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Autore: Martu89    28/05/2008    1 recensioni
Racconto autobiografico, seppur romanzato, della mia partenza da Londra.
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il Tempo ha una strana conformazione. Non riusciamo mai a percepirlo per ciò che è realmente. Se non esistessero gli orologi non saremmo nemmeno in grado di concepirlo oggettivamente. Tendiamo sempre ad elaborare lo scorrere del tempo attraverso di noi. Ecco allora che una tediosa lezione sembra non terminare mai: il Tempo pare aggrapparsi strenuamente ad ogni minuto passato, le lancette dell’orologio completano il loro periodo con estrema lentezza. Ma poi ci sono quelle belle serate con gli amici, che vorresti che non finissero mai. Quelle serate nelle quali il tempo sembra avere fretta di trascorrere, così che le risate e le chiacchiere hanno ogni istante contato. Si tenta disperatamente di trattenere quei momenti, eppure scorrono alla velocità della luce, ci sguillano via dalle mani come i dettagli di uno sogno appena svegli. Ma il Tempo è strano. Arrivano quei particolari momenti nei quali il Tempo trascorso pare essere passato in un battito di ciglia, eppure al contempo sembra essersi dilatato per poter contenere tutti i ricordi. Questa particolare concezione del Tempo è quella del ritorno dal viaggio. Si era come partiti  il giorno prima, ma quanti luoghi avevamo visitato, quante persone avevamo conosciuto, quante cose avevamo imparato, quante emozioni avevamo provato…

Temevo il momento della partenza, sarei voluta rimanere lì per sempre, lì avevo trovato tutto ciò che andavo cercando. Ma il taxi era giunto inevitabile, le mie valige erano sistemate nel bagagliaio, io mi ero seduta nel sedile posteriore e l’autista aveva messo in modo l’auto.  Mi misi le cuffie del lettore mp3 nelle orecchie: quello era uno dei quei momenti nei quali una canzone melanconia non può far altro che conciliare i pensieri.

Davvero ero stata a Londra due settimane?

Ne ero certa?

Avevo lasciato i miei genitori all’aeroporto due giorni prima…

Kiergaard una volta aveva affermato che la felicità è un fantasma che esiste soltanto quando è già stato, non potevo essere più d’accordo. Mi rendevo conto solo allora, mentre ritornavo, che ero stata davvero felice in quei quattordici giorni. Ma come ero potuta essere felice? Lontana dai miei cari, separata dagli amici, divisa dalla mia città…

“Quanto tempo sei rimasta a Londra?” mi chiese l’autista in inglese, scotendomi dai miei pensieri.

Quanto tempo ero rimasta a Londra? Due settimane oggettivamente, però se avessi dovuto rispondere considerando il tempo da me percepito non ne avrei avuto idea. Troppo poco e troppo.

“Due settimane,” risposi in quella lingua che quasi mi ero divenuta automatica.

“Troppo poco,” mi disse l’uomo al volante. Sorrisi debolmente. Troppo poco. Già, forse era così.

Avevo amato la mia quotidianità. Dovevo gestire completamente da sola la mia vita, non c’era nessuno che si sarebbe potuto prendere carico dei miei errori, le responsabilità erano totalmente mie. Amavo andare a lezione, per quanto spesso i miei compagni fossero antipatici. Amavo il clima multiculturale. Amavo l’atmosfera londinese. Amavo Greenwich. Amavo essere sola, ma al contempo non esserlo. Amavo l’inglese e sentirlo parlare da tutti. Ma, soprattutto, adoravo essere amica di Beatriz.

L’amicizia con Beatriz era stata una di quelle brucianti. Era stata come un fiammifero: una scintilla, una potente fiamma e il rapido spegnimento della stessa. Per caso ci eravamo rivolte le parola, ma poi era stata una folgorazione. Non credo di essere mai andata così d’accordo con una persona. A me e Beatriz piacevano le stesse cose, ma avevamo gusti differenti. Ricordo che già la prima sera del giorno che ci conoscemmo andammo insieme al cinema, all’epoca davano Pirates of the Caribbean: Dead Man's Chest, e ambedue non vedevamo l’ora di vederlo, o meglio, di vedere Johnny Depp, quindi la scelta del film non era stata affatto difficoltosa. Ma quello era stato solo l’inizio. Trascorremmo tutte e due le settimane sempre insieme. Ecco, riflettendoci ora a mente fredda, capisco cosa mi piacesse davvero: l’esclusività della nostra amicizia. Io avevo lei, lei aveva me. Basta. Nessun’altra persona, per quanto poi conoscessimo anche altri. A cena la prima che arrivava prendeva il tavolo vicino alla finestra; se a colazione erano rimaste poche brioche la prima ne prendeva anche per l’altra; nella biblioteca la prima occupava un computer per sé e uno per l’altra. Sciocchezze a primo acchito, eppure erano cose straordinarie ai miei occhi. Pensavamo in due. Non c’era nulla di morboso o appiccicaticcio nella nostra amicizia, sin dal primo giorno ci comportavamo così.  Ogni sera, dopo cena, andavamo al Greenwich Park, il luogo che più ho amato di Londra, e lì chiacchieravamo passeggiando. Quanto chiacchieravamo! Discutevamo di ogni cosa! Ora guardandomi alle spalle mi chiedo come fosse possibile che chiacchierassimo così tanto in una lingua che non era nostra, eppure veniva così naturale.

Mentre ero assorta nei miei pensieri nostalgici, Londra correva fuori dai finestrini del taxi. Era bellissima. Quel giorno il sole risplendeva imperante nel cielo, i suoi raggi avvolgevano la città come mai aveva fatto durante il mio soggiorno. Brutto scherzo, il suo, di farmi rimpiangere ancora di più la mia partenza.

Il taxi continuava a correre affianco al Tamigi, e di lì a poco vidi il London Eye stagliarsi in cielo davanti al Big Ben. Sorrisi tra me ripensando a quel venerdì che decidemmo di andare tutti al London Eye la sera. Ricordo che faceva un freddo assurdo, tremavo come una foglia, stringendomi nella mia giacca a vento. Poco lontana da me e Beatriz, anche lei tremante dal freddo, c’era un ragazzo biondiccio in pantaloni e maglietta corti: mi faceva gelare ancora di più. Questi all’improvviso si girò verso di me.

“Hai freddo?” mi chiese, trattenendo le risate.

“Sì, sennò perché starei tremando?” gli risposi acida, lanciandogli un’occhiata malevola. “Da dove vieni tu per aver caldo?! Dalla Siberia?!”

Il ragazzo si lasciò andare ad una grassa risata. “Quasi,”  disse. “Sono russo.”

Nonostante la figuraccia, non potei fare a meno di scoppiare a ridere.

“Non prendermi in giro, allora! Nel mio paese ci sono quaranta gradi adesso. Non è colpa mia se nel tuo ce ne saranno quattro!”

Ridemmo insieme tutta la serata. Il ragazzo si chiamava Alexei. Chissà dove sarà ora.

Ormai le case andavano diradandosi. La tranquilla periferia londinese stava prendendo il posto della rumorosa e caotica metropoli. All’improvviso sentii una grande tristezza afferrare il mio cuore, e lacrime silenziose iniziarono a sgorgare dai miei occhi. Strano che non avessi iniziato a piangere prima. È che ormai entrati nell’autostrada la mia partenza era incontrovertibile. Dieci minuti prima avrei potuto anche fermare il taxi e scappare. Ma era troppo tardi: Londra era alle mie spalle, l’Italia, invece, era davanti a me.

Non avrei più visto Beatriz, né Alexei. Non avrei più cenato nella Cafeteria del campus. Non avrei più dormito nella mia bellissima camera. Non sarei più entrata nella gigantesca libreria di Greenwich. Non mi sarei più addormentata il martedì sera con il karaoke del pub sotto la finestra della mia camera. Non avrei più pranzato con un hamburger davanti al Cutty Sark. Non avrei più scambiato due chiacchiere con Emma, Lizzie, John e tutti gli altri addetti del campus. Non avrei più passato le serate al Greenwich Park con Beatriz. Non avrei più preso la Docklands Light Railway per andare nel centro di Londra. Non sarei stata più indipendente come in quel momento.

Volevo tornare indietro.

Perché mi era sembrato che la mia vacanza fosse durata una vita?

Perché mi è parso di conoscere Beatriz e Greenwich da sempre?

Perché alla fine il mio soggiorno era durato il tempo di respiro?

Le mie lacrime continuavano a scendere inesorabili, mi era impossibile fermarle. Anche l’autista le notò.

“Are you O.K.?” mi domandò, preoccupato, guardandomi dallo specchietto retrovisore.

“I’m just… I’m just gonna miss London…” risposi, tentando di asciugarmi le lacrime con la manica della maglia.

“Everybody misses London. You’ll come back soon…”

“I hope so,” dissi, con gli occhi visibilmente arrossati.

Tra Londra e Gatwick ci sono parecchi chilometri di campagna. Quella tanto celebrata campagna inglese, con i suoi prati verdi lussureggianti, gli alti alberi e piccoli cottage che sbucano qua e là. All’epoca ero fresca dalla lettura di Orgoglio e Pregiudizio e Ragione e Sentimento, e non mi fu difficile perdermi nelle mie fantasie. La vedevo Elizabeth camminare per quei prati per dirigersi verso Netherfield Park per vedere Jane. E immaginavo Marianne correre in quei campi sotto una pioggia battente, la vedevo cadere ed essere soccorsa da quel mascalzone di Willoughby.  Ma il sollievo di queste fantasie fu breve. In lontananza si iniziava a scorgere l’aeroporto. In breve tempo il taxi si fermò davanti alla porta delle partenze. Scesi, raccattai tutti i miei bagagli e pagai il taxista.

Mi voltai verso la porta scorrevole e mi venne da sorridere. Solo quattordici giorni prima mi trovavo proprio lì, in attesa di andare a Greenwich. Due settimane prima non avevo proprio idea che sarebbe stato il periodo più felice della mia vita. Se solo fossi potuta tornare indietro! Se solo fossi potuta tornare indietro avrei vissuto l’intera esperienza con una consapevolezza diversa. Chissà, questa consapevolezza avrebbe rovinato tutto. No, andava bene così. I ricordi non sarebbero sbiaditi con facilità. 

  
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