questo racconto, il mio primo fantasy, partecipa al concorso indetto su Immaginifico (Fantaconcorso: II edizione. Music Inspiration).
Essendo scaduta solo l'altro ieri la data di consegna ancora, ovviamente, non sono disponibili i risultati, ma non appena ne saprò qualcosa aggiungerò nelle note.
Di seguito il link al bando di concorso: http://immaginifico.freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=7306741&p=1
Il set da me scelto è il #021: The Mourning after [Il dolore dopo].
Non so come giudicare questa storia, so solo che scriverla è stato molto bello, e spero che lo sia un po' anche leggerla. ^^
Benvenuti quindi nelle terre di Arankos e buona lettura.
Sono sempre graditi commenti, recensioni, critiche e complimenti! :P
Eccomi ad aggiungere i giudizi ricevuti. Giudizi che condivido pienamente.
Galadwen:
La storia è interessante, lo stile scorrevole e nel complesso buono. L'idea alla base è buona, anche se non originalissima, però sa farsi apprezzare; tuttavia penso che si potesse sviluppare meglio: l'impressione che ho avuto è di una storia costruita più sul titolo e sul tema che sull'idea di base. Il finale, di conseguenza, ne risulta un po' affrettato e in qualche modo forzato. Ho apprezzato molto il paragone del ciliegio, comunque, e l'uso del tema, richiamato come sentimento; mi sono piaciuti molto anche i dialoghi fra Leon e Reine, che ho trovato vivaci.
Per quanto detto prima, però, e per alcuni errori di ortografia/battitura (troppi per non considerarli in un testo tutto sommato breve) la votazione non può essere alta.
6.25
Bluemary:
Ho molto apprezzato l'idea di una protagonista con sangue demoniaco, alle prese con una fame che avrebbe potuto renderla un pericolo per la sua stessa gente ed il difficile rapporto con una simile natura e con Leon, l'amico a cui vuole bene che potrebbe diventare una sua vittima. Questi ottimi spunti, però non sono stati sfruttati pienamente, secondo me: avrei preferito un maggiore approfondimento su questa strana razza demoniaca, sulla reazione di Raine alla propria situazione e delle persone attorno a lei, concetti che nella prima parte della storia sono stati poco più che abbozzati e forse se sviluppati meglio avrebbero emozionato in misura maggiore.
Lo stile, prevalentemente corretto e scorrevole, seppur privo di un linguaggio molto ricercato, assume tinte poetiche nelle ultime righe, in cui Raine trova il ciliegio in fiore. L'analogia che ne scaturisce mi è davvero piaciuta.
Nel complesso giudico questa una buona storia, che a causa di alcune sviste o errori di battitura e di una trama non eccessivamente originale, non può superare un punteggio di 6.5
Il ciliegio impazzito*
di nebula91
*In Giappone si dice “fioritura impazzita” quando un albero fiorisce fuori stagione.
Una lunga scalinata di marmo
conduceva ad un viale alberato.
In lontananza si scorgeva l’imponente monte Kòreo,
già imbiancato dalla prima
neve. Nelle terre di Arankos si stava facendo giorno e la fioca luce
dell'alba
illuminava ogni luogo.
Una ragazza ammirava il panorama dalla cima della scalinata
che in quel momento appariva dorata agli occhi di quell’unica
osservatrice.
Oltre il viale si vedevano le prime case del villaggio che,
anche se dalla scalinata era impossibile percepirlo, si stava
svegliando e le
prime voci rompevano il silenzio, disturbando la quiete che fino ad
allora
aveva regnato sovrana.
La ragazza aveva il volto contratto: cercava qualcosa.
“Non ricordi più la sua posizione,
Raine?”
In risposta la ragazza emise un grugnito.
Non c’era bisogno di voltarsi per capire chi avesse parlato.
Anche se erano passati dei mesi dalla sua partenza, aveva associato
senza
problemi la voce al suo proprietario.
“Leon, taci” disse Raine, concisa come sempre.
“Va bene, ma se fossi in te, io lo cercherei dall'altro lato
del viale” ribatté lui.
Questa volta Raine si volto in direzione del suo
interlocutore.
“Hai capito che ho ragione, eh?” disse Leon in tono
canzonatorio.
Raine lo fulminò con lo sguardo.
“Fuoco e fiamme, morte e infauste premonizioni, non
guardatela negli occhi!”
L’espressione tesa di Raine si sciolse in un sorriso, mosse
qualche passo e strinse Leon in un abbraccio.
“La tua pessima ironia mi è mancata tantissimo,
amico mio”.
“E tutta questa dolcezza da dove viene? Sicura di essere la mia Raine?”
“La tua Raine? Io
non sono proprio di nessuno!”.
“Oh, sì, sei tu, sei tu!” Leon fingeva
emozione e sorpresa.
I due ragazzi risero insieme, di gusto, come l’ultima volta
che si erano visti, prima che Raine partisse per il suo abituale
“viaggio
estivo” come si divertivano a chiamarlo tra loro.
Raine lo ricordava chiaramente quel giorno. Mancava poco
alla sua partenza, ma stranamente già percepiva
l’istinto di fame demoniaca in
anticipo di una settimana. Così quella sera aveva deciso di
parlarne con Leon.
“Leon, ho fame” aveva detto tutto d’un
fiato interrompendo
il silenzio. Erano in riva al lago, cercando di pescare qualche trota.
“Un altro paio di pascetti e andiamo. Mamma ne
farà un
piatto delizi…”.
“No, non quella
fame” lo aveva interrotto lei.
Leon aveva rabbrividito per un solo istante che era però
bastato a Raine per captare la smorfia sul suo volto.
“Oh, non preoccuparti, so controllarmi”.
“No, io… non ho detto nulla”.
“Non cercare di ingannarmi, Leon. Sai che in questo periodo
il mio istinto e i miei sensi sono portentosi, ho percepito la stizza
di
paura”.
L’amico abbassò lo sguardo, abbattuto.
“Sono un mostro” aveva sussurrato lei.
“No, Raine. Se fossi stata un mostro mi avresti
già mangiato.
Tu sei un essere umano con qualche problemino con il cibo e e hai solo
bisogno
di stare a dieta.
I due avevano incrociato gli sguardi ed erano scoppiati a
ridere.
La pessima ironia di Leon.
Per il resto del tempo che aveva preceduto la partenza però,
Raine era sempre rimasta in allarme. Era spaventata da quello che era
realmente: un demone.
Le origini di questa razza erano coperte dal mistero, alcuni
parlavano di un accoppiamento tra uomini e lupi, ma probabilmente era
soltanto
mitologia. Anche se di numero nettamente inferiore rispetto a quella
umana, la
razza demoniaca aveva dilagato terrore nei secoli passati. Questi
esseri,
principalmente carnivori, infatti, affrontavano un periodo in cui,
sopraffatta
la ragione, l’istinto li comandava e, spinti da una
particolare fame, la “fame
demoniaca”, si sfamavano con carne umana.
Alcuni, i voraci li chiamava qualcuno, attaccavano gli umani
anche nel resto dell’anno e le vittime da loro causate
avevano attirato a se
l’odio e la paura degli esseri umani.
Raine però, grazie anche alla famiglia di Leon che, a
dispetto di tutti i pregiudizi, l’aveva accolta in casa e
cresciuta, aveva
sempre combattuto per domare l’istinto.
Durante il periodo della fame demoniaca, quindi, Raine si
allontanava per non ferire nessuno. La partenza ricadeva sempre dieci
giorni
dopo l’equinozio di primavera, ossia una settimana prima
dell’arrivo della
fame. In quella settimana abbandonava le terre di Arankos e, diretta
verso
luoghi disabitati, si cibava di cadaveri recuperati durante il viaggio.
Uomini
che morivano attraversando quei luoghi pericolosi non mancavano e per
lei un
solo corpo adulto era abbastanza.
Ogni anno però quell’unico pasto era
un’esperienza terribile.
Cibarsi con della carne umana, anche se si trattava di cadaveri e non
compiva
nessun omicidio, la faceva sentire una creatura mostruosa. Mentre
dominata
dall’istinto squartava con i forti denti il tessuto della
pelle arrivando agli
organi, a volte la coscienza tentava di riprendere il controllo, era
una
stremante lotta interna che si trasmetteva anche sul fisico. Poteva
quasi
sentire il dolore che insieme al rimorso dovuto alla ripresa di
coscienza
traspiravano sulla pelle. Fortunatamente quando giungeva al culmine
della
sofferenza il corpo cadeva in una sorta di letargo che, per quattro
mesi,
addormentava tutti i sensi. Raine si era costruita un rifugio dove
trascorrere
quel tempo in cui, indifesa, rischiava di essere attaccata.
Ormai persa nei ricordi Raine fu riportata alla realtà
dall’amico.
“Dai, scendiamo giù al villaggio. Se mia madre
scoprisse che
non ti ho portata di corsa a casa per la
colazione…”.
Leon non completò la frase, ma l’espressione
impaurita sul
suo volto era inequivocabile.
Il ragazzo, robusto e non molto alto, prese Raine per il
braccio e cominciò a scendere le scale. Lei si faceva
trasportare senza
obiettare: era troppo stanca per dirgli che “non era un
oggetto da prendere e
trascinare”. Come se avesse udito i suoi pensieri Leon si
fermò di colpo.
“Raine…”.
“Sì?”.
“Bentornata, amica mia”.
Scesa la scalinata Raine si
liberò dalla presa. Era quasi
Autunno, gli alberi iniziavano a spogliarsi e le loro foglie cadendo
sul
terreno andavano a formare un fitto tappeto colorato.
Raine amava l’autunno. Era la stagione in cui tornava a casa
e vi legava tutti i suoi ricordi più belli.
Si avvicinò lentamente all’unico ciliegio del
viale, quello
che cercava poco prima. Era insolito trovarne da quelle parti e per
questo lo
amava molto. In primavera i suoi fiori di un rosa delicato, a contrasto
con il
grigio della corteccia, erano di un’eccezionale bellezza.
Passò una mano sulla
liscia corteccia e sorrise.
“Aspetta, nasconditi qui
dietro” Leon le stava indicando un
robusto albero. “Voglio fare una sorpresa alla
mamma”.
Raine si nascose dietro al tronco. Leon batté tre volte il
pugno sulla porta di legno scuro.
“Ce l’hai fatta!”. Una voce stridula
proveniente
dall’interno rispose al “toc toc”.
“Che bastardo! Sta approfittando del mio ritorno per non
farsi rimproverare, altro che sorpresa” sussurrò
Raine tra sé e sé.
“Dai, mamma, ho un buon motivo”.
“E sentiamo: quale sarebbe?”
“Ehi, esci fuori”.
Raine uscì allo scoperto senza dimenticare di dare un
colpetto alla testa del ragazzo, per ripicca.
Gli occhi giallognoli di Aeglesia, simili a due pietre
d’ambra,
si inumidirono e la proprietaria corse ad abbracciare la ragazza.
Quando Raine aveva cinque anni durante una caccia con il
resto della famiglia, un gruppo di demoni voraci, si era allontanata
dal gruppo
e dispersa. Dopo aver viaggiato per alcuni giorni era giunta in quel
villaggio.
Tutti la scansavano; per quanto molto simili agli esseri umani i demoni
avevano
delle caratteristiche fisiche inequivocabili: gli occhi scuri e
minacciosi, il
corpo atletico, i canini particolarmente sviluppati.
Aeglesia però non aveva visto aggressività in
quel piccolo
essere, ma soltanto paura. L’aveva accolta in casa e
cresciuta insieme ai suoi
figli. La piccola non aveva presentato segni della fame demoniaca fino
a
quattordici anni; così anche il villaggio, con il passare
del tempo, l’aveva
accettata.
La donna si asciugò le lacrime e baciò le guance
della
figlia adottiva.
“Leon, figlio sfaticato, non ti avevo chiesto di portare
l’acqua? La cara Raine conosce la strada di casa, non
c’era bisogno che
l’accompagnassi. Vai, subito”.
Leon, che nel frattempo era entrato in casa e stava
mangiando una mela, si avviò al pozzo con aria scocciata.
Ovviamente non prima
di aver mugugnato un ironico “ai suoi ordini!”.
Quando giunse ottobre il Signor Autunno portatore di venti e
piogge, giocando con l’arcobaleno colorò le foglie
finché esse, stanche di
questo gioco, cadevano a terra, sfinite.
Il villaggio si preparava ad affrontare l’inverno, che in
quei luoghi al di sotto delle montagne era lungo e freddo.
Aeglesia aveva organizzato il lavoro e diviso i compiti tra
i membri della famiglia. Leon e Raine dovevano occuparsi dei campi e di
raccogliere
la legna.
Quel mercoledì mattina la nebbia aveva ricoperto il
villaggio, e i due ragazzi erano stati svegliati molto presto
poiché dovevano
sbrigarsi a svolgere le loro mansioni prima che la notte, ancora
più scura per
via della nebbia, avrebbe impedito loro di lavorare.
“Raine, tu vai nei campi, io a raccogliere la
legna” disse
Leon mentre si dirigevano oltre il villaggio. “Forse
dividendoci il lavoro
riusciremo a finire prima” continuò il ragazzo e
senza attendere risposta si
avviò in direzione del bosco.
Per tutta la mattina Raine
lavorò senza sosta, con il
pensiero fisso sull'atmosfera familiare che, di lì a pochi
giorni, terminati
tutti i preparativi, si sarebbe potuta godere.
Solo giunta l’ora di pranzo si concesse una pausa e con i
contenitori pieni dei frutti che la stagione offriva, tornò
a casa.
Cecilia, la dodicenne sorella di Leon, era particolarmente
eccitata: aveva superato l’infanzia e per la prima volta
aveva anche lei dei
compiti da svolgere.
“Frena l’entusiasmo, presto te ne stancherai anche
tu di
tutto questo lavoro” le aveva detto Raine sorridendo.
Leon non si fece vedere neanche durante il pranzo.
“Lo conosco bene mio figlio, pigro com’è
starà dormendo nel
bosco” disse detto Alectos scaturendo la risata del resto
della famiglia.
Quando però nel primo pomeriggio Raine, terminato il lavoro
per
quel giorno, tornò a casa, scoprì che Leon non si
era ancora fatto vedere.
Così, un po’ preoccupata, andò a
cercarlo.
Con la nebbia ancora fitta, il bosco appariva più tetro del
solito. I primi alberi, alti sempreverdi, erano largamente spaziati tra
loro;
addentrandosi questo spazio diminuiva, creando di sentieri molto
stretti.
Nessuno sapeva di preciso per quanti ettari si estendesse
poiché si era soliti
viaggiare per altre vie e si poteva soltanto ipotizzare cosa ci fosse
oltre.
Camminando per un angusto sentiero, dopo una decina di
minuti Raine trovò un carretto ricolmo di legna. Era
certamente quello
adoperato da Leon. Raine non ebbe il tempo di riflettere che fu
attaccata alle
spalle. Non appena scontrò la guancia contro il terreno
umido, fece forza sugli
arti e si sollevò, ritrovandosi faccia a faccia con il suo
aggressore.
Un paio di scuri e aggressivi la guardavano.
“Dov’è Leon?!”
ringhiò lei assumendo lo stesso sguardo del
demone che aveva di fronte.
“Leon? Parli forse di quell’umano?”
rispose la creatura
indicando con la mano un corpo inerme, diversi metri più in
là.
Raine corse in quella direzione. Il
corpo dell’amico era stato mutilato e
scorticato in più punti. Era quasi irriconoscibile
anche per lei; i capelli, un tempo biondo
cenere, erano ricoperti di sangue così come lo era il resto
del corpo.
“Sai”, iniziò l’uomo che nel
frattempo l’aveva raggiunta
“era un lottatore. Ho dovuto ucciderlo prima di cibarmi delle
sue carni. Avrei
preferito farlo ascoltando la sua sofferenza, ma ha deciso di opporre
resistenza” disse il demone che, ridendo, aveva esposto alla
luce i canini
ancora macchiati del sangue di Leon.
Raine mostrò a sua volte i denti. In un altro momento
lottare contro un vorace le sarebbe parsa un’idea folle, ma
adesso la ragione
non aveva più il comando. Sentiva il sangue scorrerle nelle
vene, nei capillari
e fluire per tutto il corpo donandole una forza incredibile. Voleva
massacrare
l’assassino del suo migliore amico. In quella lotta corpo a
corpo, dettata
dalla rabbia e dall’istinto mostrò una
combattività degna delle sue origini.
Il demone era steso a terra, immobile, probabilmente
svenuto. Raine, con il respiro corto per la fatica, gli
toccò il petto.
Avvicinò i denti all’altezza del cuore e morse con
tutta la forza e la rabbia
che aveva in corpo, iniziando a sfamare non solo l’istinto
demoniaco, ma anche
la sete di vendetta.
Con un forte colpo gli spaccò lo sterno e alcune ossa si
ripiegarono all’indentro forando il cuore che avevano sempre
protetto. Quello,
dopo gli ultimi spasmi, tacque per non battere mai più.
Raine lo avvicinò alle
labbra e si dissetò in quel lago di sangue, il cui sapore
amaro, a contrasto
con quello dolce della carne, le inebriò la gola. Tale
sapore sembrò
risvegliare la coscienza.
Aveva ucciso un uomo e ora si stava cibando del suo stesso
crimine. Il rimorso
scoccò la freccia e
la colpì. Un dolore lancinante originato dal petto si
diffuse nel resto del
corpo.
Tentò di alzarsi da
terra, ma le forze le vennero a mancare. Strisciando
raggiunse
l’apertura di una piccola caverna e vi si rifugiò.
Di lì a poco quel dolore
sarebbe stato assopito dal letargo.
Un
vento freddo
soffiava sulle terre di Arankos quel giorno di metà
febbraio. L’inverno
quell’anno era stato particolarmente rigido ed esitava ancora
ad andarsene.
Raine si era svegliata dal letargo come se quei quattro mesi
non fossero mai trascorsi.
Aveva scelto di andarsene e adesso, percorrendo il villaggio
che per i mesi invernali era stato abbandonato dai suoi abitanti, si
dirigeva
verso il viale alberato decisa ad abbandonare per sempre quei luoghi.
Ai piedi della scalinata un ciliegio era in fiore. Raine
strabuzzò gli occhi scuri incuriosita da quello stranissimo
evento. Ma qualcosa
nella sua testa le disse che non era inspiegabile. Non era lei stessa
una
creatura che lottava contro la propria natura?
Si avvicinò a quell’albero e si sedette con la
schiena
contro il tronco. Lacrime silenziose scorrevano sulle sue guance, in
quella
calma mattutina; mentre sulla sua testa i fiori rosa pallido del
ciliegio
impazzito si mischiavano con il candido bianco della neve.