianco,
sparava musica funky nel parcheggio.
Sabine si avvicinò al finestrino, bussò al
conducente e chiese, sillabando con la bocca: -E’ libero?-.
Il tassista, un africano con cappellino colorato e rasta attorno al
viso, sorrise e le fece cenno di salire.
Lei salì sul sedile posteriore ed affondò nella
pelle bianca dell’auto.
-Allora, dove ti porto, dolcezza?- le chiese il ragazzo.
-All’Ottantanove di Franklin Road.-
-Ma è dall’altra parte della città!-
protestò lui.
-Non preoccuparti, ho i soldi con me.- rispose calma lei.
Fuori dal finestrino, i colori della città sembravano
alternarsi come stagioni; il grigio dell’inverno sugli
edifici di mattoni, il verde primaverile sulle insegne fluorescenti,
l’arancione del sole d’agosto sugli scooter
abbandonati, ed infine il rosso delle foglie sulla coperta di un
barbone.
C’era qualcosa, di quella fretta, di quel caos, che la
affascinava. Forse il coraggio degli uomini che riuscivano a vivere una
vita intera con un metro quadro di cielo sulla testa, o forse la
tenacia dei bambini che si riducevano a giocare con palloni sgonfi e
reti sfondate.
O forse semplicemente il fatto che lì sarebbe stata libera
dalla sua pena.
Forse quegli spiritelli maligni avevano paura del grigiore della
città, o solo era troppo frenetica per loro; comunque, nelle
favole non c’erano mai delle fate in giro per New York.
Sabine sapeva che prima o poi l’avrebbero ritrovata, ma un
briciolo di speranza la incitava ancora a continuare la sua fuga.
Quei demoni le avevano distrutto la vita, le avevano negato ogni
possibilità di raggiungere i suoi sogni, avevano cancellato
tutte le sue aspirazioni con un battito d’ali.
La stavano ancora cercando, per renderla regina di un mondo di dannati.
Ma lei continuava a fuggire, impaurita, da quegli esseri spietati e
lussuriosi che cercavano il suo potere.
Mentre si perdeva nei ricordi, un locale attirò la sua
attenzione.
The Fairy Dancer – Tutto per la Magia
Sotto la scritta, una fatina al neon con minigonna e bacchetta magica
agitava le sue alucce a intermittenza con uno sguardo ammiccante.
-Si fermi qui per favore!- gridò al tassista.
-Ma...mancano cinque chilometri!-
-Non fa niente. Ecco- disse, gettando una banconota da cinquanta $ sul
sedile anteriore. –Tenga il resto-.
Uscì talmente in fretta dall’auto che non
sentì nemmeno la sua risposta.
Rimase immobile a fissare la vetrina del negozio.
Un manichino di ferro indossava un vestito più unico che
raro, di quelli che trovi solo nelle favole: il bustino di velluto
rosso e pizzo nero, la gonna rossa di seta, le maniche a sbuffo e
foglie d’edera appassita sparse su tutto l’abito.
I suoi occhi si spalancarono ; era sicura di aver già visto
quell’abito. Né su un libro, né su una
rivista di moda, ma l’aveva visto, da qualche parte.
Scrollò la testa per scacciare quella sensazione.
Con una mano spinse la porta di vetro del negozio, e vi
entrò dentro.
Scaffali di legno traboccanti di libri la circondavano, formano un
corridoio che finiva poi in una sala più grande e circolare.
Lì, su vari tavolini, bacchette, sfere di cristallo, amuleti
e pietre preziose si mettevano in bella mostra sopra a cartellini dei
prezzi.
Dietro a un bancone di vetro, una donna anziana leggeva un grosso
volume verde, reggendosi gli occhiali sulla punta del naso.
Quando Sabine fece il suo ingresso, la donna alzò gli occhi
e le sorrise.
-Benvenuta!- disse, alzandosi.
-Sei nuova di qui, vero? Non ti ho mai vista in questo quartiere.- le
disse la donna.
-Mi sono appena trasferita.- rispose Sabine, imbarazzata.
Bé, ragazza, qui c’è tutto
ciò di cui hai sempre sentito parlare nelle leggende; solo
che qui è reale.- le disse ancora, ridendo.
Sabine annuì, e si diresse verso un espositore di anelli.
Ce n’erano di tutti i tipi; grandi, piccoli, spessi, sottili.
Uno in particolare catturò la sua attenzione; non era
grande, non aveva pietre preziose, ma era straordinariamente bello.
Un cerchietto d’argento, una sottile striscia violacea
s’intrecciava al metallo, e al suo interno recava la scritta
Gael Lidyum Thea.
Sabine non conosceva assolutamente il significato di quelle parole, ma
l’anello l’aveva stregata.
Lo prese in mano e si diresse verso l’anziana donna.
-Prendo questo.-
Fuori, sotto il sole e tra le mani pallide della ragazza,
l’anello scintillava irradiando sulla sua pelle candida tante
piccole scaglie di luce.
Sabine lo guardava, rapita, e allo stesso tempo si chiedeva cosa
l’avesse spinta a comprare quel monile.
Non era mai stata vanitosa, anzi, c’era un baule in casa sua,
pieno zeppo di gioielli regalatele da parenti ed amici e mai indossati.
Era strano però come quell’anello
l’avesse attirata, strano come si potesse essere trasportato
magicamente dall’espositore alla sua mano.
Non ci badò molto; ormai era tardi, e non aveva la
più pallida idea di come raggiungere
l’appartamento del padre.
Proprio mentre si scervellava alla ricerca di una soluzione,
il cellulare squillò.
-Pronto?-
-Sabine!- Disse una voce roca e stanca, dall’altro capo della
cornetta.
-Papà!- rispose lei, sollevata. –Papà
sono sull’ottantunesima!-
-Santo cielo, Sabie, come fai a tornare?- chiese lui, allarmato.
Lei si mosse il labbro e non rispose.
-D’accordo, ho capito. Passo a prenderti. Se vedi una
Cinquecento verde, alza le mani.-
-Grazie papà! Sei il migliore!- Il padre chiuse la
conversazione, il fantasma di una risatina che aleggiava nella cornetta.
Sabine sorrise e si appoggiò ad una pensilina
dell’autobus, ricoperta di scritte e volantini colorati.
Con gli occhi seguiva le scie di fumo delle auto, o il gocciolare
ininterrotto delle grondaie ai muri.
Quella città, ai suoi occhi, appariva incredibile.
Un fagotto di emozioni represse, grida e urla di bambini che non
avevano nemmeno il tempo di vivere la propria infanzia.
Una donna, nel marciapiede di fronte a lei, spingeva un passeggino
avanti e indietro piangendo, ingombra di borse e buste.
Un altro uomo di colore, all’angolo, si teneva il braccio con
una mano per impedire alla ferita grondante di sangue di infettarsi.
Era così strano, tutto quel movimento, quella fretta
ostentata, quell’obbligo di essere indaffarati.
Dal suo arrivo a New York, Sabine aveva visto almeno un centinaio di
persone che parlavano concitate al telefono.
A Stonebury, se a una signora squillava il cellulare, si guardava
attorno gridando “Oh Gesù!”.
Sorrise, a quelle considerazioni. Ancora non si era resa conto di
essere stata catapultata in un altro mondo.
Nel mezzo dei suoi pensieri, un Maggiolino verde smeraldo
sfrecciò sulla strada sbuffando nubi di polvere nera.
-Papà!- Gridò, e si sbracciò per
essere notata dal padre.
L’auto accostò una decina di metri più
avanti, e Sabine corse a salutare l’uomo che per
più di dieci anni era stato un fantasma della sua vita.
-Sabine!- Gridò lui, sorridente, e anche visibilmente
emozionato, correndole incontro.
Lei gli saltò al collo, quasi commossa. Erano anni che non
si rivedevano, e quel momento era pregno della commozione del
ritrovarsi.
Il padre le strinse la testa, ammirandola.
-Quanto sei cresciuta...identica sputata a tua madre...- ammise con un
filo di tristezza.
Fece cenno alla ragazza di salire sull’automobile, e lei non
se lo fece ripetere due volte.
Gettò la sacca da viaggio sui sedili posteriori, e si
fermò a contemplare il disordine che regnava
nell’abitacolo; pacchi di sigarette, fazzolettini usati,
lattine di coca cola e bustine di tabacco.
David Cellington, giovane e attraente professore di Fisica, tre lauree
e quattro attestati, e la macchina più lurida di New York.
Storse il naso, e mentre la macchina ripartiva scrutò il
paesaggio fuori dal finestrino.
-E così, come va la vita lassù a Stonebury?-
chiese David.
-Mah, si tira avanti...Meg...ehm, la mamma...si sta vedendo con un
tipo...-mormorò.
Lo sguardo del padre si fece subito attento.
-Che tipo è?-
-Mi pare si chiami Alvin...è un tipo strano...Fa il
pompiere.-
Con sua grande sorpresa, il padre scoppiò a ridere.
-Tua madre...era una delle sue fantasie, un pompiere...mi diceva sempre
che dovevo lasciare il lavoro per entrare nell’Arma.- disse,
sempre ridendo.
Sabine sorrise, imbarazzata, e tornò a guardare fuori.
D’improvviso, si rese conto che il grigiume e la tristezza di
New York erano spariti. Ora c’erano prati verdi e casette di
pietra...dopo una mezz’ora di viaggio.
-Ehm...scusa papà, ma dove siamo?-
-Stiamo andando a casa Sab!- rispose lui con naturalezza.
Le lo fissò, interrogativa, e lui ricambiò, ma
con uno sguardo sbalordito.
-Andiamo, pensavi davvero che abitassi a New York? Ti sembro il tipo?-
le chiese sorridendo.
-Beh...no, in effetti no...Ma non sapevo abitassi in un posto
così! Come si chiama?-
-Cornell! Abito a Cornell.-
Gli occhi della ragazza erano completamente presi dal panorama.
Valli, promontori...grandi e vasti boschi di sequoie e rocce, montagne
rosse e verdi che si fondevano in un unico, naturale colore.
La paura e la consapevolezza arrivarono insieme, violente come uno
schiaffo in pieno volto.
Con tanti boschi, e tante valli, senza nemmeno un accenno di smog, il
suo incubo sarebbe tornato.
Anzi, i suoi incubi. Quelle vocine insistenti e fastidiose, quei
fruscii d’ali sarebbero tornati a popolare le sue notti.
La speranza se n’era andata. Ma aveva mai davvero sperato? Si
era mai augurata che quella tortura potesse aver fine, un giorno?
No.
Perché quelle creaturine gliel’avevano detto, non
c’era scampo. Le leggevano i pensieri, le vergogne e le
paure, e in silenzio le avevano promesso che quella tortura non avrebbe
mai avuto fine.
Sabine si sentì annegare nello sconforto.
Probabilmente suo padre la notò, perché le
chiese: -Tutto a posto?-
-Sì, sì, papà, non preoccuparti, solo
un po’ di mal d’auto.- Rispose lei, poco convinta.
-Vuoi che ci fermiamo?-
-No no, non ti preoccupare.-
Restò ancora un secondo incerto a guardarla, poi
tornò a prestare attenzione alla strada.
Dopo un’ora e mezza complessive di viaggio, la macchina si
arrestò davanti a una piccola costruzione di pietra,
quadrata e a due piani, circondata da un sottile lembo di prato
ricoperto dall’erica.
Tutto si prospettò in po’ meno orribile.
Sabine rimase incantata da quella visione, dalle finestre piccole e
rosse, e dalla panchina di legno bianco accanto alla porta
d’ebano.
Si ridestò solo quando una mano le sfiorò la
spalla.
Dietro di lei, David le porgeva la sacca sorridendo.
-Benvenuta a casa!-
Sabine è sola, nel giardino.
E’ una bimbetta di poco più di sei anni, un bel
viso rotondo e le guance rosse, e lunghi capelli corvini che sono
l’invidia di tutte le mamme delle sue amiche.
I rami di una quercia secolare la sovrastano,minacciosi, eppure lei non
si sente intimorita.
Sente che quella è la sua casa, che la linfa che corre in
quei fiori, in quelle foglie, è la stessa che le dona il
respiro e le fa battere il cuore.
I piedini nudi si muovono leggeri sul prato di foglie secche, cauti,
quasi a non voler disturbare la calma centenaria di quel luogo.
Un brusio.
Un volo d’alette impercettibile le sibila
nell’orecchio.
Si volta, di scatto, ma ciò che vede è sempre il
verde smeraldo della natura.
Allora, una risatina furba.
Sabine si volta ancora, allarmata, a cercare la fonte di quei rumorini
insolenti che le si annidano nella mente con prepotenza.
-Chi c’è?- sussurra.
Poi, lentamente, un mormorio agitato, prima flebile e lontano, poi
sempre più ritmico e vicino.
E’ un coro di voci, angeliche e terribili, che salgono dalla
terra e le attraversano il cuore, le braccia, il volto, gli occhi, fino
a raggiungere la testa e lì scatenare la loro potenza.
Un fascio di voci incomprensibili, che tutte insieme chiamano un unico
nome: Sabine...
Sabine piange, chiama la mamma, ma non risponde nessuno.
Le voci urlano, gridano, la reclamano.
Qualcuna, adesso, si fa più forte delle altre:
Vieni con noi...
-No!- urla la piccola, e si getta a terra, le mani alle orecchie, per
non sentire più quel fracasso infernale che le agita il
cuore.
-No!- Sabine urlò, eco dei suoi sogni, saltando sul letto,
ansimante.
Protetta dalla nuova ombra persistente della casa, volse lo sguardo
verso i led lampeggianti della sveglia: le sei e un quarto.
Non perse tempo ad imprecare e a bestemmiare qualcuno che di sicuro non
le avrebbe risposto; si trascinò a fatica nel bagno di
porcellana che la delicata villetta di Cornell le offriva.
Di fronte allo specchio, non trovò la solita vecchia Sabine,
la bambola di vetro dai capelli corvini.
Gli occhi viola, carichi, erano inespressivi; le guance rosse erano
sparite, lasciando il posto a delle occhiaie bluastre.
Inghiottì la paura in un solo suono sordo.
Nel silenzio della casa, sotto il russare di un uomo giovane
già diventato vecchio, una lacrima sottile corse sulla
guancia di Sabine.