LXII
MOESTA
ET
ERRABUNDA
LUCIUS/SEVERUS
Dimmi,
Agata, a volte non pensi
di migrare
Lungi
dal nero mare dell’immonda
città,
laggiù,
dove risplende un ceruleo
alto mare,
terso
e profondo come una
verginitò?
Dimmi,
Agata, a volte non pensi
di migrare?
L’onda,
l’onda infinita culla i
nostri tormenti!
Onde,
da qual mai demone aveste
il rauco canto,
cui
s’accompagna l’organo vasto e
sordo dei venti,
con
la missione augusta d’addormentare
il pianto?
L’onda,
l’onda infinita culla i
nostri tormenti!
Portami
via, vagone! Rapiscimi,
vascello!
Qui
è intriso di lacrime il fango
della via!
Non
suona, triste Agata, nel tuo
cuore l’appello:
“Dai
rimorsi, dai crimini, dalle
gravezze, via,
portami
via vagone, rapiscimi,
vascello?”
Come
lontano sei, paradiso
balsamico,
dove
sotto l’azzurro regna amore
e letizia,
dove
quello che s’ama è ben degno
che s’ami,
e
in flutti puri d’estasi il
cuore si delizia!
Come
lontano sei, paradiso
balsamico!
Ma
il verde paradiso dei
fanciulleschi amori,
le
corse, i canti, i baci, il
vibrar degli archetti
a
ridosso dei poggi, i mazzetti
di fiori,
e
gli orcioli di vino, la sera,
nei boschetti,
-
ma
il verde paradiso dei fanciulleschi amori,
il
casto paradiso delle gioie
furtive,
è
di già più lontano dell’India e
della Cina?
Potrebbe
un grido, un gemito
farlo ancora rivivere,
ridestarlo
col palpito d’una voce
argentina,
il
casto paradiso delle gioie
furtive?[1]
Lucius
lo guarda immobile, non si
muove neanche un muscolo del suo pallido volto. Severus ricambia lo
sguardo
inespressivo, gettandogliene uno altrettanto inespressivo.
C’è da chiedersi
cosa possono capire l’uno dell’altro, se non si
sforzano di esprimere nulla. Lo
sguardo di Lucius si sposta da Severus ad un punto situato sul muro, da
qualche
parte dietro di lui.
“E’
andata così, dunque.”
“E’
andata così.”
“Sei
una spia da tutto questo tempo
Severus?”
“Sì,
Lucius.”
Un
lampo di rabbia attraversa le
iridi argentee del mago biondo, mentre stringe il bicchiere di vino con
forza,
finché le nocche non gli diventano bianche.
“Perché
me lo stai raccontando,
Severus? Potrei andare in questo stesso momento dal Signore Oscuro.
Potrei
venderti come la più inutile delle chincaglierie. Potrei
guadagnarmi i suoi
favori in un battibaleno, se gli svelassi quel che tu hai svelato a me
ora.
Perché me lo stai raccontando?”
“Perché
so che non vuoi farlo,
Lucius.”
Severus
si alza di scatto, si
avvicina ad una finestra del maniero e guarda fuori, incrociando
le braccia dietro la schiena e dando
le spalle all’amico.
“So
che sei stanco. So che non hai
digerito il fatto di essere trattato alla stregua di un mezzosangue,
privato
della bacchetta, per un errore commesso – errore che nemmeno
il Signore Oscuro
ha potuto evitare. So che non hai tollerato che tuo figlio venisse
messo in
pericolo. So che non puoi più vedere tua moglie soffrire nel
modo terribile in
cui una madre soffre. So che non è questo il mondo che
desideri, Lucius.”
“Ti
sbagli” ringhia lui, in
risposta. “Ti sbagli Severus. Io posso tollerare tutto
questo, se può servire a…”
“A
cosa, Lucius!” Severus si gira
nuovamente verso di lui, quasi gridando. Lucius può vedere
forse per la prima
volta uno sguardo quasi disperato sul volto del maestro di pozioni.
“A cosa può
servire tutto questo? Stiamo decimando la comunità magica!
Tutto cade in un
baratro di terrore, Lucius! Tuo figlio non sorride più, tua
moglie non sorride
più, Tu, Lucius, non
sorridi più, da
quanto? Non sogni ogni notte i volti di coloro che sono morti straziati
dalle
tue mani e dagli ordini del tuo padrone? Quanti ragazzini dovrai ancora
veder
morire per capire che tutti, tutti loro potrebbero essere
Draco?”
Con
tre grandi passi Severus si
avvicina alla poltrona dove Lucius è seduto, vi posa le mani
stringendo i
braccioli con un gesto convulso e gli parla, a pochi centimetri dal
volto,
riversando ogni paura, ogni pentimento su quel volto statuario, che
pare non
ascoltarlo ma che Severus sa, lo sa, lo ascolta eccome.
“E
cosa dovrei fare, ora, secondo
te?” Gli sibila in risposta, quasi senza muovere le labbra
“Mandare
definitivamente mia moglie e mio figlio al macello ribellandomi al mago
più
potente che abbia mai camminato su questo pianeta? Non
c’è più scampo, Severus, io
non sono un abile occlumante come
te e – a dirla tutta – non ho il tuo incredibile
coraggio.”
Si
guardano per un tempo che sembra
infinito, i volti poco distanti, le menti ancor meno distanti. Severus
sorride
di un ghigno amaro.
“Lo
prendo come un complimento. Ma
il coraggio non è una dote innata amico mio. Si apprende,
spesso per necessità.”
“Lo
è. Vorrei davvero ascoltarti
Severus. Vorrei avere il coraggio di fare quel che tu fai. Ma non nutro
alcuna
fiducia in Potter e i suoi amici. Non voglio mettermi ancora
più in pericolo di
quanto io non sia e…”
Quanto
gli appaiono vuoti i suoi
discorsi mentre li pronuncia! Mai, mai in tutta la sua vita si
è sentito così
piccolo, così vigliacco. Si interrompe, fissando quegli
occhi neri che lo
fissano a loro volta e, riflettendo davvero per la prima volta su quel
che
Severus gli ha rivelato, l’orrore gli cade addosso come un
macigno. Sente sulla
sua pelle, in uno slancio empatico che non gli è proprio,
tutto ciò che l’amico
ha sopportato in nome di un amore che l’ha consumato fino a
togliergli tutto e
a regalargli tutto. Legge, nel suo sguardo nero come l’ebano,
il dolore
provocato da ogni vita che ha tolto contro la sua volontà
più profonda, contro
la sua stessa anima…
“Severus…”
Allunga
una mano a toccare quel viso
irrigidito dall’angoscia, sfiora il suo collo, sentendo il
cuore battere calmo,
quasi fosse allenato ad un battito costante, sfiora il colletto della
sua veste
da mago e in un gesto convulso, pieno di dolore e bisogno lo stringe,
lo tira,
lo strattona, attirando Severus stesso verso di lui, verso le sue
labbra, verso
il suo bisogno d’aria pulita e Lucius lo bacia, e quel bacio
quasi casto, se ne
accorge, è la cosa più pulita e vera e bella che
abbia provato negli ultimi
anni e allora cede, si arrende e capisce.
“Portaci
via, Severus, amico mio.
Andiamocene via da quest’orrore. Insegnami come si
fa.”
Mentre
spariscono, Lucius pensa che
il bello della smaterializzazione, è che non è un
viaggio che permetta
ripensamenti. A guardarsi indietro non si vede che il presente.
------Note
[1]
Moesta
et Errabunda, LXII,
Spleen e Ideale, I Fiori del Male, C. Baudelaire, Trad: Bufalino.
No,
non mi sfugge che siano passati
praticamente quattro anni da quando ho pubblicato l’ultima
flashfic di questa
raccolta. Non ho mai pensato di lasciarla incompleta eppure non ho mai
avuto
voglia di scrivere ancora. Sono successe molte cose in questi anni e la
mia
vita è cambiata drasticamente, tuttavia mi rende felice
sapere che questo è
ancora un piccolo rifugio quasi immobile.
Immagino
non ci sarà più nessuno dei
vecchi lettori, e mi dispiace assai, ma spero che questa raccolta possa
ancora
dare qualcosa di nuovo a chi non l’ha mai letta.