Fire
and blades –
Fuoco e lamette
Pov Avril
“Gabriel,
stai
scherzando, spero!” Perché
doveva farmi
sempre questi scherzi al telefono di prima mattina?
“No, Avril,
sono
serio. Mio padre mi ha davvero sequestrato la macchina, e per la quarta
volta
di fila, per giunta! Ma questa volta non è affatto colpa
mia, sappilo.”
“Sentiamo,
quale
altro danno avresti combinato? Fiancata scheggiata? Specchietto rotto?
Oh, non
dirmi che sei andato di nuovo a sbattere contro qualcosa, ti
prego…”
“Senti, non
è
colpa mia, ok? È stato un incidente! E poi,
quell’albero mi ha provocato e non
ci ho potuto fare niente.”
“Sei andato
a
sbattere contro un albero? Sul serio?” gli chiesi,
incastrando il telefono tra
l’incavo della spalla e l’orecchio. Stavo tirando
fuori alcune cianfrusaglie
dai vari cartoni, ma una fotografia bloccata sul fondo non voleva
proprio
saperne di uscire.
“Sì.
Non ci vedo
niente di male, comunque.” Rispose piccato.
“Può capitare a tutti.”
“Gabriel,
gli
alberi non si asfaltano. Si evitano.”
“Ah-ah,
bella
battuta. Se ci fossi stata tu al mio posto sarebbe stato tutto
diverso.” Brontolò.
“Ah,
beh, grazie per l’augurio.”
“No, no,
non
intendevo…”
“Lo so cosa
intendevi, non preoccuparti. Ehm… Puoi aspettare solo un
secondo?”
“Sì,
certo.”
Poggiai il
telefono sul letto e mi girai verso il cartone, spazientita. La mia
pazienza
era giunta al limite e quella dannata foto doveva venir fuori. Sentii
le mie
dita fare presa sul vetro duro, liscio e ghiacciato della cornice, e
tirai con
tutta la forza che avevo.
Parecchi tentativi
e una decina di bestemmie dopo, riuscii ad estrarre la fotografia, non
prima di
averla fatta cadere e di aver fatto un’ulteriore bestemmia
per essermi tagliata
leggermente la mano con la cornice in vetro.
La girai, per
vedere quale immagine contenesse, e non potei fare a meno di sorridere.
Dopotutto, lo sforzo era valso a qualcosa.
Si trattava di una
foto di me da bambina e di mio padre, forse una delle poche fotografie
che
avessi mai fatto insieme a lui. Avevo un buffo capellino di baseball
sulla
testa e facevo il segno della vittoria alla fotocamera, mentre mio
padre mi
reggeva, sorridente anche lui.
Lucidai la
superficie della cornice con la manica della felpa, per togliere quel
po’ di
polvere che si era depositata sopra, e la appoggiai vicino ai miei
altri
ricordi d’infanzia, sulla mensola bianca di fronte al letto.
A
proposito del letto…
Presi di corsa il
cellulare dalla coperta su cui l’avevo poggiato, e sperai che
Gabriel non
avesse riattaccato.
“Gabriel?”
“Ehi. Avevo
incominciato a pensare che fossi morta.”
“Beh, grazie per l’augurio parte
seconda.”
“Cazzo,
scusami,
lo sai che non intendevo quello che tu pensi io
intendevo…”
Soffocai a
malapena una risata. “Sì, tranquillo. Quindi,
vediamo se ho capito bene.
Nonostante ci fossimo messi d’accordo che dovevamo andare a
scuola insieme con
la tua macchina, mi hai appena telefonato per dirmi che mi dai buca e
che
dobbiamo andarci con la mia, di macchina, perché un albero
ti ha provocato e tu ci sei andato
a sbattere accidentalmente contro,
giusto?”
“Ma
è stato
davvero un incidente, non sto tentando di
giustificarmi…”
“Gabriel.” Lo fermai, prima che si facesse prendere
dal panico e incominciasse
a divagare. “Giusto?” Ripetei.
“Sì,
giusto.”
Sospirò.
“Bene.”
Guardai l’orologio.
“Tra cinque minuti sono da te, tranquillo.”
“Ok, grazie
mille.”
Disse, e chiusi la chiamata con uno sbuffo.
Afferrai
velocemente il giubbotto dalla spalliera della sedia, presi le chiavi
nella
tasca destra e andai altrettanto velocemente verso la porta, per uscire.
Appoggiai la mano
sulla
superficie fredda della maniglia dorata ma, prima di abbassarla
completamente,
mi girai.
Come se ci fosse
stata una specie di calamita, alzai lo sguardo verso la foto con mio
padre, e
incominciai a parlarci, senza un vero motivo preciso. “Senti,
non guardarmi così,
ok? Lo so che, dopo tutta la fatica che ha fatto ieri per aiutarmi,
andarlo a
prendere con la mia macchina è il minimo che possa fare,
però, accidenti…poteva
almeno avvisarmi prima, no?”
Restai in silenzio
a fissare il sorriso immobile di mio padre, quasi mi aspettassi una
risposta. La
scena sarebbe stata quasi comica, se non fosse stato per il ritardo.
“E va bene,
ma ne
riparliamo quando torno.” Dissi, girandomi di nuovo e uscendo
dall’appartamento.
Andai vicino
all’ascensore
e schiacciai il bottone rosso, sperando che fosse libero e che qualcuno
non
avesse prenotato prima di me.
Fortunatamente,
nell’ascensore non c’era nessuno e potei scendere
in fretta al piano terra,
pronta per andare a prendere Gabriel.
Parlare
da soli è il primo sintomo della pazzia, pensai. Chissà che non sia un segno.
Pov Evan
“Aaaaah!”
Mi
svegliai di soprassalto, spalancando gli occhi e cercando di far
fermare i
battiti impazziti del mio cuore.
Un rumore
assordante di vetri rotti mi aveva strappato al sonno, e questo poteva
dire
soltanto una cosa: sarebbe stata una giornata di merda.
Infatti, mi
giravano sempre le palle se non riuscivo a svegliarmi da solo o,
peggio, se a
svegliarmi era un rumore particolarmente fastidioso.
Sbuffai
pesantemente, sentendomi la testa girare.
Già,
pensai, proprio una giornata di merda.
Ancora con la
canottiera addosso, mi preparai un caffè, con estrema
lentezza, per rendere l’impatto
con la realtà meno traumatico.
Poi,
all’improvviso,
lo squillo acuto del mio cellulare mi fece sobbalzare. Di nuovo.
Lessi il numero
sullo schermo, e mi sorpresi di vederlo scritto proprio lì.
“Mamma…”
Uno
sbadiglio improvviso mi fece interrompere la frase per tre secondi
“…perché mi
stai chiamando?”
“Come
perché? Sei
già pronto?”
“Ma certo
che…”
Altro sbadiglio “…Sono pronto. Perché
non dovrei esserlo?”
“Oh, va
bene, era
giusto per sapere. Beh, io vado a lezione, visto che sono le otto.
Buona
scuola.” Disse, e chiuse la comunicazione.
“Sì,
sì, buona
lezione.” Blaterai alla linea chiusa, ancora assonnato.
Presi la tazza di
caffè
e trangugiai la bevanda bollente in un sorso, scottandomi la lingua.
“Ahi!”
Forse per la
scottatura,
o forse perché il mio cervello aveva finalmente deciso di
mettersi in moto, mi
resi improvvisamente conto di quello che aveva detto mia madre.
Erano. Le. Otto.
E io stavo ancora
in canottiera e boxer!
Posai la tazza di
caffè
da qualche parte, non mi resi neanche bene dove, e mi vestii con gli
stessi
vestiti di ieri, non avendo il tempo di trovarne dei nuovi.
Mi infilai alla
bene e meglio i calzini, le scarpe e i jeans, cercando di chiudere la
zip
mentre sbattevo la porta di casa e picchiettavo furiosamente contro il
bottone
rosso dell’ascensore.
Cazzo, era
già
occupato!
Scesi più
in
fretta che potei gli scalini, stando attento a dove mettessi i piedi e
pregando
di non fratturarmi una gamba, mentre provavo a infilarmi la maglietta.
Sono
nella merda, sono nella merda, sono nella merda!, continuavo a
sussurrare, furioso con
quel rumore di vetri rotti che non
mi
aveva svegliato in tempo e con chiunque avesse occupato
l’ascensore.
Mi misi a correre
disperatamente, e pregai con tutte le mie forze di riuscire ad arrivare
a
scuola in meno di cinque minuti… almeno vivo.
Pov Avril
Il tragitto dalla
casa di Gabriel a scuola fu breve, come al solito.
Nel corridoio, mentre
cercavo di non pensare al bruciore per il piccolo taglio alla mano,
stava
blaterando ancora qualcosa a proposito delle foglie secche che erano
andate a
finire dentro i suoi capelli la sera del suo accidentale incidente,
come l’aveva
definito lui, e io mi limitavo ad annuire o a scuotere la testa, a
seconda dei
casi.
Non gli prestavo
molta attenzione, ma a lui sembrava non importare più di
tanto.
Mi salutò
quando
raggiungemmo gli armadietti per andare ad assistere alla lezione del
professor
Conwell, di scienze della comunicazione.
Io lo salutai con
un cenno, pensando che finisse lì. Invece, sorprendendo
forse anche se stesso,
mi si avvicinò e mi abbracciò stretta a lui.
Delle volte, avevo
la sensazione che non fossi mai abbastanza, per lui.
Appena si
staccò,
mi sorrise stentatamente e mi salutò con un imbarazzatissimo
“ci vediamo dopo.”
Lo vidi
allontanarsi, e così aprii il mio armadietto, per prendere
tutto l’occorrente
per affrontare quell’altra giornata scolastica.
Mentre ero con la
testa completamente china sui libri che dovevo portare con me, sentii
un rumore,
che mi fece sobbalzare, vicinissimo a me. Credevo si trattasse di uno
sportello
di un armadietto che andava a sbattere contro il metallo.
Alzai la testa,
per vedere chi o cosa fosse la causa di quel rumore, e…lo
vidi.
Aveva la canotta
fuori dai jeans, i capelli tutti disordinati e
un’inequivocabile espressione di
nervosismo sul viso.
Un piccolo
desiderio di vendetta si impossessò di me.
Presi i libri
dall’armadietto,
lo richiusi e sorrisi sadica. “Passata una bella notte di
fuoco, Taubenfeld?”
Al sentire la mia
voce, le sue spalle si irrigidirono e i suoi occhi si spalancarono.
Spostò lo
sguardo
su di me e tutta la sua tensione si sciolse in un sorriso. Il problema,
però,
era che sembrava più sadico del mio. “Tu, invece,
ti sei data al taglio di
lametta, Lavigne?” e fece un cenno del capo, indicando il
piccolo taglio ancora
rosso sulla mano.
Brutto stronzo,
figlio di…
Lo superai ed
andai dritta in aula.
L’ultima
cosa che
quel verme si meritava era di avere la soddisfazione di ricevere una
mia
risposta.
***
Salve a
tutti.
Allora,
ho da
dirvi due cosucce.
La prima:
ancora
una volta, scusatemi per il ritardo con cui sto aggiornando. Ho cercato
di fare
il prima possibile, e non so se sia venuto fuori un capitolo leggibile.
La
seconda è che…
se vi siete chiesti (ma dubito) che fine abbia fatto la fanfiction
“Remember Me”,
devo dirvi che l’ho cancellata.
Alcune
cose e
alcune persone mi hanno fatto capire che non ce la facevo, e quindi ho
preferito concentrarmi solo su questa.
Bene, ho
finito.
Al
prossimo
capitolo ^-^
Cruel
Heart.