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Autore: venusia    04/01/2014    3 recensioni
Prima parte - POV Bella (cap.1-19)
Siamo alla vigilia del matrimonio di Bella ed Edward quando Alice ha una visione: i Volturi piomberanno a Forks il giorno della cerimonia! Perché? Qualcuno ha violato le regole dei signori di Volterra? E come mai Alice non riesce a prevedere l'arrivo di Tanya?
Seconda Parte - POV Rosalie (cap.20-49) POV Bella (cap.50-59)
Desirèe, la figlia adottiva di Tanya, è stata dichiarata fuorilegge dai Volturi, e così pure Bella che le ha dato rifugio. Come si comporteranno i Cullen, tutti, tranne Rosalie, indifferenti alle vicissitudini di Desirèe? E il branco, che anch'esso ha voltato le spalle a Desirèe, pur essendo per metà umana e oggetto dell'imprinting di Seth?
Terza parte - POV Jacob (cap.60-epilogo)
L'inaspettata decisione di Bella di lasciare Edward aveva spalancato le porte del paradiso a Jacob, ma il combattimento con Demetri gliel'ha strappata, forse, per sempre. Mentre i Volturi si preparano alla battaglia finale per eliminare i ribelli, Jacob raccoglierà il difficile ruolo di Alfa del branco e capirà finalmente che il sole e la luna non sono poi così distanti.
Genere: Drammatico, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan, Jacob Black, Nuovo personaggio, Rosalie Hale
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Eclipse
Capitoli:
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I due giorni successivi passarono veloci, quasi divorati dal lavoro, dal godimento di assaporare ogni minuto con papà e Rachel. Riuscii perfino a trovare un’ora per radunare gli altri del branco e chiacchierare con loro. Ovviamente la riunione fu tenuta in forma umana e nessuno sospettò niente, visto che sapevano quanto io preferissi parlare come normali esseri umani e non tramite la telepatia. Si parlò del più e del meno e alla fine nessuno capì perché avevo indetto una riunione, tranne me. Volevo salutarli, a modo mio. Leah sarebbe stata un buon capo. Dopo l’imprinting con Ethan era diventata la più equilibrata, la più ragionevole e quella che raccoglieva gli umori di tutti i membri. Era bello che si fidassero di lei. Joe ovviamente continuava a far riferimento a me e quando mi vedeva non perdeva occasione per raccontarmi tutti i suoi tentativi andati a vuoto con una ragazza per cui si era preso, manco a dirlo, l’ennesima cotta. Mi faceva ridere e mi sarebbe mancato. Mentre io speravo di non mancare a lui.
Venerdì sera, subito dopo cena, telefonai a Rebecca. Restammo al telefono più di mezz’ora, soltanto io e lei, e non si insospettì della mia inusuale loquacità. Era sempre mia sorella ma l’eccessiva distanza ci aveva allontanato. Non coglieva più la mia rabbia, la fiacchezza o l’irrequietezza. Mentre invece per Rachel era tutto alla luce del sole. Fin troppo. Quando agganciai la cornetta, comparve dal salotto, avanzando taciturna, infine sussurrò, per non farsi udire da papà:“E’ successo qualcosa, Jake? Non ti senti bene?”.
“Tutto ok, perché?” scrollai le spalle.
“Ma… Non so… Non sei mai stato al telefono così a lungo con Becky e… Scusami, forse sono un po’ paranoica”. Le sorrisi e avrei voluto abbracciarla, ma così l’avrei fatta impensierire il doppio. Inoltre volevo lasciarle il ricordo del solito Jake, non del fifone, mollaccione e sentimentale. Niente doveva cambiare per nessuno.
“Prenditi una camomilla, va’!” ridacchiai, battendole una mano sulla spalla. “Vado all’incontro con Rose. Ci vediamo domani mattina”.
Uscii per incontrarmi con lei e riuscii a dare il meglio di me stesso, facendola ridere come ai vecchi tempi. Una risata contagiosa, innocente e spontanea. Avvolgente come l’acqua dell’oceano a First Beach. E fu tutto.
Quando tornai a casa, verso mezzanotte, mi diressi automaticamente in garage. All’interno avvertii subito l’odore di benzina, muschio e umidità che mi intorpidì leggermente le ossa. Accesi la lampadina che pendeva dal soffitto e osservai in estasi la mia moto. Datemi dell’idiota ma io la amavo come se fosse mia figlia, come una parte di me e in un modo perverso lo era. Mi avvicinai e la accarezzai con delicatezza.
Era il giorno del mio diploma e Billy e Rachel erano più eccitati di me che dovevo ricevere il famigerato attestato che mi avrebbe consegnato alla realtà degli adulti, anche se mi sentivo di farne parte già da un pezzo. Forse, a torto. Perfino Rebecca era arrivata dalle Hawaii per la grande occasione. Si era presa una settimana di ferie, mollato il marito a casa e tornata da noi. Quando l’avevo vista, pensai che non fosse cambiata affatto e che avremmo potuto riprendere il nostro rapporto da dove l’avevamo lasciato. Ma mi ero sbagliato. Perché se lei era uguale, a parte i folti capelli neri che si era tagliata, io ero completamente diverso e fu lei a stentare a riconoscermi. Ma non fu solo una questione di estetica. Non c’era più la sintonia di un tempo anche se era rimasta la solita scatenata Rebecca, mentre io mi trovai a ringraziare Dio che ci fosse stata Rachel con me in tutto il periodo passato. Rebecca era troppo uguale a me e se da piccoli questo particolare aveva fatto la differenza in senso positivo, ora la faceva in maniera opposta. Avevo bisogno di una persona più responsabile, sensibile e sicura, come la mamma. Come stava diventando Rachel, che ogni giorno le assomigliava sempre più.
Decidemmo di raccontare a Becky della mia licantropia e lei non si smentì quando, concluso il discorso di papà, si mise a ridere come se le avesse raccontato una barzelletta. Ma invece ci credeva eccome e mi chiese di trasformarmi. Era entusiasta come una bambina davanti a un giocattolo; viceversa il suo entusiasmo si tramutò in sconcerto e ansia quando gli raccontammo dei Cullen e soprattutto dei Volturi, di Seth, Quil e degli altri, morti quel giorno. In quel momento si rese conto che non era un gioco e che io avevo corso veramente il rischio di rimetterci la pelle. Si arrabbiò come poche volte l’avevo vista fare, sia perché l’avevamo deliberatamente tenuta all’oscuro, sia perché papà mi aveva lasciato combattere contro dei vampiri. Inoltre la preoccupava all’eccesso la presenza dei Cullen come “vicini di casa”. Rachel prese in mano la situazione e, senza che potessi protestare, la trascinò dai Cullen per dimostrarle che non c’era alcun pericolo. Non andai con loro, ma quando tornò, appariva più tranquilla. Aveva parlato con Edward e rivisto Bella, stentando quasi a riconoscerla da quanto era cresciuta dall’ultima volta che l’aveva vista, cioè quando erano poco più che bambine, e si era convinta che non fossero una minaccia. Un’ondata di rammarico la turbava e potevo immaginare perché. Quando rimanemmo da soli in cucina, disse, con gli occhi sgomenti:“Ho visto Rosalie… Mi dispiace”. Mi appoggiai al lavello, come un giocattolo rotto.
Mi strinse il braccio in un’invocazione:“Devi starle lontano, Jake. Fino a quando non si sarà risolto tutto. Non devi oltrepassare quei dieci metri, ti scongiuro”.
Appoggiai la mano sulla sua, continuando a fissare il vuoto. “Non ti devi preoccupare. Non farò niente di stupido. E poi Rosalie si preoccupa più di me di non avvicinarsi troppo”. Becky deglutì e mi abbracciò.
Così alla consegna dei diplomi c’era tutta la famiglia al completo. Oltre a loro, anche Emily, Sam, Leah e Bella. Tutti i diciottenni del branco si diplomavano alla stessa scuola così i più grandi avevano colto la palla al balzo per fare un festeggiamento unico. Bella era venuta perché ci teneva davvero e avrei voluto che anche Rose fosse stata lì, ma aveva deciso che era il mio giorno e non voleva rovinarlo con la sua presenza a distanza. Questa decisione mi fece soffrire ma si rivelò la più azzeccata: scherzai con Embry e Jared; fui preso in giro dalle mie sorelle; pregustai con Bella il mio roseo futuro da meccanico, e lei fu magnifica. Mi trovavo così bene con Bells da dimenticare la mia situazione. Era un toccasana, una vera medicina, e senza controindicazioni.
Quando la festa a scuola fu conclusa, tutti se ne andarono e papà, Rachel, Rebecca ed io ce ne tornammo a casa. Ero seduto vicino al guidatore con il mio diploma sulle gambe, quando Rachel tirò fuori un pacchetto dalla sua borsa e me lo allungò. Una scatolina poco più grande di una mano con un fiocco color pervinca sommerso da un’infinità di riccioli. “Che cos’è?” domandai a muso duro. Avevo detto a tutti che non volevo regali.
“E’ da parte di Rosalie… Sù, aprilo”.
Rosalie? La parola magica per placare la rabbia. Non ci misi molto a ritrovarmi in mano una chiave legata ad un portachiavi in gomma a forma di Y. Rebecca si sporse verso di me dal sedile posteriore, appoggiò il mento a un braccio e la guardò:“Cos’è? La chiave di casa sua?”.
Rachel scoppiò a ridere, lasciando trapelare che lei ne sapesse molto più di quello che diceva. Onestamente io ero confuso. Non avevo la più pallida idea di cosa fosse e soprattutto cosa aprisse, però su una cosa avrei potuto scommettere: non era la chiave di una porta. Quando Rachel arrivò a destinazione, non parcheggiò davanti, come al solito, ma dall’altra parte della strada. Stavo ancora contemplando la chiave quando mi accorsi che davanti a casa nostra c’era una moto che avrei riconosciuto fra mille: una Yamaha YZF – R1, nuova, appena uscita dalla concessionaria, con le carene blu e un gigantesco fiocco sul vetro anteriore. Mi paralizzai, osservando il nastro, dello stesso colore di quello che stava sulla scatola che tenevo ancora in mano. “Di chi è quella moto?” domandò ingenuamente Rebecca.
Rachel mi sfiorò il braccio e fu una scossa elettrica. “Allora?” chiese. “Non è la moto che ti piaceva tanto?”.
Solo in quel momento Becky capì mentre io l’avevo intuito da un pezzo ma mi rifiutavo di crederlo possibile. Rose mi aveva comprato la moto nuova. Aveva speso un sacco di soldi perché quella moto costava quasi ventimila dollari. Il primo impulso fu di restituire il regalo ma luccicava perfino senza sole. Corsi da lei e strappai il fiocco, ammirandola e rimirandola in tutto il suo splendore. Dio, era meravigliosa! L’avevo desiderata così tanto che mi ero convinto che non l’avrei mai potuta avere. Perché i sogni non si avverano mai, almeno i miei. Invece era lì, reale, potevo toccarla. Girai la chiave e la accesi mentre Rebecca e mio padre la osservavano in ogni particolare. Incontrai Rachel, che, sollevando un angolo della bocca, da birbante, disse:“Ti terrò in caldo il pranzo”. Annuii e partii a tutta birra, senza preoccuparmi del casco.
Arrivai alla nota stradina selciata che portava dai Cullen e lì rallentai. Generalmente andavo più veloce per sollevare un polverone irrespirabile ma avevo troppa paura che un sasso potesse scheggiare la carrozzeria, perciò andai quasi a passo d’uomo. Quando fui davanti alla villa bianca, mi accolse l’intera famiglia Cullen sotto il patio. Jasper e Bella scesero per ammirare il regalo, seguiti poco dopo da Edward ed Alice, più pacati e serafici. Non prestai attenzione a nessuno di loro, mi avvicinai, per quanto concesso, a Rose. “Sei contento, Jake? E’ lei, vero?”. La sua voce era morbida, vicina.
“Sì” annuii. “Ma sei tu a farmi felice, non la moto, amore mio”.
Si appoggiò a una delle colonne, dolce e soddisfatta. “A quanto va questo catorcio?” si intromise Alice, distraendomi dal mio stato di contemplata beatitudine. Catorcio a chi?! Ne scaturì una discussione che portò a una gara tra me, in sella alla nuova moto, e la nanerottola con la sua Porsche. Finimmo a sfidarci sulla statale, incuranti di polizia e velox. Dapprima distaccati e cerimoniosi spettatori, gli altri sembravano compatirci, poi anche loro vollero partecipare. Io vinsi quasi sempre: in curva ero decisamente più veloce. Non c’era storia. Però purtroppo dovetti chinare la testa quando Bella, per dare una lezione alla mia boria, estrasse dal cilindro la sua macchinina. La sfida si tenne sul rettilineo della superstrada e la sua Ferrari venne guidata da Edward. E purtroppo persi. Per pochi secondi, ma persi.
Quel giorno mi divertii come un pazzo e fu strano visto che avevo trascorso la giornata solo con dei vampiri ma fu ugualmente follia pura. L’unico momento in cui mi si strinse lo stomaco fu quando decisi di andare a fare un giro con la moto e li lasciai. Avrei voluto Rose con me, ma dovevo aspettare. Prima o poi quel momento sarebbe venuto, mi ero detto. Ora ero certo che non sarebbe mai arrivato.
Mi sedetti su un piccolo e sbilenco sgabello di legno, poco lontano dalla moto, così da ammirarla in tutto il suo splendore. Robusta, agile, potente. In mezzo alla rimessa osservava il suo lugubre dominio fatto di polvere e ricordi. Mi guardai attorno. Quante cose fatte lì, in quella tana, nella mia tana. I pomeriggi con Bella, quando era ancora umana, a riparare le moto e a fare i compiti, le barzellette con Quil ed Embry, le litigate con Rachel quando eravamo piccoli. Eh sì, quella rimessa aveva visto una parte della mia vita. Non le tappe fondamentali, certo, ma le più innocenti e ingenue.
L’ordine non era mai stato il mio forte! I ferri del mestiere stavano ammonticchiati su un bancone, su cui avevo proibito a Rachel di mettere le mani. Nel mio disordine trovavo sempre tutto e nessuno doveva spostare nulla. Reclinai il capo su un braccio, prima di osservare nuovamente la moto che sembrava dormisse.
Chiusi gli occhi con violenza mentre rivedevo quella ragazza bionda camminare nella mia direzione, sofisticata e sicura di sé, perché tanto sapeva che nessuna avrebbe potuto batterla, che non sarebbe mai esistita competizione. Un ragazzino era rimasto abbagliato da tanta bellezza e non l’avrebbe dimenticata. Per quanto potesse essere spregevole, irraggiungibile e arrogante non sarebbe mai stato soddisfatto fino a quando non l’avesse fatta sua. Il mio angelo sulla terra.
In rapida successione uno sguardo pieno di rancore e inasprito dalla rabbia troppo a lungo controllata. Un polso stretto nella mia mano per ribadire chi comandava e per ficcarle in testa che non poteva nemmeno sognarsi di trattarmi come una pezza da piedi.
“Non ci provare più, principessa. Io non sono come Emmett!” le avevo detto con un sorriso a dir poco irritante.
“Ti piacerebbe…”.
“No, però piacerebbe a te che io fossi al posto suo!”.
Mi accarezzai la guancia come se lo schiaffo di quel giorno a First Beach fosse appena stato dato. Mi aveva fatto male, avevo sentito lo zigomo scricchiolare ma piuttosto che darle soddisfazione mi sarei ucciso. Mi piaceva farla arrabbiare, trovavo un delirante appagamento in questo e ora capivo che l’avevo fatto soltanto per attirare la sua attenzione. Non mi avrebbe mai degnato di uno sguardo, se non per manifestarmi il suo disgusto.
Sentivo gli occhi inumidirsi e qualcosa annodarsi in gola mentre vedevo un’altra immagine davanti a me. La stessa ragazza che in quella grotta mi urlava disperata i suoi sentimenti mentre io non facevo altro che riderle in faccia per farla sentire inutile e indegna, esattamente come lei aveva fatto sentire me per tanto tempo. Soltanto ripicche, niente di più. Sento ancora la sua mano che mi accarezza il viso quando mi sussurra “Ti amo”, le gambe strette attorno alla mia schiena, quando grida il mio nome, quando mi illudo che finalmente sia mia mentre in realtà sono io a essere suo. Sono io a perdermi dietro una ragazza che non mi vuole e che non amo quanto lei, ma non lo capisco. Incatenato per mesi a una roccia da cui non voglio staccarmi e soltanto quando sarà essa stessa a scacciarmi, capirò che non era il mio rifugio.
Altre immagini si susseguirono nella mia mente: la scalata sull’albero, lei vicino a me quella notte in cui avevo bevuto fino a vomitare, i nostri pomeriggi ridicoli a giocare e passeggiare come se fosse la cosa più divertente di questo mondo.
Mi meritavo ciò che stava succedendo perché io non meritavo lei. Era questa la soluzione, l’interpretazione della mia vita. Sentivo il dolore per ciò che avevo provocato, ma forse non avevo mai avuto una scelta, forse doveva andare così. Tuttavia appellarsi al destino non è una giustificazione e adesso mi ritrovo a chiedere perdono per i miei errori.
La sto facendo soffrire e basta. Anche dopo aver giurato che il suo benessere sarebbe venuto prima di qualunque altra cosa, continuo a colpirla e a privarla di ogni difesa. Non potrò mai avere l’assoluzione, non potrò mai avere pace, pensando alle lacrime che ha versato per me. Non le merito. Ed è giusto che finisca tutto, che io ti renda alla vita così come tu mi hai reso alla mia. Soltanto che io non esisterò senza di te mentre tu solleverai il mantello che ti tiene nascosta alla vita e finalmente vedrai la luce di cui ti ho privato per mesi. Strapperò io la catena se non sei in grado di farlo e ti libererò da noi, da me.
La mia bambina crescerà e diventerà grande, la lascerò fuggire e svanire lontano.
Mi alzai e andai al bancone dove rovistando distrattamente, trovai dei ceppi di legno e il mio vecchio coltellino a serramanico. L’avevo utilizzato per fare un braccialetto per Bella come regalo per il suo diploma, una vita fa. Da allora non l’avevo più preso in mano. Sorrisi stanco e, afferrando il legno, iniziai a incidere. Ci avrei messo tutta la notte, ma tanto dal pomeriggio seguente avrei avuto l’eternità per riposarmi, quindi potevo perdere qualche ora di sonno.
All’alba di sabato avevo finito la mia scultura: la mia piccola bambina, con un mazzo di fiori in mano. Certo, non era venuta proprio come la vedevo nei miei sogni ma non ero neppure Michelangelo. Dovevo accontentarmi e sarebbe servito allo scopo. Lei mi avrebbe convinto ad andare avanti ad ogni costo. La misi in tasca e rientrai in casa. Erano le otto del mattino e papà era già sveglio. “Jake, non sei andato a dormire?” domandò guardingo.
“No, non avevo sonno. Sono rimasto nel garage a fare qualche lavoretto…”.
“Sì, ma adesso sarai stanco. Vai a dormire…”.
Scrollai le spalle e salii le scale mentre Billy spingeva la sua carrozzella verso il ripostiglio. “Ah Jake, io sto per uscire. Charlie ed io andiamo a fare uno dei nostri soliti weekend di pesca. Ci vediamo domenica sera”.
Mi bloccai sull’ultimo gradino. Domenica sera. Mi voltai verso di lui, che non mi prestò attenzione, tutto preso dal sistemare canne da pesca, lenze ed esche. Lo guardai dall’alto. Avrei voluto abbracciarlo ma avrebbe sospettato qualcosa. “Certo. Divertiti, allora” risposi, camuffando il tremore della voce.
Entrai in camera e mi sedetti sul davanzale fino a che non vidi arrivare Charlie con il vecchio pick up di Bella, che ora utilizzava lui, caricare mio padre e andarsene ridacchiando tutti e due insieme. Osservai papà in ogni piccolo movimento e fui felice che la sua amicizia con Charlie fosse infine tornata come un tempo. La mia impulsività non aveva fatto danni irreparabili e da oggi pomeriggio ne avrebbe avuto molto bisogno.
Forse era una montatura. Forse una volta che Rose fosse stata davvero vicina a me tutto si sarebbe risolto in una bolla di sapone e io sarei guarito, lei sarebbe stata bene e avremmo avuto la nostra vita. Sbuffai. Ma chi volevo prendere in giro?
Mi feci una rapida doccia e andai a farmi l’ultimo giro in moto. Sparii per l’intera mattinata, arrivando fino a Seattle e percorrendo le stradine impervie che si inerpicavano sulle Montagne Rocciose. Per un motociclista tutte quelle curve erano un toccasana e io non facevo eccezione. Mentre sfrecciavo ai centocinquanta all’ora in curva mi chiedevo se Rose avrebbe capito che non volevo lasciarla e che tutto quello che stavo facendo sarebbe stato solo per lei. E se da una parte speravo che accadesse proprio questo, dall’altra speravo di no perché così mi avrebbe odiato per averla abbandonata e tutto sarebbe stato più facile. Eppure… io non volevo che mi odiasse. Una lacrima mi inumidì gli occhi. E poi un’altra e un’altra ancora. Non mi fermai per asciugarle perché avevo il casco e fino a che questo mi avesse difeso potevo illudermi che andasse tutto bene, che non stessi piangendo e che fossi abbastanza forte per entrambi. Lo sguardo del mondo non mi avrebbe ferito e io avrei potuto continuare a credermi Jacob, l’invincibile.
Ritornai a casa per pranzo e trovai Paul, invitato da Rachel a mangiare da noi. Così non potevo avere nemmeno mia sorella tutta per me. Sorrisi alla sfortuna e decisi di approfittare dell’occasione per stare un po’ anche con lui.
Conversammo amabilmente per tutta la durata del pasto e anche dopo li impegnai in discussioni senza fine. Paul mi osservava a tratti indispettito perché probabilmente avrebbe voluto che mi togliessi di torno e approfittare della casa svuotata dalla presenza di papà, ma per quanto mi riguardava poteva attendere. Lui e Rachel avrebbero avuto tutta la vita, mentre io solo poche ore e mia sorella sembrava divertirsi un sacco con me tra i piedi. Parlammo, giocammo a carte, scherzammo fino a che vennero le cinque e mezzo.
“Beh, vado a farmi un giretto” esclamai alzandomi stancamente.
“Puoi rimanere, Jake…” replicò mia sorella. “Per noi non è un problema. Chissà quante volte papà andrà a pesca adesso che è estate…”.
“No, ho voglia di sgranchirmi le gambe. Ci vediamo stasera”.
Mi avvicinai alla porta. Le gambe pesanti, le spalle ricurve e lo stomaco chiuso. Ruotai la maniglia e vidi Rachel, già seduta in braccio a Paul, sussurrargli qualcosa all’orecchio. Speravo di avere anch’io il tempo di abbracciare Rose in quella maniera. Qualche minuto, non di più. Lanciai un’ultima occhiata al corridoio, al gradino rotto quando ero ruzzolato giù dalle scale a otto anni, al telefono, quasi consumato dalle telefonate a Rebecca degli ultimi anni, alle chiavi della moto appoggiate sul ripiano costruito da papà, prima dell’incidente. Uscii, sbattendo la porta e mi incamminai verso la foresta, senza voltarmi indietro.
Mentre appoggiavo un piede davanti all’altro, la testa si era svuotata. Non avevo paura, né rimpianti per quello che avrei lasciato mentre ero investito dalla frenesia di poterla abbracciare, ammesso che il cuore mi avrebbe concesso questa possibilità. Oh sì, non poteva essere così crudele anche alla fine! Era paradossale a rifletterci bene. Ero sempre stato ostile al suicidio e invece mi ritrovavo proprio io a compierlo. Mi scappò una risata dal profondo. Poco convincente e molto ironica. Il suicidio per amore era la cosa più stupida che avessi mai contemplato, ma evidentemente non ero coerente come credevo. O forse non avevo mai amato nessuna come Rose.
Quando arrivai sotto la quercia, mancavano pochi minuti alle sei. Il sole litigava con le nuvole per liberarsi dalla loro prigionia, ma anche se avesse vinto non avrei potuto goderne a pieno visto che le chiome degli alberi erano così folte da avvolgere in larga parte il sottobosco, che anche in piena estate continuava a conservare un tenace odore di muschio. Mi sedetti, portando le ginocchia al petto e guardai fisso davanti a me, in attesa.
L’avevo baciata lì, la prima volta, e l’avevo fatto solo per umiliarla. Mamma mia, ero proprio un bamboccio! Salvo che poi la situazione mi era sfuggita di mano, come al solito quando si trattava di me. Non avrei dovuto indugiare così a lungo. Il piano era “bacia leggermente e squagliatela”. E invece… Mi mordicchiai il labbro. Non avevo pensato che mi sarebbe piaciuto, che non mi sarei trovato di fronte a un pezzo di marmo ma a un essere vivente in carne e ossa, certo un po’ più freddo del normale, ma la sua bellezza stava forse in questo.
Quanto mi ero divertito a farla arrabbiare! Santo cielo, mai baciato labbra così ma non potevo smentirmi non prendendola in giro, come tutte le altre volte. Ridacchiai, rivivendo tutti i nostri momenti insieme e sì, per l’ennesima volta, mi pentii del tempo perso dietro a Bella. Avremmo potuto impiegarlo meglio. Deglutii faticosamente. Speravo solo che non mi sfuggissero lacrime mentre ero con lei, perché erano già pronte ad uscire. Gli occhi bruciavano come se avessi pianto tutta la notte e li sentivo gonfi e appannati.
Avvertii uno scalpiccio lontano. Passi leggeri e veloci nella mia direzione. Inspirai rapidamente: puzza di vampiro. Mi alzai in fretta, appoggiandomi indolente all’albero. Se mi fossi sentito male, il suo sostegno avrebbe potuto camuffare la sofferenza.
“Si può sapere dove stiamo andando, Edward? Ti ho già detto che non ho fame!”. La voce di Rose suonò indispettita e seccata.
“E io ti ho già detto che non ti sto portando qui per la caccia. C’è una piccola sorpresa per te” replicò Edward confortevole e persuasivo.
“Spero che sia bella davvero perché voglio tornarmene a casa!”.
Dopo poco meno di un minuto sbucarono da dietro un abete. Rosalie aveva sentito il mio profumo perché, quando la vidi, stava correndo con sicurezza verso di me, scansando gli altri alberi. A una ventina di metri si fermò, piacevolmente sorpresa e divertita. “E’ questa la sorpresa?” domandò leggera come una farfalla. Edward, che l’aveva raggiunta nel frattempo, non rispose ma si limitò ad annuire. Il mio complice mi fissò e dal suo sguardo trapelò una serie ininterrotta di domande silenziose a cui potevo dare un’interpretazione più o meno realistica e anche una risposta. Sì, sono sicuro. Scosse la testa, disapprovando in pieno il mio piano, ma non avrebbe fatto niente per mandarlo a monte. Ormai avevo imparato quanto tenesse a quella sorella.
“Non dovevamo vederci stasera?” domandò maliziosa.
“Ho deciso per un piccolo fuori programma…” ammisi sornione.
“Mi piacciono questi fuori programma!”.
Fece una decina di passi verso di me poi si fermò nuovamente, mentre Edward era rimasto immobile alle sue spalle. Silenziosa e radiosa, mi abbracciava con lo sguardo, in attesa che dicessi qualcosa. Ed effettivamente toccava a me dare inizio alla recita, ma, dovetti ammetterlo, mi persi nell’oceano profondo dei suoi occhi.
Fu l’avanzare di Edward a riportarmi sulla terra.
“Non ho chiesto a tuo fratello di portarti qua solo perché avevo voglia di vederti, ma anche per un altro motivo” esordii teso.
Il sorriso scomparve come una luce spenta all’improvviso, presagio di cattive notizie. “Quale motivo?”.
Mi sforzai di ridere per risultare convincente ma ne uscì una risata sguaiata. “Edward ed io abbiamo trovato il rimedio”.
Rosalie spalancò gli occhi. “Il rimedio? E come?”.
“Abbiamo annullato l’imprinting”. Il suo viso divenne una maschera impenetrabile come quella di un gatto.
“Non capisco”.
“Abbiamo trovato una strega che ha fatto un incantesimo e ha annullato l’imprinting”.
“Come sarebbe? Bella mi aveva detto che la ricerca avrebbe richiesto mesi e ora salta fuori che l’avete già trovata e non mi avete detto niente?” si voltò verso suo fratello. Adesso era il suo turno sostenere la bugia. Senza di lui, il mio castello di carte sarebbe crollato.
“Jacob ha ragione”. Edward non indugiò nemmeno un istante. Pacato e controllato. Davvero un ottimo commediante. “Bella non te lo ha detto perché di fatto è accaduto stamattina all’alba…”.
“Ma come…? Dove…?”.
“Una strega in Canada. Ha fatto l’incantesimo e ora Jacob è libero…”.
Rosalie abbassò il viso: non era affatto contenta di ciò che suo fratello le stava confermando e io potevo immaginare il perché. “Ti amo ancora. E’ soltanto l’imprinting che è venuto a cadere, ma io ti amo lo stesso” la rassicurai.
“Se mi ami come prima, come fai a dire che l’imprinting non c’è più?”.
“Perché noi lupi avvertiamo la differenza, ma ti posso assicurare che i miei sentimenti sono rimasti gli stessi. Certo, saranno un po’ meno profondi, ma ti amo e ti amerò sempre”.
“Quindi ora posso abbracciarti?” balbettò.
“Certo. Vieni da me, amore” la pregai, invitandola con un cenno della mano.
Mi fissò come un miraggio nel deserto: hai paura che non sia vero, tuttavia non puoi non sperare che l’acqua sia lì, che ti possa abbeverare dopo tanta siccità. La sua espressione mi strinse la gola.
“Allora vieni qui o devo venire a prenderti io?” scherzai. In realtà non volevo muovermi da dove mi trovavo ma se fosse stata troppo sconcertata non avrei potuto fare altro. Raddrizzai la schiena per incamminarmi, quando Rosalie iniziò un lento percorso. Avevo sperato che arrivasse di corsa ma non si fidava. Voleva essere sicura che tutto andasse come avevo detto e perciò calcolava, procedeva con cautela, osservava ogni passo, la distanza e, soprattutto, le mie reazioni. Alla minima smorfia si sarebbe fermata e io dovevo solo sforzarmi di recitare al meglio, di sostenere il dolore delle fitte che sicuramente sarebbero arrivate implacabili. Speravo di non cadere stecchito prima che lei arrivasse, speravo che Edward mi avrebbe aiutato, sognavo che la tortura avesse fine.
Il cuore iniziò a battere più velocemente, a rimbombare nel petto come uno scoppio di cannone, e per questo a farmi male, ma per il momento era sopportabile e avrei fatto di tutto per tenere incollato sul viso questo stupido sorriso. Strinsi la statuina di legno che avevo conservato in tasca, come un amuleto che potesse darmi forza. La distanza diminuiva mentre il braccio destro si informicolava e la bocca dello stomaco si torceva fino a impedirmi quasi di deglutire. Strinsi il pugno più volte mentre un vago bruciore esplodeva nel petto come un incendio senza fine. Ma tutto era confuso e pallido rispetto alla felicità di averla di nuovo vicina. Sentivo il suo odore intenso come mai negli ultimi mesi. Mancavano pochi metri quando una coltellata mi trafisse il cuore; dapprima superficiale, la sentii affondare e scavare nella carne come se ne volesse estrarre qualcosa. L’istante successivo una seconda, leggermente più debole della prima. Strinsi i denti per un istante, soltanto per deglutire l’urlo che voleva librarsi in volo, e accennare il sorriso più luminoso. Mi stavo già illudendo di essere il più grande attore della storia quando arrivò la terza fitta e non potei più fingere. Respirai profondamente per artigliare l’aria, per tamponare le ferite con ondate di ossigeno ma non servì. Il sorriso che mi ero incollato addosso si sciolse, sostituito da una smorfia grottesca. Il mio corpo aderì completamente all’albero alla ricerca di sostegno. Cercando qualcosa su cui sfogare la pena, non trovai niente altro di meglio che affondare le dita nella corteccia, facendola a brandelli.
Rosalie si accorse che c’era qualcosa che non andava e si fermò. Scosse la testa meccanicamente, la bocca si mosse a vuoto, le lacrime inondarono gli occhi. “Jake…” gemette.
Era a meno di cinque metri e io non potevo più nasconderlo. Mi portai la mano al petto, respirando profondamente, prima di lasciarmi scivolare lungo il tronco dell’albero, fino a ritrovarmi seduto a terra. La fissavo e sotto quel minuscolo raggio di sole che filtrava proprio in quel punto, era ancora più bella che sotto la luce della luna.
“Ti prego, vieni da me” la implorai con un filo di voce.
Fece cenno di no con la testa, crudelmente. Anzi, fece un passo indietro, ma trovò Edward e si voltò verso di lui.
“Sta male” stentò a proferire.
Le parole si erano bloccate in gola e non volevano più saperne di uscire.
Edward la guardò e si voltò verso di me, con una preghiera. Quello che gli chiedevo l’avrebbe condannato per l’eternità e non avrebbe voluto farlo. Lo credeva disumano e sapeva che Rosalie l’avrebbe odiato per l’eternità. Lo vidi vacillare, combattuto. No, non adesso. Arretrò di un passo mentre Rose sembrava solo chiedere aiuto.
Ti prego Edward, non mi abbandonare. L’hai promesso… Sarà lei a morire se non mi aiuterai adesso. Fra noi due, l’unica che può rifarsi una vita è lei. Per favore!
Una scossa elettrica e la pena si trasformò in convinzione. La prese per mano e la tirò verso di me. Rosalie non capì cosa stesse tentando di fare: lo guardò incredula, ma fece ugualmente resistenza. Piantò i piedi per terra, irrigidendo le gambe il più possibile, ma, complice il suo indebolimento, Edward riuscì a spostarla.
“No, no! Lasciami!” iniziò a dimenarsi con tutte le sue forze. “Lo ucciderò se mi avvicino troppo”. Urlò più volte contro suo fratello, ma lui era decisamente troppo più forte e la trascinò fino a me. Mentre si avvicinava le urla si mischiavano alle lacrime. I suoi occhi erano bagnati e magari avrei avuto un po’ di tempo per asciugarli. Acqua che brillava sotto le ciglia chiuse. Sei maledettamente bella, e mi uccide sapere che non potrò più guardarti.
Alzai faticosamente il viso su di lei e dissi:“Amore mio, sei arrivata finalmente”. Avrei voluto scherzare, prenderla in giro come al solito, ma la parte del buontempone non si confaceva alla situazione. Non ce l’avrei nemmeno fatta. Mi sembrava di generare solo dolore, ma volevo che mi ricordasse per come ero, almeno vagamente.
Edward le lasciò il braccio mentre lei immobile, mi fissava, soffocando le lacrime. Non eravamo mai stati così vicini in questo anno appena trascorso. Avrei voluto alzare una mano per sfiorare la sua ma mi sentivo strangolato. Tutte le forze erano occupate a nascondere il dolore, o, perlomeno, a farlo apparire meno penoso di quanto fosse.
Rose si chinò su di me, singhiozzando. Mi prese la mano e se la portò sul viso per sentire il calore e io potei asciugarle le lacrime come avevo desiderato.
“Perché stai piangendo, amore?” domandai, ansimando.
“Io devo andarmene”.
“Perché? Non sei felice qua, con me?”.
“Darei tutto per restare con te, ma ti sto uccidendo. L’imprinting non ha smesso di funzionare e io devo andarmene, altrimenti tu…”. Fu costretta a interrompersi perché la voce si fece velata, quasi soffusa. Con l’altra mano le accarezzai i capelli. Erano ancora morbidi come li ricordavo, soffici come un gomitolo di lana.
Mi scappò un risolino. “Non sei mai riuscita a uccidermi quando ne avevi tutte le ragioni, figurati adesso. Sono un duro, sai?”. Non riuscivo proprio a smettere di fare lo stupido.
La guardai in attesa di un sorriso sollevato o di una battuta banale che non arrivò. Piangeva e basta, continuando a stringere la mia mano sulla guancia. Come potevo farle capire quello che stavo provando? La vita mi stava sfuggendo dalle mani e tutto ciò di cui mi importava era lì, davanti ai miei occhi. Non l’avrei più vista ridere, né giocare, non avremmo mai più discusso per ogni sciocchezza. Avrei dovuto dare l’addio a tutto, anche a quel viso che mi stava guardando bisognoso di una conferma che non tutto era perduto, che si poteva fare qualcosa. La mia candela si stava spegnendo, e morire abbracciando Rosalie era tutto ciò che mi bastava per andarmene. Tutto ciò che fomentava il rimpianto, tutto ciò che mi consolava.
Ti sentirai bene domani. Dopo quello che è successo avrò il tuo disprezzo per averti abbandonata e sarà facile per te pensare che non hai perso niente. Ti guardo, intaglio nella memoria ogni curva del viso e del tuo corpo perché voglio essere sicuro che continuerò a vederti quando chiuderò gli occhi. Ancora un minuto e tutto sarà finito.
“Mi puoi baciare ancora una volta prima di andare via?” la implorai, spossato.
Non dovetti aspettare, non dovetti combattere perché mi accontentò subito.
Si avvicinò e mi sfiorò delicatamente le labbra, come se avesse paura di farmi male. La strinsi decisamente a me per sentire ancora il suo corpo aderire al mio. Tutto era come lo ricordavo, niente era cambiato a parte la sensazione di unione perfetta. Non mi feci troppi problemi al pensiero che Edward fosse a pochi passi e lo stesso fece Rose. Socchiusi le labbra, in attesa di ciò che mi era tanto mancato in quell’anno: la passione. Mi sentii scorrere da un fiume di calore che mi tolse il fiato. Respiravo il suo profumo mentre, persa ogni esitazione, ci scambiavamo baci affannati, come se avessimo fame l’uno dell’altra. Non avevamo bisogno di niente, tutto era racchiuso nell’altro. Non esisteva un mondo in cui vivere. Eravamo soltanto noi due. Presto sarebbe finito tutto, ma mi sforzavo di resistere ancora e ancora, di non lasciarmi andare. Perché sei comparsa nella mia vita? Ci siamo fatti a pezzi, soltanto per risollevarci insieme poco dopo. Ma stavolta andrà diversamente. E’ finita davvero, ma è il finale che ho scelto io perché la nostra storia farà parte di te e continuerà per la tua eternità.
Infine decise che era giunto il momento e le sue labbra si allontanarono lievemente da me. Mi sorrise per non affondare nel pianto, per non dimenticare che per qualche mese eravamo stati felici. Questo era quello che volevo sapere: averle regalato almeno un attimo di felicità. Ricambiai il sorriso. E stranamente il dolore al petto sparì. Spento come una fiamma da un soffio di vento, come se non fosse mai esistito, come se potessi avere un’altra possibilità.
Che fosse così davvero? Che qualcuno lassù avesse avuto pietà di noi? Eppure stavo bene, riuscivo a respirare, il cuore era tornato a battere più lentamente, quasi normale, e tutto era pace. Anche Rose sentì il battito tornare a regimi normali e aprì la bocca per dire qualcosa, poi la richiuse, incapace di fantasticare.
Ma non ce ne fu il tempo perché l’illusione durò un attimo. Me ne accorsi quando provai ad abbracciarla più forte. Non avevo energie, mi sentivo svuotato, come un burattino i cui fili erano state recisi e che nessuno avrebbe potuto riannodare. Il cuore rallentò mentre la testa si fece leggera, inconsistente. Gli arti si stavano intorpidendo e qualunque movimento divenne straordinariamente pesante e greve. Stavo morendo.
Perché mi ero illuso? La legge era molto chiara. Un licantropo non può amare un vampiro; il sole e la luna non possono illuminare il cielo nel medesimo istante. E noi non facevamo eccezione. Ma non potevo spezzare l’illusione di Rose e non volevo che se ne andasse perché ormai sarebbe stato troppo tardi e non volevo morire lontano da lei.
“Sai che è sparito il dolore, amore?” le dissi, con un sorriso contagioso.
“Davvero?” domandò sospettosa. Si fece silenziosa e ascoltò il battito del cuore. Era regolare, calmo. Fin troppo debole, ma questo lo percepivo soltanto io. I lineamenti del mio viso, rilassati e sollevati, contribuirono a gettare al vento ogni paura.
“Già. Sei proprio miracolosa”.
“Come il bacio della bella addormentata nel bosco!” e iniziò a ridere raggiante di gioia. “Allora l’imprinting si è annullato?!”.
“Pare proprio di sì!”.
“E’ meraviglioso!” urlò. Poi si rivolse a Edward per ricevere le sue congratulazioni e lui, intenerito, non fece altro che dirle ciò che voleva sentire:”Hai visto che tutto si è risolto?”.
Rose annuì e si gettò fra le mie braccia, strusciandosi come un gattino. Mi abbracciava, affondando il viso sul mio petto, poi alzava il viso per sorridermi e l’istante successivo tornava a nascondersi fra le mie braccia. Rideva e singhiozzava contemporaneamente. Felice.
Ti prego, Edward, lasciaci soli. pensai senza incrociare il suo sguardo.
Non disse niente ma lo sentii allontanarsi mentre io approfittavo dei nostri ultimi momenti insieme per giocare con i suoi capelli. Quando alzai lo sguardo e vidi la figura del mio odiato vampiro camminare verso il fitto della foresta, continuai: Abbi cura di lei, sempre. Promettimelo. E abbraccia Bella da parte mia. Dille che le ho voluto tanto bene.
Il ragazzo dai capelli ramati si fermò e si girò verso di me, annuendo. Quello fu un altro rimpianto, ma non avevo tempo di recriminare. La mia vita era stata costellata di soddisfazioni dalla durata molto limitata ed avevo imparato ad apprezzarle. Edward era una di queste. Grazie, amico.
Non ne sarei mai stato sicuro ma mi parve di vedere una lacrima, per quanto piccola e rapida, solcare quel viso perfetto. Poi riprese a camminare e ben presto sparì nella foresta. Continuai ad accarezzarle i capelli mentre tentavo di abbracciarla, ma le braccia stavano perdendo energia. Mi stavo svuotando e la testa cominciava a girare.
“Dov’è andato Edward?” domandò improvvisamente, rendendosi conto che suo fratello era svanito come un fantasma alla luce del sole.
“Gli ho detto di andarsene e lasciarci un po’ soli. Ho fatto male?”.
“No, per niente” replicò, scrollandosi le ultime lacrime con il dorso della mano. “Sono così felice Jake. Finalmente il nostro sogno sarà realtà e potremo avere ciò che desideravo… Ci sposeremo e avremo una casa nostra. Meraviglioso”. Mi baciò di nuovo: dolce, insistente, ammaliante. Poi tornò ad abbracciarmi, mai sazia.
“Ti amo” balbettai. “Lo sai, vero?”.
“Certo, amore. E’ l’unica cosa di cui sono sicura a questo mondo. Insieme al fatto che nessuno ci dividerà mai” rispose distrattamente, passandomi le mani sulle braccia. Avrei voluto lasciarmi andare a quel momento ma stavolta me ne sarei pentito.
“Hai il mio cuore, da ora in avanti sarà sempre tuo. Tutto quello di buono che c’è in me ti appartiene, perché l’hai creato tu. Non sarò mai lontano da te. Non dimenticarlo mai. Anche se magari non saremo insieme fisicamente”.
“Beh, certo anche perché lo shopping lo farò con Bella ed Alice e sicuramente non ci sarai. Come a caccia, andrò con loro ed Edward. Non credo che a te possano interessare gli animali sgozzati” ridacchiò.
“No, effettivamente no” contraccambiai.
“Però a parte questo, ti voglio sempre vicino a me”.
“Sarò sempre con te, in qualunque momento. Però se dovesse capitare che io per qualche motivo non ci sia, rivolgiti a Edward, lui ti vuole bene e sceglierà sempre il meglio per te. Anche Bella ti sarà vicina perché ti considera come una sorella”.
“Non ne avrò bisogno perché ci sarai tu accanto a me” disse appoggiandomi il viso su una spalla.
“Mi hai aiutato a superare tutti i momenti più tristi della mia vita. Sei stata la mia forza, quella che mi ha fatto andare avanti. Devo tutto a te e te ne sono grato. Spero di averti sempre vicina, ma se così non fosse sappi che non ti abbandonerò mai. Finché tu vivrai, io sarò con te. Hai capito?”.
In quel momento scrollò il viso e mi fissò incredula. “Perché parli così? Noi staremo insieme…” si soffermò incerta. “E ci sposeremo, vero? Non hai cambiato idea…”.
“Non potrei mai, amore. Ti sposerò ogni volta che sorge il sole”.
Mi accarezzò il viso, con un sorriso appena accennato, ma la sua mano tremò. “Non sei caldo come al solito… Poi sei diventato così pallido, quasi esangue”. L’istante successivo aveva capito. Ritrasse la mano spaventata prima di alzarsi di scatto. Provai ad afferrarla ma fu troppo veloce e anche se fossi riuscito a prenderla avrebbe avuto abbastanza forze per liberarsi. Indietreggiò di un passo, scuotendo la testa mentre il petto si sollevava convulsamente come se stesse respirando a fatica.
“Vado a chiamare Edward” sussultò.
“Non servirebbe, Rose” replicai con un filo di voce. “Resta con me, per favore”.
Si strinse nelle spalle e potei vedere distintamente le mani stringere le braccia come tenaglie e le unghie piantarsi in profondità nella pelle. I solchi così profondi da sembrare incisioni. Si morse le labbra freneticamente più volte mentre le lacrime ingabbiate si erano liberate e fuggivano sulle guance.
“Non sei guarito, vero? E’ tutta una finta…” mugugnò confusa.
Vorrei dirti che hai torto: nessuno ci dividerà mai. Eppure le nostre opposte nature si sono messe fra noi ed è stata mia la colpa. Non sono stato capace di combattere...
“Perché mi stai facendo questo? Avevi promesso che saremmo stati sempre insieme…”. Gli occhi che mi guardavano erano afflitti, immensamente tristi e vulnerabili.
“Lo saremo Rose, anche se io non ci sarò. Ma tu sarai felice per entrambi…”.
“Come?!” urlò a squarciagola. “Senza di te non posso… Non posso”.
Si lasciò cadere davanti a me, piangendo sempre più forte. La sua voce suonava orribilmente straziata e contemporaneamente carica di rabbia. Ero esausto, tuttavia radunai le forze e strisciai vicino a lei per abbracciarla. Non l’avevo mai vista così disperata. Dapprima si scostò brutalmente, poi mi lasciò fare.
Ti ho amato troppo? No, l’amore non è mai troppo. Hai avuto cura di me, sei tu che mi hai salvato, non io. Abbiamo risolto il puzzle che ci legava dall’inizio e ora siamo una cosa sola. Ho incastonato tutti i pezzi e tu potrai godere della mia vittoria.
“L’imprinting ti stava distruggendo e l’unico modo che mi è venuto in mente per liberarti era questo” le spiegai. Lei alzò la testa, scioccata. “Lo so che avevi smesso di mangiare e so anche che non avevi più istinto a farlo. Non potevo lasciare che te ne andassi”.
Attraverso i suoi occhi potei vedere la nostra casa di sogni andare in pezzi. Avrei voluto sostenerla ed evitarne il crollo ma non ne ero più capace. Soltanto Rose poteva farlo.
“Così sarai tu ad andartene…” singhiozzò sommessamente.
“Amore” le accarezzai il viso. “Sei forte e ce la farai anche senza di me”.
“E’ colpa mia. E’ tutta colpa mia, ti sto uccidendo io. Dovrei morire al posto tuo e sì… Io non voglio restare sola senza di te… Mai”. Aveva piantato le unghie nelle braccia e si stava ferendo da sola.
“No, no tesoro” le afferrai i polsi con tutte le energie che mi restavano. “Tu vivrai. Avrai una vita normale, umana e la porterai avanti. Farai tutto ciò che avevi desiderato: lavorerai, come interprete se vuoi, guadagnerai, avrai la tua indipendenza economica e… sì, mi piacerebbe che prima o poi andassi in Europa. Avevi detto che volevi tanto andarci e…”.
“Non senza di te”. La voce si spezzò.
“Ci sarò, amore. In un modo o nell’altro ci sarò. Quando correrai nelle foreste, quando la pioggia ti sfiorerà, quando salterai da un albero all’altro, io ci sarò. Ogni volta che mi cercherai, mi troverai vicino a te”.
Lasciai le sue mani e le cinsi le spalle con un braccio, tirandola a me. Singhiozzava e avrei voluto imitarla ma volevo lasciarle un ricordo sereno.
“Ci saranno dei giorni bui, in cui ti sembrerà di impazzire e piangerai. Ma poi ce la farai, ne uscirai. Ne sono sicuro, sei forte. Ti scalderò tutte le volte che vedrai un raggio di sole fino a che” deglutii, cercando di mascherare il dolore “non ci sarà qualcuno di reale a farlo. E io spero che quel giorno venga presto perché non voglio saperti sola”.
“Io non posso amare nessun altro. Sei tu quello che voglio. Non mi importa degli altri” replicò stizzita, senza avere il coraggio di lasciare le mie braccia.
“Gli esseri umani non sono fatti per restare soli, e tu non farai eccezione. Non voglio che tu faccia eccezione”.
Per un breve attimo non sentii più il cuore. Riprese a battere l’istante successivo, ma la clessidra era alla fine e gli ultimi granelli stavano cadendo, insieme alle sue lacrime.
Vorrei credere che tutto questo sia stato utile, in qualche modo, e che da domani non soffrirai più. Ma la verità è che non lo so e che la crudeltà sta proprio in questo. Voglio continuare a illudermi che per te tornerà tutto come prima: che ti dedicherai alla caccia, allo shopping, alla tua famiglia come se io non fossi mai esistito. Da una parte rifiuto quest’idea ma dall’altra so che sarebbe la migliore. L’imprinting non è eterno, nel momento in cui il lupo chiude gli occhi per sempre, esso si spezza e tu riavrai la tua vita. Vorrei essere accanto a te per consolarti ogni minuto, ogni istante, perché ogni tuo minuto di dolore sarà la mia dannazione eterna e ogni minuto di felicità sarà una goccia nel mio oceano di rimpianti.
Sarà vero che con il tempo farà meno male? Non posso più resistere, adesso sento  solo dolore. Ti stringo e non posso fare a meno di sognare la nostra vita e ricordare papà, Rachel, Rebecca, Joe e gli altri amici, la spiaggia, la mia casa. E le nostre partite a biliardo, le tue vertigini, la paura dei film horror, il tuo incantevole broncio per ogni mia frecciatina. La mia vita è agli sgoccioli; la tua riprenderà a scorrere da adesso.
I ricordi erano così tanti e non riuscivo ad afferrarli tutti per portarli con me. Era meglio che li lasciassi a te: ti avrebbero tenuto al caldo nelle giornate solitarie.
“Ti prego, non abbandonarmi. Resta con me” mi sussurrò e fu un macigno che non riuscii più a sollevare.
Troppo pesante e doloroso.
“Non rimpiangere mai la tua umanità perché ce l’hai ancora, è dentro di te. E’ la passione a renderci umani, non nasconderla. Lasciala uscire e vivi intensamente. Non restare mai più all’ombra delle nuvole” la implorai. Le sorrido ancora e Rose ricambia con un sorriso innocente che mi ricorda quello ampio e tenero della mia bambina, nascosta nella tasca e che non mi abbandonerà mai. Mi sfiora le labbra ed è una tortura perché non mi apparterranno più.
“Ti amo” trovai la forza di dire.
“Anch’io”.
Il sole tramonta e la luna sorge: ecco il nostro destino. Ma è proprio in questi attimi in cui si incrociano che il sole capisce di amare la luna più di ogni altra cosa al mondo.
Stringendola, infine mi lasciai cadere.
 
 
 
 
Avevo promesso che non mi sarei più fatta viva fino alla fine ma non ho resistito…
Cosa ne pensate? Un commentino? Confesso che io ho pianto come una bambina mentre lo scrivevo…
Due capitoli e poi questa ff avrà il suo epilogo. Un bacione a tutte!
   
 
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