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Autore: BlackEyedSheeps    01/01/2014    2 recensioni
“E’ tutto a posto, vero?”
“Sono in vacanza. Cosa potrebbe andare storto? A parte i vicini di casa che decidono di trapanare i muri alle sette del mattino…”

Clint, ancora perseguitato dai superstiti demoni degli eventi di New York, è sempre più isolato. Quando la situazione tocca il fondo, Natasha decide di intervenire, rifiutandosi di restare a guardare. Ma anche lei dovrà fare i conti con i postumi della battaglia degli Avengers...
[Clint/Natasha] [Post-The Avengers]
Genere: Angst, Erotico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Compromised'
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CAPITOLO 2

 

No matter what we breed
We still are made of greed
This is my kingdom come
This is my kingdom come […]

So they dug your grave
And the masquerade
Will come calling out
At the mess you've made
Don't wanna let you down
But I am hell bound

(Demons, Imagine Dragons)

 

Avarizia

 

La porta si richiuse alle loro spalle, infrangendo per un istante l'ostinato silenzio che li aveva accompagnati durante tutto il viaggio. Non c'erano né taciuta complicità, né conforto di alcun tipo in quel fastidioso mutismo.

 

Natasha ne era consapevole in modo quasi doloroso. Più e più volte si era ritrovata a guardare in direzione di Clint, lo sguardo tenacemente puntato ovunque tranne che su di lei, formulando discorsi infiniti nella propria testa, senza trovare mai il coraggio o l'occasione giusta per dar voce ai propri pensieri. Qualcosa la bloccava, qualcosa le impediva di affrontarlo nel suo consueto modo schietto, a volte persino brutale.

 

Nello momento esatto in cui gli aveva niente di meno che ordinato di preparare l'occorrente per un po' di tempo fuori città, si era pentita di averlo fatto. Non era affatto sicura di poter gestire la situazione. Certo, non era la prima volta in cui si era accorta di una qualche difficoltà di Clint, ma in tutte le altre, nel bene o nel male, non si era fatta problemi ad interrogarlo sulla questione. Perché lasciare che la ferita si infetti fino a marcire e compromettere il resto del corpo, quando puoi affrontare e risolvere la questione proprio lì, su due piedi?

 

Per quanto le costasse ammetterlo, gli eventi di New York avevano avuto le loro conseguenze anche su di lei. Non importava quanto si sforzasse per impedirlo, i ricordi di quei momenti continuavano a passarle davanti agli occhi, ogni volta mostrandole un dettaglio nuovo, un'interpretazione che, in precedenza, le era sfuggita. Era stata la seconda volta in tutta la sua vita in cui si era vista obbligata a combattere contro di lui; la prima in cui fosse nelle condizioni fisiche se non ottimali, almeno adatte a contrastarlo (il loro primo scontro era stato piuttosto impari da quel punto di vista). Ricordava con estrema lucidità il momento in cui aveva realizzato che Clint stava colpendo per uccidere. Non era stato un allenamento, una sfida nella palestra dello SHIELD Center o dell'Helicarrier, no... quella volta faceva sul serio. La sua furia cieca non l'avrebbe risparmiata.

 

Scoccò un'occhiata al suo partner, fermo a pochi passi da lei al centro della stanza principale del piccolo cottage sperso tra le nevi canadesi in cui Natasha l'aveva trascinato a forza. Ebbe l'impressione che metà delle sue energie fossero utilizzate nello sforzo di non voltarsi mai verso di lei o, quando succedeva, nella prontezza di riflessi che gli serviva per abbassare rapidamente lo sguardo e rimediare alla disattenzione; l'altra in quel tenace silenzio, spezzato qua e là da insignificanti monosillabi.

 

Non l'aveva mai chiamato Clint prima di quel giorno nella claustrofobica infermeria della base volante dello SHIELD. Le era uscito senza neppure pensarci, come se quello stupido nome le fosse rimasto a fior di labbra, in attesa di essere pronunciato, per anni, aspettando il momento giusto. Aveva avuto la netta sensazione che non fossero mai stato tanto vicini... e adesso, per un paradossale scherzo del destino, dovette prendere atto dell'evidenza: non erano mai stati tanto lontani. Un ostacolo invisibile e apparentemente insormontabile li divideva con straordinaria efficacia.

 

“Puoi prendere la camera da letto al piano di sopra”, si sforzò di dire, sentendo il bisogno di smuovere quelle soffocanti acque in cui si erano ritrovati a nuotare, in difficoltà. Non le sfuggì l'irrigidimento delle sue spalle, i muscoli del collo tesi, come nel disperato tentativo di trattenere un'obiezione. Comprese e intervenne.

 

“Mi prendo il divano”, lo rassicurò, come per rispondere a quella sua silenziosa protesta. “Tutte le volte che vengo qui dormo là sopra... non è un problema.”

 

Clint si limitò ad annuire, concentrando la sua attenzione sulle pareti di legno, il caminetto di pietra, la piccola cucina, il grosso tavolo di legno a cui erano accostate due sedie solitarie. Aveva ancora la sacca gettata su una spalla, il giaccone pesante ad intralciare i suoi movimenti, grumi di neve in procinto di sciogliersi nei capelli.

 

Lo seguì con lo sguardo mentre si faceva strada verso la scala che l'avrebbe condotto al piano superiore. Trattenne il respiro finché non lo vide sparire dal proprio campo visivo. Lasciò cadere a terra il suo zaino, sentendosi esausta come mai lo era stata in vita sua. Un grido esasperato sembrava accumularsi, giorno dopo giorno, ora dopo ora, alla base della sua gola, nel petto, alla bocca del suo stomaco. Socchiuse gli occhi e inghiottì la propria frustrazione, ricacciandola in un angolo remoto della sua persona, chiusa a chiave in un cassetto dalla serratura, suo malgrado, piuttosto fatiscente.

 

***

 

Clint non scese fino a tarda notte, svariate ore dopo. Erano le due e trentasette del mattino quando Natasha avvertì i suoi spostamenti: riusciva ad immaginarlo mentre faceva appello a tutti gli anni di addestramento pur di non far alcun rumore. Ma, Natasha intuì, doveva essere stanco, i suoi movimenti grossolani e goffi. Si figurò il suo percorso, dalla camera da letto fino alle scale. Dal tavolo della cucina a cui era seduta - intenta a bere tè corretto a vodka e a smontare, ripulire e montare le armi che aveva lasciato nel cottage l'ultima volta che c'era stata - riuscì a sentire i suoi passi sempre più chiaramente.

 

Il tenue bagliore delle fiamme accompagnò la discesa di Clint. Natasha rialzò lo sguardo, ma lui si era già accorto della sua presenza, distogliendo prontamente l'attenzione sulle fiamme che scoppiettavano dall'altro lato della stanza. Sarebbe stata accogliente se non ci fosse stato il gelo tra di loro a neutralizzare l'atmosfera faticosamente creata dal fuoco.

 

Con il pugno chiuso attorno al corrimano, il suo partner aveva tutta l'aria di star valutando se tornarsene indietro lasciandole intendere di aver battuto in ritirata perché contava di non trovarla ancora sveglia, o restare ed esaurire quelle ultime briciole di auto-controllo che gli permettevano di ignorarla ad oltranza.

 

Natasha non smise di guardarlo finché Clint non sembrò decidere per la seconda opzione. Rilasciò un impercettibile sospiro di sollievo, tornando a pulire la canna di una vecchia Colt che aveva per le mani. La presenza di lui le aleggiava attorno mentre si avvicinava per studiare il contenuto del frigorifero, dove, però, non parve trovare alcunché di suo gradimento. Finì per recuperare un bicchiere pulito da chissà dove e colmarlo di acqua dal rubinetto. Ne bevve un lungo sorso, e poi lo riempì di nuovo, dandole le spalle.

 

Indossava un paio di pantaloni verde militare, una maglia nera a maniche lunghe, la barba sfatta, i capelli un po' troppo lunghi sulla nuca.

 

Rimase ad osservarlo per qualche istante, finché non si fu accorta di dove lo sguardo di lui stesse puntando: era stata tanto stupida da abbandonare la bottiglia di vodka sul ripiano accanto ai fornelli, là dove aveva lasciato il bollitore per il tè. Inorridì e si maledì internamente, abbandonando strofinaccio e pistola, per avvicinarsi con poca, pochissima discrezione al bancone della cucina, afferrare la bottiglia d'alcool e sparire al piano di sotto, nella cantina, dalla quale riemerse solo dopo averla nascosta insieme agli altri alcolici che si era premurata di mettere sotto chiave mentre Clint era di sopra a non-riposare.

 

Solo quando rimise piede nel salotto ed ebbe intercettata la figura dell'uomo seduto al tavolo con le spalle chine, si rese conto di aver commesso un terribile errore, ben più grave del dimenticare la vodka in bella vista. Un freddo insopportabile sembrò scenderle nelle ossa: credeva seriamente che trattarlo come un pazzo incapace di trattenersi l'avrebbe convinto a rivolgerle la parola? Come diavolo le era saltato in mente di scappare a nascondere la bottiglia, proprio lì, sotto i suoi occhi?

 

Socchiuse gli occhi e abbassò il capo, arrendendosi all'evidenza. Non poteva far altro che affrontare le conseguenze. Tornò verso la cucina, versandogli una tazza di tè ancora caldo pur di prendere tempo, rimandare il momento in cui gli si sarebbe seduta di fronte. Quando arrivò, Clint si stava rigirando tra le mani una delle armi disposte sul tavolo. Non ebbe l'aria di accorgersi del tè che Natasha gli aveva offerto.

 

Nessuno disse niente per una quantità di tempo che le parve infinita, scomoda, insopportabile. Sentiva i mille discorsi provati e riprovati nella sua testa, uno meno opportuno dell'altro, premere e scalpitare pur di uscire, sgorgarle dalla bocca in un miscuglio incomprensibile di rimproveri, offerte d'aiuto, persino suppliche. Sentì le labbra fremere, dischiudersi, ma di nuovo non emise un soffio. Le parole le si accartocciarono in gola, ripiegandosi le une sulle altre pur di venir rispedite là da dove erano venute. Non era particolarmente attaccata a tutti quegli inutili, patetici simposi, eppure, per l'ennesima volta, si era ritrovata a tenerseli stretti quasi gelosamente.

 

Clint, d'altro canto, sembrava perfettamente a suo agio nel suo silenzio. Era il non guardarla, la paura che lei avrebbe aperto bocca e spezzato quell'insopportabile, ma apparentemente necessaria empasse, a preoccuparlo. Nient'altro. Per questo, capì Natasha, non si decideva ad incrociare i suoi occhi: aveva paura di darle uno spunto, darle tacitamente il via libera per parlare. Non era un lusso che si poteva permettere in quell'istante, suppose.

 

Tutta la sua frustrazione tornò a farsi sentire. Così come le onde vanno e vengono, tutti gli sproloqui che si erano ritirati solo qualche attimo prima, tornarono a farsi avanti con insistenza persino maggiore. Natasha serrò la presa sulla sua tazza, bevve un sorso di tè pur di tenersi occupata, ma sapeva già che non avrebbe potuto ignorarli completamente, non questa volta.

 

“Clint,” pronunciò a voce bassa ma decisa, una specie di supplica indispettita con cui lo invitava a guardarla. Guardami, ti prego, guardami. Sono qui. Lo vide irrigidirsi, stritolare la pistola che ancora teneva tra le mani fino a farsi diventare le nocche bianche. La stanchezza gli segnava il volto, la fronte aggrottata, le linee del viso solo vagamente nascoste dal velo di barba che gli punteggiava le guance.

 

Fu un attimo, un istante. Natasha si ritrovò, finalmente, a guardare nei suoi occhi, chiedendosi inutilmente perché diavolo avesse insistito tanto per convincerlo a farlo. Sembrava che guardarla fosse per lui come un vero e proprio dolore fisico. Percepì il tremore delle sue mani mentre si sforzava in tutti i modi di sostenere il suo sguardo, convincerla forse che stava bene, che non c'era bisogno di preoccuparsi, accusarla di quel goffo gesto con cui era andata a nascondere l'alcool, supplicarla di smettere di insistere, di lasciarlo solo. Era tutto lì, tutto inespresso e mescolato nella sua espressione, tutte le parole di cui era talmente avaro da non volersene lasciare scappare neppure una. In nessun caso.

 

Lo stomaco le si strinse fastidiosamente, mentre una sensazione tutt'altro che familiare sembrò riempirla dalla testa ai piedi. Un'urgenza improvvisa, un bisogno fisico di afferrarlo per il colletto della maglia, attirarlo a sé, sentire il suo corpo caldo e vivo contro il proprio, l'odore rassicurante della sua pelle, scuoterlo, urlargli in faccia, riportarlo a forza nel mondo dei vivi, nel mondo reale, nel suo mondo. Sono qui. Sono qui, sono sempre stata qui. Avrebbe voluto cancellare quella piega delle sue labbra con la propria bocca, appiattire le rughe preoccupate del suo volto con la punta delle dita, rianimarlo, fargli sentire che lei era lì, che era lì per lui, che aveva bisogno di lui, che era arrabbiata perché l'aveva lasciata da sola, perché era stato egoista, perché si era dimenticato di lei. Non si ricordava che erano una squadra?

 

Trasalì impercettibilmente sotto lo sguardo incerto di lui. Per un attimo, si convinse che si era accorto di qualcosa, che magari aveva intuito i suoi pensieri, perché si affrettò a guardare altrove, spezzare quella connessione ritrovata solo per qualche misero istante. Il calore che le era risalito fino alla guance e giù per le cosce si raffreddò e svanì, cancellato dall'indifferenza di Clint.

 

“Esco,” le annunciò, rimettendosi in piedi dopo aver abbandonato la pistola e il tè ancora intonso.

 

Natasha non ebbe il coraggio di ribattere, troppo presa dalle immagini che aveva osato pensare e che adesso la tormentavano, impresse a fuoco nella sua mente. Lo sentì spostarsi nel salotto, recuperare la sua giacca pesante, indossare gli stivali e svanire oltre la porta, accompagnato da una folata gelida dall'esterno, dall'ululare del vento che se lo portò via.

 

***

 

Gli stivali affondavano nelle neve alta. La luce lunare e il suo riverbero su quello strato candido, dava ai dintorni un’atmosfera irreale, i suoni attutiti da un gelo di morte.

Aveva ricominciato a nevicare da diversi minuti, ma non sembrava essersene accorto. Non era nemmeno consapevole di quanta strada avesse fatto dacché aveva preso la stravagante decisione di uscire di casa, certo di non aver agito in tutta coscienza.

La boccata d’aria nel nome della quale si era convinto di aver preso quella decisione non era che una debole scusante. Il freddo che sentiva ora nelle ossa non era tanto diverso da quello che lo attanagliava nello stomaco, nel cervello.

Uno strato di coscienza congelato, che non riusciva a sbloccarsi, a riattivarsi sui normali canali di comunicazione.

 

Quando Natasha lo aveva obbligato a seguirla aveva accolto l’ordine come una specie di benedizione, la flebile speranza che quell’impegno lo avrebbe scosso abbastanza dal riprendersi da quello stato dal quale non riusciva a liberarsi.

La deflagrazione finale allo SHIELD era stata l’ultimo avvertimento. Il definitivo, inconsapevole, grido d’aiuto che lo aveva trascinato fin lì. Ma ora che le circostanze lo avevano accolto, la speranza aveva preso la mostruosa forma dello sconforto. Natasha invece di aiutarlo lo aveva spinto in uno degli angoli più acuti della sua depressione.

Come svelarle che i suoi incubi erano popolati dal grottesco quadro della morte di lei? Come metterla al corrente dello smisurato rimorso di coscienza nell’aver anche solo provato a portare a termine quello spaventoso omicidio? Poteva sentire su di sé il suo giudizio, schiacciante, provocatorio.

Più si costringeva a minimizzare quella faccenda, più si sentiva in colpa nel farlo. Un circolo vizioso, una serie di corde annodate ad arte per stringersi ad ogni tentativo di movimento.

 

Prese un’altra boccata d’aria gelida, e di nuovo non provò nulla di diverso. Solo un fragile dolore ai polpacci, tesi per lo sforzo di camminare nella neve.

Improvvisamente comprese il perché di quell’insensata passeggiata. Sentì l’istantanea necessità di bruciare le sue energie, sentire la fatica, il dolore dei muscoli in tensione, avvertire i polmoni bruciare nel patetico tentativo di tenere il ritmo di quel clima rigido. Voleva sentirsi esausto, voleva non avere più la forza di muoversi per poter così crollare distrutto e annebbiare la coscienza in un sonno ristoratore, senza sogni. Senza incubi.

Prese a correre, correre nella neve, incurante delle sferzate di ghiaccio sul viso, sulle mani, che entrava nelle pieghe dei vestiti, negli stivali.

Si concentrò sul suo respiro, su niente altro che la bruciante sensazione che gli scaldava il petto, che gli mozzava il fiato.

Il sudore sotto gli strati di vestiti lo fece sentire di nuovo vivo per un misero, penoso istante. Il flusso del sangue, nelle sue vene, il rumore pompante del cuore: si sentì spronato a continuare finché non fu troppo. Finché il dolore fisico non superò il sollievo dello sforzo.

Rallentò senza quasi registrarlo, inciampò in un cumulo di neve e cadde a terra sfiancato e senza fiato a fissare il cielo su di sé e i fiocchi di ghiaccio che in circolo, scendevano a baciargli il viso.

 

Socchiuse gli occhi, lasciandosi accogliere da quell’abbraccio freddo e innaturale. Si chiese che cosa ne sarebbe stato di lui se si fosse abbandonato al torpore lì, in mezzo al nulla, circondato dall’inverno.

Non una morte da guerriero, ma comunque decisamente meno tremenda di tutte quelle che si era immaginato. Una morte comoda, una morte vigliacca.

Chi avrebbe pianto la sua dipartita? Non la sua squadra, i suoi colleghi, i suoi superiori. Forse un mesto, contenuto saluto, una grave perdita per l’organizzazione, certo, un discorso di commiato condito da riconoscimenti e poi via, di nuovo a cercare un sostituto valido per la falla nel sistema.

Non un famigliare, non quel fratello del quale aveva quasi dimenticato i lineamenti, il nome. Quel fratello che era stato per lui padre e madre, consigliere e maestro, che era sparito come tutti gli altri che lo avevano lasciato solo.

Non un amico, di quelli veri, come Phil, l’unica persona che negli ultimi anni avesse osato considerare veramente tale.

Non una donna, un’amante. La sfilza di quelle che lo avevano conosciuto superficialmente superava di gran lunga quella delle donne che credevano di avergli rubato il cuore.

Non quel gruppo di supereroi con cui aveva condiviso una delle operazioni più pazzesche alle quali gli fosse mai capitato di prender parte.

Non… Natasha?

Come avrebbe preso la sua morte, Natasha? Il più grande mistero con cui mai avesse avuto a che fare.

Avrebbe sofferto? O avrebbe liquidato la faccenda sbrigativamente, come faceva con le sue vittime?

Il pensiero non gli faceva onore. E non ne faceva a lei. Natasha era molto più di quello e lo sapeva, lo sapeva benissimo.

Non le avrebbe fatto un favore, lasciandosi andare. Non gliene stava facendo uno ora. Lo aveva condotto fin lì per aiutarlo. Certo, a modo suo. Non era obbligata a fargli da balia, né da psicologa, eppure si era esposta fino al punto di trascinarlo in uno dei suoi luoghi solitari, dove sapeva che lei aveva bisogno di isolarsi, di tanto in tanto.

Spariva spesso, fra una missione e l’altra. Gli aveva svelato e offerto una delle sue tane, dei suoi rifugi e lui cosa faceva? Immaginava come sarebbe stato morire e lasciarsi tutto alle spalle, chiedendosi persino che cosa ne avrebbe pensato lei.

 

Si riscosse all’improvviso, disgustato da se stesso.

Avrebbe voluto dare tutta la colpa allo smarrimento cerebrale in cui lo aveva spinto quel dio dagli occhi di ghiaccio, ma sapeva che non era solo colpa sua. La sua influenza continuava a lasciare strascichi nella sua coscienza, ma era dentro di sé che avrebbe dovuto trovare la forza di scacciarlo definitivamente. Faticava a trovare un appiglio. Ci stava provando davvero a cercarlo, o si compiaceva di crogiolarsi in quel limbo?

Si mise seduto, la neve ormai dappertutto. Avrebbe quantomeno potuto provarci, fare un tentativo. Allungare una mano e trovare quell’aiuto che non riusciva ad accettare.

Si rimise in piedi, esausto, fissò lo sguardo sulla neve che aveva smesso di cadere e decise di tornare indietro.

 

***

 

Lo accolse una casa silenziosa. Vuota. Nel momento stesso in cui aveva varcato la soglia aveva avvertito l’assenza di Natasha.

Aveva imparato, con gli anni, a percepirla, ovunque fosse - se a lei non fosse importato nasconderlo - e quella era l’atmosfera di una casa vuota, priva della sua consistente presenza.

Se per un attimo pur si chiese dove fosse finita, il pensiero passò rapidamente. Avrebbe ritardato un altro confronto e ne fu grato.

Si spogliò del giaccone, degli stivali bagnati. Procedette scalzo per quella casa estranea che inizialmente non si era detto curioso di conoscere. Osservò distrattamente i dintorni all’apparenza accoglienti.

Natasha aveva imparato a crearsi i suoi spazi, a concedersi angoli personali che prima non riteneva necessari. Libri ce n’erano sempre, ma a differenza dei primi anni in cui aveva imparato a vivere da sola senza sentirsi un animale braccato, attenta a non lasciare tracce, ora potevi trovare indizi di lei ovunque: un mollettone per capelli, la tazza di tè abbandonata nel lavandino, la custodia di un DVD sulla mensola del salotto – un film che sicuramente lui le aveva suggerito – e un gusto particolare per determinati pezzi di arredamento che, non sapeva bene come, né perché, ma le riconosceva.

Spulciò la libreria più per curiosità che per una reale intenzione di mettersi a leggere: perlopiù classici, molti in lingue a lui sconosciute. La cultura di Natasha poteva risultare spiazzante.

Si concesse di recuperare un libro dall’aria consumata, era sicuro di riconoscerlo. Una volta, durante una spedizione, si erano imbattuti in una bancarella di libri usati. Nemmeno il tempo di accorgersi che Natasha era rimasta indietro che aveva fra le mani un’edizione usurata di Moby Dick. Lui le aveva chiesto se si riconosceva nella copertina e lei gli aveva sganciato una gomitata nelle costole. Il pensiero felice non gli strappò un sorriso.

 

Sospirò, esausto di tanta avarizia di sentimenti positivi e fece per rimettere a posto il libro. Gli fece trovare spazio con una spinta che fece emergere, fra le sue pagine, l’angolo di quella che sembrava una fotografia. Non seppe cosa lo spinse a farla sua, ma se ne pentì l’istante successivo: una cartolina che portava i saluti da Roma e terminava con la firma di Coulson.

Ricordava esattamente il periodo. Prima che lui partisse per l’India e prima che Natasha andasse a lisciare le penne a Stark. Clint gli aveva raccomandato di ricordarli nei suoi pensieri mentre andava a fare un saluto al papa. Coulson non aveva tradito le aspettative, mandando a entrambi i suoi migliori saluti.

Il ricordo, questa volta, gli procurò una dolorosa contrazione al petto. Si affrettò a rimettere a posto la cartolina che cadde al suolo l’istante successivo.

Di nuovo la testa riprese a pulsare, quel dolore costante che si assopiva fino a quasi diventare inesistente, bastava un nonnulla per rianimarlo ferocemente.

Percorse a grandi passi la stanza, fino al bagno, cercò nell’armadietto dei medicinali qualcosa che potesse aiutarlo a dormire. Si rigirò fra le dita la scatola con i sonniferi di Natasha, valutando quale fosse la dose necessaria per stenderlo fino al mattino successivo, prima che il ricordo dell’alcool che gli aveva sapientemente nascosto, tornasse a colpirlo impietoso.

 

L’alcool… sapeva bene come lo avrebbe fatto sentire. Avrebbe attutito il dolore e, forse, avrebbe potuto non addormentarsi come invece lo avrebbero costretto a fare i sonniferi. Non avrebbe sognato. Non avrebbe avuto incubi, trascinato invece in un dolce, ovattato oblio.

In un attimo fu fuori dal bagno e giù fino alla cantina.

Non gli ci volle molto per riportare alla luce le sue rimembranze di un’adolescenza fatta di piccoli furti: la serratura scattò pochi istanti dopo.

Il ricordo dell’assenza di Natasha fu cancellato, i rimorsi di coscienza spazzati via da quell'unico, distruttivo obiettivo.

La porta si richiuse silenziosamente alle sue spalle, inghiottendolo.

  
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