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Autore: venusia    18/01/2014    0 recensioni
Prima parte - POV Bella (cap.1-19)
Siamo alla vigilia del matrimonio di Bella ed Edward quando Alice ha una visione: i Volturi piomberanno a Forks il giorno della cerimonia! Perché? Qualcuno ha violato le regole dei signori di Volterra? E come mai Alice non riesce a prevedere l'arrivo di Tanya?
Seconda Parte - POV Rosalie (cap.20-49) POV Bella (cap.50-59)
Desirèe, la figlia adottiva di Tanya, è stata dichiarata fuorilegge dai Volturi, e così pure Bella che le ha dato rifugio. Come si comporteranno i Cullen, tutti, tranne Rosalie, indifferenti alle vicissitudini di Desirèe? E il branco, che anch'esso ha voltato le spalle a Desirèe, pur essendo per metà umana e oggetto dell'imprinting di Seth?
Terza parte - POV Jacob (cap.60-epilogo)
L'inaspettata decisione di Bella di lasciare Edward aveva spalancato le porte del paradiso a Jacob, ma il combattimento con Demetri gliel'ha strappata, forse, per sempre. Mentre i Volturi si preparano alla battaglia finale per eliminare i ribelli, Jacob raccoglierà il difficile ruolo di Alfa del branco e capirà finalmente che il sole e la luna non sono poi così distanti.
Genere: Drammatico, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan, Jacob Black, Nuovo personaggio, Rosalie Hale
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Eclipse
Capitoli:
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Ciao,
ringrazio prima di tutto Rosalie and Jacob 4ever, Seira73 e Mari_Black61 per le recensioni all’ultimo capitolo: temevo che non avesse riscosso alcuna sensazione. Grazie mille ragazze!
Dopodiché vi annuncio che, come potrete immaginare, gli ultimi due capitoli saranno scritti con il POV di Rosalie.
Un bacio a tutte e buona lettura!
 
 
La luna pascolava immobile fra le chiazze cineree che punteggiavano l’orizzonte: come al solito; l’aria era soffocante, afosa e sembrava implorare di buttarti in acqua, per trovare ristoro alla calura; le cicale intonavano il loro consueto e sgradevole canto. I lampioni della città e dei giardini gettavano ombre iridescenti sulla strada e la mia ombra era l’unica cosa che mi tenesse compagnia quella notte. In realtà era l’unica cosa che mi tenesse compagnia sempre.
Mi guardavo attorno e sembrava che non fosse cambiato nulla dalla mia ultima passeggiata a La Push. La città era diventata più grande ma non c’era alcun segno del progresso tecnologico di cui tutto il mondo era stato oggetto, a parte le auto. Quelle poche che passavano erano a idrogeno, come quelle di tutti i posti da cui provenivo: silenziose, economiche ed ecologiche, come richiedevano obbligatoriamente le leggi internazionali. D’altra parte le condizioni del nostro povero pianeta non erano delle migliori ormai…
Erano le due di notte e La Push continuava a essere silenziosa. La vita notturna appariva inesistente. Tutto intatto, come l’avevo lasciato. Forks invece era diametralmente cambiata: alcuni palazzoni alti e privi di armonici accordi con il paesaggio, la foresta notevolmente ridimensionata da efferati disboscamenti e uno sgradevole fracasso in piena notte che qualche decennio fa sarebbe stato impensabile. Insomma, era diventata più simile a una disomogenea città di provincia, dove natura e progresso combattevano una guerra che la prima avrebbe sicuramente perso. Viceversa La Push era rimasta incontaminata, forse in virtù della sua condizione di riserva naturalistica. Un luogo quasi fiabesco rispetto alla modernità di tutte le altre nazioni: il classico habitat dove essere a contatto con la natura e far crescere i figli. Io, se ne avessi avuti, avrei sicuramente scelto questa città. E non soltanto per la sua inviolabilità.
Camminavo come se non avessi una meta ma in realtà ce l’avevo eccome. Non avevo semplicemente fretta di arrivare. Avevo smesso di avere fretta nella mia vita già da tanto tempo. Dovevo solo seguire le indicazioni e sarei arrivata dritta dritta alla mia destinazione.
Infatti dopo una mezz’oretta mi ritrovai dinanzi a una cancellata di ferro battuto, arrugginita nei cardini, con punte affilate che si ergevano a guardiane della porta. La sfiorai per poi spingerla con forza. Era chiusa con un lucchetto. Perché? Credevano che qualcuno volesse entrare in quel posto di notte? Oppure che qualcuno ne uscisse? Mi sfuggì un risolino sarcastico. Suonava buffo ed estremamente triste. Lasciai l’ingresso, quindi il fascio di luce che lo illuminava e mi rendeva troppo visibile, e mi inoltrai nell’ombra densa e inquietante attorno alle mura di cinta di cui quella cancellata appariva essere l’unico entrata. Quando mi trovai di fronte ad un albero abbastanza alto e imponente da coprire ogni mio movimento, spiccai un salto e raggiunsi la sommità del muro. L’istante successivo stavo violando una proprietà.
Beh, se non altro non era privata. E comunque non ero lì per rubare niente.
Camminai lentamente sullo sterrato che si diramava in vari sentieri che portavano ad ampi prati costellati di tigli. Ad un bivio mi resi conto che non avevo la più pallida idea di dove andare. I cimiteri non erano mie frequentazioni abituali e per di più La Push non era il mio territorio. In quel momento mi resi conto che avrei potuto metterci molto più tempo del previsto. D’accordo, non c’era fretta.
Esplorai parecchie aree del cimitero, scrutando alcune tombe ma in nessuna di esse avevo trovato quello che cercavo. Pressoché tutte sepolture recenti che non mi erano di alcuna utilità. Cominciai a correre perché se ci avessi impiegato troppo sarebbe arrivata l’alba e non potevo correre il rischio che qualche custode mi sorprendesse. Mi stavo quasi persuadendo che i morti più vecchi fossero stati disseppelliti e cremati quando mi ritrovai dinanzi alla statua di un angelo. Di pietra ingiallita dal tempo, e coperto dall’edera, sembrava essere il guardiano di un’altra zona. Suonava un’arpa e le ali si erano in parte scheggiate e sbriciolate. Uno sguardo sereno e nostalgico. La morte faceva quell’effetto? Beh, prima o poi l’avrei saputo anch’io.
Il prato era curato e l’erba tagliata profumava, rendendo piacevole una passeggiata che in sé non aveva nulla di piacevole. Le lapidi erano generalmente di pietra, raramente in marmo, molte estremamente semplici e disadorne: soltanto nome e cognome con data di nascita e di morte. Osservando le prime date mi accorsi di essere finalmente arrivata a destinazione. Le passai una ad una, molto lentamente. Non perché avessi bisogno di più tempo per leggere le iscrizioni ma solo perché una prevedibile ansia mi aveva attanagliato. Non ero più così sicura di volerla trovare. Ero abbastanza forte per sopportarne la vista? Il tremore della mano mi diceva di no, ma ormai avevo preso una decisione e volevo imporla a me stessa. Volevo combattere per una volta nella mia vita.
Infine la trovai.
Identica a tutte le altre, davanti ad essa una pianta di ortensie appena fiorite, un vaso di margherite e girasoli e un cerino il cui stoppino doveva essersi spento da poco visto che potevo ancora sentirne il vago odore di bruciato. La scritta dorata a grandi lettere riportava Jacob Black; sotto, a caratteri di dimensioni ridotte, 1 dicembre 1990 – 19 giugno 2010. Nessuna frase, nessuna dedica. Conoscendolo, non le avrebbe gradite.
Mi inginocchiai davanti ad essa e spostai i fiori, contemplando il nome, per me luminoso come un arcobaleno. Erano passati 52 anni da quel 19 giugno ed io non ero mai venuta a trovarlo. Mai, neanche per un istante. Non avrei retto e vedere quella lapide avrebbe soltanto significato consegnare quel pomeriggio alla realtà e io non avevo voluto farlo. Per 52 lunghissimi anni. Anche se solo adesso, voltandomi indietro, mi accorgevo che l’avevo già fatto: il dolore mi aveva aiutato a rendere ogni giorno molto più reale di quanto non fosse.
Sfiorai i petali del girasole, la cui corolla era rivolta in basso. Un girasole in un posto dove pioveva quasi sempre. Ironico però sensato.
Il sole si era affacciato quel pomeriggio, e l’avevo sentito. Era caldo, dolce, avvolgente e penetrante. Lo sapevo che stava morendo, sentivo il cuore spegnersi eppure non ero riuscita ad alzarmi e andarmene. Mi parlava, mi abbracciava e io non volevo rovinare il nostro unico momento insieme. Mi sono illusa fino all’ultimo che sarebbe guarito, che alla fine avremmo vinto noi perché il mondo poteva crollare a pezzi ma nessuno ci avrebbe separato. Alla fine il castello è crollato e io con esso.
Mi stava stringendo e ascoltavo la sua voce. Non volevo che mi lasciasse ma non avevo la forza di lasciarlo. Riuscivo solo a singhiozzare fino a quando le sue mani non sono scivolate lungo la mia schiena. Non è stato un movimento deciso, ma una foglia che cade a terra, sospesa da correnti alterne e avvolta nel silenzio. Non sentii più il battito del cuore. Il silenzio era così fragoroso da renderlo assordante. Aprii gli occhi lentamente, accarezzandogli un braccio. “Jake…” sussurrai. Non ebbi risposta.
Mi allontanai di scatto. La sua testa era reclinata, gli occhi chiusi.
“Jacob… Jacob” lo chiamai affettuosamente.
Lo scossi leggermente mentre il mio richiamo si faceva più intenso, ma il risultato fu lo stesso.
Non si muoveva, non respirava e la mia bocca tremava così tanto da non riuscire a dire altro che il suo nome. Non volevo dire altro.
“Jacob, Jacob” lo scossi con violenza, ma non servì. Fu allora che mi resi conto di quello che avevo fatto. Gli occhi mi si inondarono di lacrime mentre singhiozzavo così brutalmente da sentire dolore in gola. Gli strinsi la mano e me la portai al viso perché mi asciugasse le lacrime. Era calda ma inerte. La lasciai cadere e il rumore fu un tonfo spaventoso. Quello che successe dopo fu terribilmente confuso. Lo picchiai, lo presi a sberle, cercando di rianimarlo o forse solo per sfogare la rabbia che mi colpiva con tante stilettate. Continuava a restare abbandonato sotto quell’albero.
Era un incubo. Un incubo a occhi aperti. Presto mi sarei svegliata e tutto sarebbe stato come prima. Dieci metri? Benissimo. Lontananza forzata? Ok, perfetto. Tutto andava bene, bastava che quegli occhi ardenti bruciassero ancora per me.
Alzai lo sguardo. La quercia ci sovrastava compassionevole e da lì potevo vedere le tombe di Desirèe e Seth. Le scritte intagliate nel legno furono una scarica elettrica e ripensando a loro ebbi la conferma: Jake non c’era più ed era mia la colpa. Della mia inerzia e della mia natura. Nessun incubo, nessun sogno, solo un lento affondare.
Nascosi la mano tremante sotto la sua maglietta per sentire il calore che via via si affievoliva e mi appoggiai su di lui, rannicchiandomi come una bambina impaurita. Singhiozzai a lungo fino a che le lacrime finirono, almeno per quel giorno. Rimasi fino a che, a notte inoltrata, un fruscio intimidito non richiamò la mia attenzione. Mi ritrovai Sam e Leah in piedi, a pochi passi, alle mie spalle. Affrontai i loro sguardi: non c’era odio e nemmeno rancore, ma solo una sconfinata tristezza. Strinsi la mano di Jake: lo sapevo perché erano lì e non volevo che me lo portassero via. Scossi la testa, più volte e spasmodicamente. Leah si inginocchiò vicino a me. “Mi dispiace” sussurrò con la voce rotta dall’emozione. Gli occhi erano arrossati e velati dalle lacrime. “Ma dobbiamo riportarlo a casa. E’ giusto che torni dalla sua famiglia…”.
Rachel e Billy? Erano loro la sua famiglia e non io. Non lo sarei mai stata.
“Certo. Hai ragione. Scusami…”.
Lo baciai un’ultima volta poi mi alzai. Non aspettai che lo sollevassero per scappare via.
Passai, correndo incurante tra i cespugli di rovi e falciando i rami più bassi degli abeti mentre la disperazione e la repulsione per tutto ciò che era successo mi urlavano dentro e mi spezzavano la vita o ciò che ne restava. Non avevo una direzione precisa. Correvo e basta mentre ferite e graffi mi sfregiavano e io invocavo che lo facessero soltanto con più forza.
Senza volere mi ritrovai a contemplare da lontano la nostra grande casa bianca. Potevo ammirarne il tetto spiovente e parte del giardino retrostante. Le rose erano fiorite e il loro profumo mi nauseava, nonostante non gli fossi vicina. Anche il glicine abbarbicato sulla scaletta che scendeva dalla veranda mi comunicava la stessa sensazione. Osservai la costruzione da ogni angolo e mi dava il voltastomaco.
Perché l’hai fatto? Mi hai strappato l’unica cosa che avesse un valore…
Strinsi le mani rabbiosa e furente. Era lì e poteva sentirmi, come io sentivo la sua scia perdersi all’interno della casa. Dopo il dolore e la disperazione, la rabbia. Mi ero fidata di lui e delle sue belle parole quando Esme era morta e invece le aveva usate solo per ingannarmi e colpirmi più profondamente. Vieni fuori, se hai fegato… Digrignai i denti mentre la sottile bramosia di vendetta si era fatta un fiume in piena. Ed Alice? Lei prevedeva il futuro. Era impossibile che non fosse al corrente del piano di Edward. Lo sapeva ed ero stata ingannata anche da lei. Mi aveva tradita. Bella non avrebbe mai fatto del male a Jacob ma sicuramente sarebbe stata dalla parte di Edward. Jasper sentiva le emozioni di tutti e anche se non era stato direttamente a conoscenza di ogni movimento, doveva averlo intuito in qualche maniera. Dunque… La mia famiglia per intero mi aveva tradita. Ogni componente mi aveva preso in giro. Tutti sapevano e nessuno aveva fatto niente.
La porta della veranda si aprì ed Edward fece la sua comparsa sul pianerottolo. Scese le scale e camminò verso di me. Mi fronteggiò in silenzio. Ogni passo mi schiaffeggiava con pugni decisi perché ero sola. Tremendamente sola. Avrei voluto ucciderlo, ma il dolore per la perdita diventava sempre più forte e lancinante, svuotandomi di ogni energia. E non era solo dovuto alla morte di Jacob, ma anche alla consapevolezza che avevo passato la vita accanto a persone che non mi avevano mai amato, che non avevano esitato a colpirmi alle spalle al primo momento di difficoltà. Una lacrima di rabbia mi scese sulla guancia. Se pensavo che avevo spesso sperato di essere accettata da quel fratello, tutto diventava estremamente comico, quasi ironico. Mi fissò e nella confusa oscurità di cui erano colmi i suoi occhi, lessi dolore e rimorso. “Mi dispiace” sussurrò incerto e sconfitto. Il suo viso era strano, lontanissimo dall’Edward lucido che conoscevo. Sembrava che non stesse gioendo della sua vittoria su di noi, su di me. “Non dovevo farlo ma ho avuto paura per te”.
“Paura di cosa?!” rintuzzai esterrefatta.
“Che morissi! Non mangiavi più e…”.
“Piantala con questa storia del mangiare! Non avevo fame. Tutto qui! La verità è che tu lo odiavi. Era riuscito a portarti via Bella, seppur per pochi minuti e hai voluto vendicarti. E non ti è importato se avresti distrutto me. Forse non ti è mai importato neanche di me. Ci odiavi entrambi e ora hai il tuo trionfo…”.
“Sbagli, Rose. Ho fatto tutto questo per te. Non mi perdonerai mai e so di avere sbagliato. Gli altri non c’entrano niente: ho fatto tutto di mia iniziativa, devi prendertela solo con me”.
Sorrisi caustica e il calore della rabbia mi scaldò come un incendio. “Ti odio” affermai tagliente. “E odio anche tutti gli altri. Non importa quali scuse possiate apporre. Non siete più la mia famiglia. Vorrei ucciderti ma so di non averne la forza adesso. Chissà, magari un giorno sarò più forte, ti coglierò alla sprovvista e potrò vendicarmi. Spero che quel giorno venga presto. Nel frattempo vi auguro tutto il male di questo mondo e spero che possiate soffrire anche solo un decimo di quello che sto patendo io adesso. Per voi sarebbe già sufficiente…”.
Indietreggiai di qualche passo, osservando il davanzale della mia camera. Tante immagini mi passarono davanti agli occhi: le gare con Alice a chi si vestiva meglio, il giardinaggio di Esme, la pazienza di Carlisle, gli abbracci di Emmett, le sfide in macchina con Jasper, i litigi con Edward. Tutto finito in un modo o nell’altro. Chiusi gli occhi un attimo per sbatterli in faccia a lui e rendere ancora più crudele la delusione. Niente doveva venire con me perché da quel momento loro non sarebbero più esistiti. I suoi occhi si fecero lucidi e per un attimo pensai che fosse realmente dispiaciuto.
Il nostro ballo al tuo matrimonio. Serenità. Mi abbracciavi e mi facevi ridere. Non avevamo mai ballato insieme. Mi sono sentita veramente tua sorella. Ora so che era tutta una bugia e che avrei sanguinato in eterno.
“Addio” mi allontanai nella direzione opposta.
Corsi alla velocità massima consentita dalle mie forze, allontanandomi da ogni cosa mi potesse riportare indietro. Ma più correvo e più mi accorgevo che niente aveva questo potere. Potevo rifiutare qualsiasi proposta il mio cervello cercasse per alleviare il dolore; volevo soffrire ed era giusto che accadesse. Questa sarebbe stata la mia condanna, la tortura che mi sarei inflitta ogni giorno.
Attraversai radure, boscaglie, cespugli, balzai su speroni di roccia, mi arrampicai sugli alberi fino a che non avvertii un pungente dolore in gola e la bocca si fece secca, riarsa. Fame. Una sensazione che mi pareva di non sentire da una vita ma così forte da farmi inciampare più volte. Sentivo il fuoco dappertutto e la gola arida. Dovevo mangiare. Qualcosa e assolutamente. Da quanto tempo non cacciavo? Mi sembravano settimane. Dovevo averlo fatto recentemente, ma, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a ricordare quando. Mi acquattai sul ramo di un albero e aspettai silenziosa l’arrivo di una preda. Un fruscio in mezzo all’erba alta: un coniglio che aveva come unico difetto essere marrone in mezzo a un campo verde intenso. Il problema dell’uno è la sopravvivenza dell’altro. Saltai dall’albero e senza troppa fatica lo afferrai. Nel momento in cui piantai i denti e sentii il caldo e dolce sapore del sangue mi resi conto da quanto tempo non mangiavo. Sangue che sgorgava a contatto con la lingua. Il cuore del coniglio cessò di battermi fra le labbra e mi ritrovai il suo corpo esangue tra le mani. Lo buttai per terra e, osservandone il cadavere, ancora divorata dai morsi della fame, contai i giorni in cui non ero andata a caccia e, con sorpresa, quantificai almeno due settimane. Perché non avevo sentito la fame per tutto questo tempo? E perché la sentivo adesso? Mi distrassi quando vidi una volpe passare veloce tra le radici degli alberi.
Non avevo tempo di pensare al perché non avessi mai avuto fame, perché ora ne avevo e tanta. Dovevo mangiare. Mi lanciai all’inseguimento della volpe. Quel pomeriggio e la notte successiva li passai a caccia come se dovessi recuperare le energie dopo un lungo digiuno. Una volta sazia, ripresi il mio cammino. Non volevo restare a Forks e neanche nei suoi pressi. Non volevo più incontrare nessuno di loro, nemmeno per sbaglio. La mia famiglia era morta. Vagabondando fino al confine col Canada, maturai la decisione di andare a Vancouver, dalla famiglia Denali. Kate… Mi restava solo lei.
Quando arrivai a casa loro e bussai alla porta, fu proprio Kate ad aprirmi. Non si mostrò stupita di vedermi lì, ma soltanto disorientata dal mio stato. La maglietta si era strappata in più punti, così pure i pantaloni, infangati a causa di uno scroscio di pioggia; i capelli erano opachi e annodati; le unghie e le mani sporche di sangue e terra. Mi fece entrare senza domande e mi ritrovai davanti Eleazar, Irina e Thomas che mi salutarono sgomenti. Irina tentò di abbracciarmi ma mi ritrassi, rapida: non volevo la compassione di nessuno. Kate mi invitò a farmi una doccia e a cambiarmi d’abito; consiglio che seguii immediatamente. Quando uscii dal bagno, con l’accappatoio ancora addosso, la trovai seduta sul letto. Vicino, alcune magliette e pantaloni accuratamente stesi come se dovesse vendermeli. Le riconobbi subito come parte del guardaroba di Tanya. Due di esse erano state le sue preferite. Sfiorai le maniche di velo, malinconica, poi mi sedetti, indossando nuovamente il bracciale, che mi sfilavo solo in rare occasioni. La doccia era una di quelle.
“Alice ha telefonato per avvisarmi che saresti venuta qui e mi ha raccontato… Mi dispiace, Rose… Immensamente…”.
Abbassai lo sguardo e accarezzai le foglie di acanto. Gli zaffiri brillavano come piccole stelle. Sentii lo sguardo di Kate seguire ogni mio movimento, probabilmente compatirmi mentre il cuore si spaccava nuovamente. La sua mano si appoggiò sulla mia per fermare la carezza che sfiorava il bracciale e che era diventata frenetica senza che me ne accorgessi. “Me l’hanno ammazzato… O forse l’ho ucciso io… Ma lui non c’è più…” dissi con un filo di voce. Paura e un amaro senso di impotenza mi serrarono la gola impedendomi di continuare. Kate mi abbracciò mentre io non trovavo altro rifugio che piangere e piangere e confidare che un giorno le lacrime avrebbero avuto fine.
Piansi tutto il giorno, dapprima avvinghiata a Kate che tentò di consolarmi con tenere sciocchezze, poi da sola. Le giornate seguenti non furono migliori. Non parlavo con nessuno. Mi limitavo a salutarli la mattina quando uscivo dalla camera di Tanya che avevano adibito a mio ricovero personale, e a scambiare qualche parola ogni tanto, se interrogata. Ma spesso non rispondevo neppure. Mi aggiravo come un fantasma per la casa mentre ogni ricordo era una frana pronta a travolgermi in qualsiasi istante. Kate era così buona da farmi sentire tremendamente in colpa perché io non ero in grado di ricambiare il suo affetto, perché mi sembrava che non ci fosse rimasto più nessuno a cui essere legati. Ogni atto diventava stupido e banale, qualcosa che mi spingesse giù dal precipizio invece di salvarmi. E in più, loro mi ricordavano Alice e gli altri, e Tanya, e Desirèe e Seth, e… Non sapevo più cosa farmene di questa vita. Volevo morire e basta. L’avrei trovato lassù, da qualche parte? O forse sarebbe stato troppo comodo? Troppo vigliacco, troppo da Rosalie… Non sapevo neanche io cosa volessi dimostrare quando chiesi a Kate di prestarmi dei soldi.
“Certo” rispose fiduciosa che mi interessassi di nuovo a qualcosa dopo settimane di apatia. “Quanti ne vuoi?”.
“Diecimila dollari. E poi ho anche bisogno del vostro falsario”.
Aggrottò la fronte. “Perché? Cosa vuoi fare?”.
“Ho bisogno di documenti nuovi e di un passaporto”.
“Passaporto? Per andare dove?”.
“Non lo so… Ad ogni modo via dall’America… Questo non è più il mio posto”.
Kate tentò di convincermi a restare con loro e a prendere il posto di Tanya nella famiglia, ma rifiutai decisa ad ogni tentativo. Volevo andare via, avevo bisogno di una terra nuova, di aria nuova, di una vita nuova e non volevo nessuno che mi ricordasse il passato o che mi inducesse, suo malgrado, a continuare nella penosa vita di prima. Fu con questa idea che presi un biglietto di sola andata per Stoccolma.
Quando lo ebbi fra le mani, insieme al passaporto che recava il semplice nome Rosalie Hale, nata a Liverpool nel 1991, gli occhi mi si fecero lucidi. In Europa. Come avevo sempre desiderato, anche se da sola. Ma non completamente sola, vero? Sfiorai le venature cobalto delle foglie dorate. Tu sarai con me…
Avevo fatto eliminare sia il mio secondo nome, Lillian, che il cognome Cullen. Niente doveva richiamare il passato. Tutto doveva essere cancellato.
Un mese più tardi partii senza voltarmi più indietro. Ed ecco dove sono stata per questi 52 anni. A zonzo per l’Europa settentrionale, cambiando città come una nomade ogni qualvolta il mio mancato invecchiamento provocasse domande e ricorrendo a falsari che modificassero i miei documenti di volta in volta per farmi apparire sulla carta, giovane come ero nella realtà. Apparentemente nessun cambiamento dalla mia vita precedente; in realtà tutto.
Non c’erano più Alice e le sue previsioni sull’andamento delle borse a farci guadagnare valanghe di soldi senza muovere un dito. Dovevo arrangiarmi da sola e così mi trovai un lavoro. All’inizio, mi parve tremendamente snervante e soprattutto non adatto a me: obbedire a ordini bislacchi di qualcun altro, quasi sempre più stupido, lavorare per quattro soldi e rispettare e convivere con colleghi che, a pensarci bene, erano una sorta di famiglia, vista la quantità di ore che ero costretta a passare in loro compagnia. Però dopo qualche mese iniziai ad abituarmi e ad amare ciò che facevo, soprattutto quando ricevetti la mia prima busta paga. Risi pensando che non avevo mai avuto un soldo per merito mio. Non potevo compiere lavori particolarmente impegnativi a livello intellettuale, per via delle ore giornaliere in cui non potevo uscire di casa. E così nei sei mesi di luce mi accontentavo di fare la cameriera nei fast food, la custode di notte, lavorare in fabbrica. Poi quando arrivavano i sei mesi di buio allora mi licenziavo e trovavo spesso lavoro come segretaria, così da poter lavorare anche di giorno. Mi piaceva molto più che andare al liceo, e qualsiasi mansione ricoprissi la compivo con zelo e passione, restando spesso molto più dell’orario normale. A casa non c’era nessuno che mi aspettava, perché allora affrettarsi? Gli stipendi spesso non erano molto alti, ma riuscivo a vivere tranquillamente, anche perché io non avevo bisogno né della macchina, né del cibo umano. Anzi, sceglievo le città sulla base dei boschi e delle foreste circostanti, in modo tale che la selvaggina non mancasse mai. Potevo comprarmi qualche vestito carino e civettuolo, ma lontano anni luce dalle grandi firme a cui ero abituata; tuttavia non ne sentivo la mancanza. Come non sentivo la mancanza della mia Mercedes cabrio. Era una vita più semplice, meno costosa, normale.
Erano passati nove mesi dal mio arrivo, quando un pomeriggio il campanello di casa suonò. Non ero abituata a sentirlo e mi fece trasalire. Subito dopo l’irrequietezza pervase ogni cellula del mio essere: chi poteva essere? Non conoscevo nessuno lì, a parte i miei colleghi che non sapevano neanche dove abitassi. Aprii la porta e mi trovai dinanzi un ragazzo di circa vent’anni, con camicia aperta e sgualcita a righe blu e un cappellino con visiera dello stesso colore. “Sì?” domandai innocente.
Il ragazzo spalancò la bocca senza dire niente. “Sì?” ripetei.
Deglutì nervoso e finalmente rispose:“Rosalie Hale? Sono della Dhl Trasport e devo consegnarle un pacco”. Gettai istintivamente lo sguardo a terra e trovai ai piedi del fattorino una scatola ingombrante di cartone, avvolta nel cellophane. Aggrottai le sopracciglia: ecco il brutto presentimento. “Da dove viene?” domandai a denti stretti.
Il ragazzo consultò la lettera di vettura. “Dagli Stati Uniti”.
Avvertii una fiammata di rabbia. Incrociai le braccia, combattuta dal desiderio di respingere il pacco. Doveva essere Alice. Era l’unica che poteva sapere dove mi trovassi e darmi il tormento, almeno finché fossi stata viva. Ma non potevo negare a me stessa di essere curiosa di sapere che cosa mi avesse mandato, perciò firmai e ritirai la consegna.
Aprii la scatola sul tavolo con lentezza snervante, come se dovessi trattenere le cose al suo interno che sicuramente sarebbero volate via una volta alla luce. Trovai una lettera non indirizzata sopra tutto. La aprii e riconobbi la calligrafia di Alice. Un foglio bianco e poche righe.
Ciao, so che non vuoi più avere a che fare con noi e non posso biasimarti. Rispetto la tua volontà di restare lontana e spero che tu possa essere felice un giorno, però non puoi impedirmi di dare una sbirciatina ogni tanto per sapere come te la passi.
Queste sono cose che ci ha portato Rachel e che avrebbe voluto consegnarti personalmente. Purtroppo, sapendo le tue intenzioni, ho dovuto ricorrere a un corriere espresso e spero che possano farti piacere. Aggiunte a queste, ce ne sono altre che, credo, possano alleviare un po’ la tua solitudine. Almeno all’inizio…
Spero di riabbracciarti un giorno.
Alice.
La ripiegai e la appoggiai sul tavolo, cominciando a frugare. La prima cosa che ne estrassi fu la maglia rossa di Jake, quella che ci passavamo tutte le sere per poter sentire l’odore l’uno dell’altra. Istintivamente la annusai, ma, dopo nove mesi non potevo sperare, al massimo illudermi, ma niente di più. Poi un paio di bermuda e una bambolina di legno scolpita con un coltellino da tavolo. Non la riconobbi come niente di particolare, ma doveva averla fatta lui. La osservai nei dettagli: una bambina con dei fiori in mano. Non era un capolavoro ma era carina. Poi la foto incorniciata fatta a Port Angeles il giorno prima della battaglia con i Volturi, le foto tessera con le nostre boccacce, quella di Desirèe e Seth. Sorrisi mentre alcune lacrime avevano iniziato il loro prevedibile percorso sul mio viso. E ancora il peluche che avevo lasciato a casa e che mi era tanto mancato in quei mesi, il vestito rosso acquistato a Seattle, i biglietti del cinema che avevo custodito gelosamente nel comodino della mia camera, e infine un libro rilegato in rosso cremisi. Un album di foto. Lo sfogliai. Vi erano foto di Jake da piccolo, con Rachel e Rebecca, poi altre con Bella, Seth, Quil ed Embry. Infine alcune foto del matrimonio. La sposa con il suo testimone, il testimone fra i suoi amici, una foto mia con Alice e una mia con i due sposi. Chiusi il raccoglitore e lo deposi mentre stringevo a me il peluche. Lo accarezzai, lo abbandonai un attimo solo per indossare la maglietta e i bermuda di Jake, che a me stavano larghissimi, e mi sdraiai a letto con tutte le mie cose vicino. La foto con Bella ed Edward non avrebbe dovuto provocarmi nessuna sensazione eppure mi sentii bruciare. Non di rabbia, solo di rimpianto.
Passai la giornata così poi sistemai tutto quello che mi era stato dato in modo che fosse in bella mostra in ogni angolo del mio minuscolo appartamento. Ero grata ad Alice e a Rachel per avermi mandato quelle cose, anche se ora mi sentivo ancora più sola. Non ci si sente mai soli fino a che non senti l’assenza delle persone che amavi e che non possono più essere con te. Non volevo tornare da loro ma non potevo fare finta di non averle mai amate.
E così trascorse la mia vita. Lavoro, caccia, sdraiata a letto, abbandonata a quelle giornate che non passavano mai. Affittavo sempre appartamenti all’ultimo piano perché, quando c’era il sole potevo sedermi sul davanzale e aspettare che venisse a scaldarmi e a farmi brillare senza che nessuno se ne accorgesse. Ti sposerò ogni volta che sorge il sole… E ogni giorno aspettavo l’alba per poter assaporare le prime luci, raggomitolarmi ed essere di nuovo scaldata da te. Erano i momenti dove potevo abbandonarmi ai miei sogni o a quel che ne restava. Mi sedevo, chiudevo gli occhi e immaginavo. Ogni giorno una situazione diversa. Vincevo una partita a biliardo all’ultimo; preparavo da mangiare per il nostro cagnolino; ti correvo incontro quando tornavi a casa dal lavoro; guardavamo un film in DVD; una presa in giro qualsiasi sul mio attuale e mentecatto modo di vestire; una gita in motocicletta. Non erano storie fantascientifiche, non erano favole, era semplicemente la vita che avrei voluto avere. La pelle luccicava di vividi brillanti. La accarezzavo per farla tornare opaca come avevi fatto tu quel giorno, alla caletta, ma non era la stessa sensazione. Le mie mani erano fredde, rivestite di una sottile lamina di acciaio. Come facevi a dire che fossero morbide?
Guardavo il panorama sulla città in movimento. Un sottile brulicare di vite, come la mia, o forse peggio. Laggiù avrei mai potuto trovare un amico o un’amica che condividesse le mie angosce, senza chiedere nulla? Io ero un vampiro e già la parola stessa spiegava quale sarebbe stata la mia eterna compagna. Non ero mai stata una persona socievole, non riuscivo a fare amicizia facilmente e la morte di Jake mi aveva isolato ancora di più. Non sentivo il bisogno di parlare con nessuno. Quando ero in casa, circondata dai miei ricordi, era come se lui fosse con me e allora non sentivo più niente; quando uscivo e vedevo le persone chiacchierare amabilmente in mezzo alla strada, nei bar o sul lavoro, allora mi sentivo sola e vulnerabile e mi chiedevo perché non avessi la forza di fare lo stesso, perché respingessi chiunque mi si avvicinasse. Avevo tanta paura di rimanere sola ma godevo della mia condizione perché non potevo essere felice senza di te, non volevo. I nostri ricordi erano la mia compagnia, il mio ristoro, il mio mondo. A volte ero così felice dei risultati raggiunti al lavoro che correvo a casa, illudendomi davvero che, aprendo la porta, ti avrei trovato spaparanzato sul divano. E invece non era mai così. Ed erano i momenti peggiori: quelli dove capivo che vivevo in due mondi paralleli che non si sarebbero mai incrociati, quelli dove avrei voluto urlare a squarciagola e… mangiare. Quante volte, in preda allo sconforto, avevo cucinato un succulento pranzetto e poi l’avevo gettato, cercando di convincermi che non potevo essere così vile, non dopo quello che avevi fatto per me. Quel senso di desolazione e isolamento era parte di me e doveva continuare a esserlo altrimenti non avrei sentito dolore e non mi sarei sentita viva.
Il posto che avevi occupato era vuoto e al contempo pieno di te.
Il periodo più sereno per me fu a cavallo tra il 2032 e 2045. In quegli anni mi ero trasferita a Goteborg, una cittadina non troppo grande, spesso nuvolosa anche nei sei mesi di luce, quindi adeguata alle mie necessità, a due passi, volendo, da Stoccolma. Mi ero trovata un lavoro come segretaria presso una grande azienda produttrice di pannelli solari (con la fame di energia che si era venuta a creare, facevano affari d’oro e avevano assunto persino gente affatto qualificata, come me). Una delle mie colleghe dell’ufficio marketing, Cecily, era davvero vulcanica e si era messa in testa di voler fare amicizia con me a tutti i costi. Generalmente tenevo tutti a distanza, non mi concedevo mai troppo e, grazie al mio formidabile udito, sapevo che mi davano della snob altezzosa. La cosa non mi aveva mai seccato, neanche in questo nuovo lavoro, ma Cecily si era intestardita a volermi conoscere. All’inizio fu un continuo negarsi ai suoi inviti in pausa pranzo o a uscire la sera a fare quattro passi. Ma era caparbia almeno quanto un’altra persona e alla fine dovetti cedere, illudendomi che a fine serata mi avrebbe trovata talmente detestabile da non volermi più rivolgere la parola nemmeno in ufficio. Invece la sorpresa fu per me perché la serata trascorse serena, a tratti quasi divertente. Era solare, simpatica, un’allegra guascona e tutto sommato per me poteva essere una buona cura, un’occasione se non per guarire, almeno per sopportare la malattia con più dignità. In breve diventammo realmente amiche e fu a causa sua che decisi di rimanere a Gotenborg per dieci anni. Normalmente mi spostavo ogni quattro, cinque anni, prima che la gente cominciasse a chiedersi perché non avevo nemmeno una ruga d’espressione; invece lei era speciale. Mi ricordava Alice e io avevo tanto bisogno di un’amica sincera. Evitavo come la peste i pranzi e le cene per evitare domande incresciose sul perché non mangiassi ma per il resto se c’era anche Cecily, non mancavo mai. Mi fece conoscere la sua compagnia di amici nella quale riuscii ad inserirmi, anche se rimaneva lei l’unico perno attorno a cui girava il mio mondo. Ben presto mi accorsi di volerle bene.
Ovviamente non le svelai mai il mio segreto, né le raccontai il mio passato. Ufficialmente venivo dall’Inghilterra e la mia famiglia era morta in un incidente d’auto. Nessun amico, nessun fidanzato. Quest’ultima parte avrei dovuto ometterla perché Cecily sembrava avere fatto diventare sua unica vocazione il trovarmi un compagno. Le spiegai più volte che ero uscita da una relazione disastrosa e non ne volevo sapere, tuttavia era divertente rimandare al mittente tutti gli amici che mi presentava. Sì, quei dieci anni furono i migliori. Ero in mezzo agli umani, mi sentivo umana, lavoravo e respiravo, facevo cose umane.
Cecily mi convinse anche a fare aerobica e in breve diventò la mia droga. Mi ero scoperta ad adorare il ballo e così tutti i giorni mi rilassavo scatenandomi in palestra e nei weekend in discoteca. Cecily praticava equitazione e tentò di coinvolgermi, ma purtroppo fu molto difficile spiegarle che gli animali non volevano avere niente a che fare con me. Ovviamente non volle mollare. I cavalli si imbizzarrivano sempre quando comparivo all’ippodromo e questo mi feriva perché contribuiva a ricordarmi chi ero e cosa mi sforzavo di nascondere. Fino a che dopo parecchi mesi, un cavallo difficile, nero e incontrollabile, si lasciò toccare proprio da me. Mi fissò tanto a lungo e senza distogliere lo sguardo che non potei trattenere le lacrime. Gli occhi così scuri e irrequieti erano i tuoi? Nitrì più volte e si fece montare. Fu l’unico cavallo che riuscii a cavalcare, l’unico abbastanza pazzo da accettare un vampiro come cavallerizza. Nonostante avesse un suo nome, io lo ribattezzai Jerry, come il cane di La Push. Non sapevo se fosse interessato a quanti nomi gli fossero stati rifilati, però quando lo chiamavo, veniva sempre. E lo amavo. Lo amavo tanto da singhiozzare ogni volta che lo lasciavo. La sera, a volte, di nascosto andavo a trovarlo nella stalla. Restavo con lui pochi minuti necessari a colmare il vuoto. Mi guardava come se non capisse perché tenessi tanto a lui, e in fondo non lo capivo nemmeno io, ma accadeva e basta.
La mia vita continuò così. I divertimenti non erano tanto diversi da quelli che avevo con i Cullen ma ero io a dargli un altro significato, forse perché io ero diversa. Vedevo il mondo con un’altra lente. Nei sei mesi di luce dovevo uscire meno ma mi rifacevo ampiamente nel resto dell’anno. Alcune cose continuavano a essermi vietate ma me ne facevo una ragione. Non ero mai stata in una compagnia completamente umana; adesso invece lo erano tutti. Li guardavo cambiare, crescere, tagliarsi i capelli e fare indigestione ed era come se provassi anch’io quelle sensazioni, nel bene e nel male. In quel periodo non mi sono sentita sola. Ma purtroppo, per quanto tenessi a tutto questo, sapevo che prima o poi il tempo sarebbe scaduto.
Quando accadde, a Cecily dissi che mi avevano offerto un posto in una ditta più grossa in Norvegia e che non potevo perdere l’occasione. Singhiozzava quando la salutai, l’ultima sera. “Teniamoci in contatto, mi raccomando” mi pregò. Annuii ma sapevo che non avrei potuto. Avrebbe dovuto perdere le mie tracce onde evitare problemi in futuro. Poi fu la volta di Jerry e stavolta fui io a piangere tanto da sentire gli occhi bruciare come se ti stessi perdendo un’altra volta.
Arrivata a Tonsberg, fui di nuovo sola. All’inizio Cecily cercò di tenere i contatti quasi giornalmente ma quando si accorse che soltanto lei si sforzava di mantenere viva l’amicizia, pian piano le telefonate svanirono. E apparve Daniel.
I colleghi dell’impresa navale in cui avevo trovato occupazione non erano particolarmente socievoli e non dovetti faticare per passare quasi inosservata. Se non fosse stato per la mia bellezza, probabilmente ce l’avrei fatta tranquillamente. Una sera ero a caccia e nella foresta incontrai un ragazzo ricciuto, coi capelli neri e gli occhi dorati, come i miei non erano più da tempo. Mi guardò a lungo e probabilmente avrebbe scommesso sul fatto che fossi un essere umano se non fosse stato per l’inesistente battito del mio cuore. Io lo ignorai, ma lo ritrovai la sera successiva nello stesso punto, già deciso a parlarmi. Non era nemmeno lui un chiacchierone ma, per sua stessa ammissione, era rimasto colpito dal mio eccentrico modo di muovermi (per nulla vampiresco e molto umano) e dai miei occhi blu. Ovviamente non gli raccontai niente del mio passato ma non potei negare ciò che ero. All’inizio fui seccata dalla sua intromissione nella mia solitudine, però sentivo la mancanza di Cecily e mi imposi di tentare di essere sua amica. Mi introdusse in un gruppo di vampiri, anch’essi vegetariani, in cui però non mi trovai mai a mio agio. Forse perché mi guardavano come un’aliena o forse perché io stessa mi sentivo diversa e preferivo stare con gli umani. Pian piano le mie presenze ai loro raduni si fecero sempre più sporadiche fino a che non sparii del tutto ma Danny continuò ugualmente a volersi intrattenere con me. Non era pazzo come Cecily e quindi mi chiedevo come facessimo ad andare d’accordo, però accadeva. Ci circondavano strani silenzi che non dovevano essere infranti: alcune sere parlavamo uno sull’altro, altre nessuno aveva niente da dire, però restavamo a farci compagnia. Pensavo che avesse capito che nascondevo molto più di quanto raccontassi ma avesse la cortesia di non fare domande e io ne ero ben lieta. In quei tre anni ci furono momenti di grande complicità che mi fecero ricordare Emmett e una parte della nostra vita insieme. Non la rinnegavo e se fossi tornata indietro l’avrei rivissuta volentieri, però l’intensità, la passione vera, e non quella di fare sesso come animali, era ben altro. Con Danny mi divertivo in maniera genuina, e per fortuna non c’erano coinvolgimenti sentimentali a guastare tutto. O almeno così credevo. Col tempo si era sciolto anche lui e passavamo le serate al cinema, a guardare film a casa oppure andando a zonzo per i boschi. Andavamo a caccia, a passeggio per la città, ci raccontavamo dei rispettivi lavori (lavorava anche lui: cosa rara per un vampiro!), andavamo a fare gite notturne in posti strani, mi aveva anche portato a vedere l’aurora boreale un paio di volte. Tutto magnifico, ma sarebbe finita prima o poi, no? Non bisogna mai assuefarsi a una medicina perché finisce per perdere il suo benefico potere.
“Ti amo” mi aveva sussurrato mentre stavamo guardando la televisione a casa sua. Credevo che mi stesse prendendo in giro e invece era così serio da sembrare quasi costretto. Quando ribadì più ampiamente cosa provava per me, capii che la mia oasi era stata distrutta. Me ne andai e non ci vedemmo per una settimana intera. Ero infuriata, arrabbiata perché aveva tradito la mia fiducia, perché credevo di avere un amico e invece lui voleva altro. Nessuno capiva che volevo stare sola? Che non avevo bisogno di compagni? Rischiarando la mente dalla foga, mi resi conto che non era colpa sua se provava qualcosa ma dovevo semplicemente convincerlo che fosse tempo perso e che non fossi adatta a lui. Volevo uscirne senza ferirlo e mantenere egoisticamente l’amicizia. Stavo ponderando mille soluzioni che non ritenevo possibili fino a quando piombò a casa mia, senza invito. Dapprima fui irascibile per la violazione della mia privacy, poi lui trovò le parole per rabbonirmi e iniziò a raccontarmi cosa provava e soprattutto a chiedermi cosa pensassi io. La mia fuga non gli faceva presupporre niente di buono ma voleva che glielo dicessi in faccia.
Mentre parlava, non lo ascoltavo.
Facevo paragoni. Il sensibile Danny aveva perso ogni lontana connotazione di Emmett per diventare l’avversario di qualcun altro. Era buono e probabilmente mi amava davvero, ma nel momento in cui avevo affrontato questo dedalo di pensieri sapevo che volevo disperatamente che perdesse. Nessuno poteva reggere il confronto con te. Gli volevo bene dal profondo ma non era amore e io non volevo stare con una persona soltanto perché mi ci trovavo bene insieme. Non sarebbe stata la stessa cosa. Come fai ad accontentarti di un cioccolatino quando hai gustato la torta? Però quella torta non l’avrei più riassaporata. Forse avrei potuto… Chissà…
E in quel momento, percependo la mia incertezza, fece il suo errore. Mi baciò, mentre ero ancora persa nelle mie riflessioni. Ne rimasi talmente frastornata che dapprima non feci niente, poi una voce nel cervello mi urlò:“Prova! Che cos’hai da perdere?”. Risposi al bacio e forse per qualche minuto Daniel si illuse di avere fatto la mossa migliore; invece io sentivo labbra fredde, così diverse dalle tue e così uguali alle mie, la mani scivolose, il cuore fermo… Non riuscii ad immaginarci insieme, nemmeno per un secondo. Non accadeva come con te,  quando sognavo, quando guardavo oltre quei pochi istanti. L’unica immagine che mi balenò nella mente fu Emmett: volevo fare a Danny quello che avevo fatto a lui? Volevo fargli credere che lo amassi quando pensavo a un altro, vivo o morto che fosse?
Mi divincolai e corsi in camera. Non ragionavo, non capivo più niente. Afferrai il peluche e lo strinsi forte, chiedendo perdono col pensiero. Avevo sbagliato, avevo provato e non avrei dovuto farlo, non sarebbe mai più accaduto perché, ero sicura al di là di ogni dubbio, che io appartenevo a te soltanto. Danny mi raggiunse e avvertii il suo silenzio scoraggiato opprimermi il petto. Si sedette accanto a me e il suo sguardo fu calamitato dalla foto sul comodino. Tacque a lungo, poi lento, addolorato più per se stesso che per me, mugugnò:“Mi dispiace… Non avevo capito”.
Scossi la testa. “La colpa non è tua… Sono io a non essere stata chiara fin da principio”.
“Se dovessi cambiare idea, io ci sarò” e fu l’ultima cosa che gli sentii dire.
Quando se ne andò piansi tutta la notte, per quello che era accaduto, per quello che avevo perso, per la solitudine, la paura e il dolore. Il giorno dopo diedi le dimissioni, feci le valigie e mi trasferii nella Germania settentrionale. Negli anni a seguire vagabondai in Svezia, Finlandia, Russia orientale fino al 2062. Fino al giorno in cui ho deciso che non ce la faccio più senza di te e che ho adempiuto alla mia promessa. Ho trascorso gran parte della mia vita nel tuo ricordo. Non l’ho fatto come una forma di condanna, ma semplicemente perché avevo bisogno di te per continuare a vivere. Volevo che in una qualche maniera fossi orgoglioso di me e di ciò che avevo saputo creare da sola. Non rimpiangevo la solitudine anche se i migliori anni erano stati quelli con Cecily e Daniel, però non volevo circondarmi di persone che non mi capissero e io ormai ero troppo cambiata per potermi adattare. A mio modo avevo vissuto come desideravo: da umana. Non era stata la vita felice che speravo ma senza di te non era destinata a essere niente altro che una casa vuota riempita da mobili che vengono comprati solo per questo fine: colmare il vuoto. Non perché ti piacciano o ti comunichino emozioni. La mia vera casa, il mio rifugio, il mio nido era già arredato da quei due mesi quando ci vedevamo di nascosto, lontano da tutto e da tutti, nella foresta di La Push o avanti e indietro per Port Angeles. Per questo ho deciso, un giorno caratterizzato da un’afa soffocante, che sarei tornata a La Push.
Finalmente dopo 52 anni avevo trovato il coraggio di affrontare la tua lapide.
   
 
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