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Autore: rachel_hetfield    07/01/2014    1 recensioni
Presi una boccata d’aria troppo grande, mi girò la testa e mi appoggiai al metallo freddo della capsula. «Come puoi amarmi se mi odi?»
«Non so come dirtelo che non ti odio.»
Lasciai il metallo e mi avvicinai di più a lui. Con la mano destra mi allungai verso il pulsante del timer. Un suono robotico lo fece partire.
«Non fare cazzate» singhiozzò «ti prego. Resta qui. Non ce la farei senza di te.»
Avevo impostato il timer per sessanta minuti, un’ora esatta. Avevo un’ora di tempo per decidere se fare le valigie, o attirare Kevin e rimandarlo indietro, a Oslo.
Evitai le sue labbra che si erano chinate su di me. «Devo... devo restare da sola. Torniamo nella locanda. Devo pensare.»
«Non farlo...» mormorò con la voce strozzata dal pianto.
Scossi la testa mordendomi un labbro. Fortunatamente ero voltata di spalle, perché avevo iniziato a piangere anche io.
«Rachel, ti amo.»
Singhiozzai e mi sentì. Il mio cuore balzò. Mi aveva circondata con le braccia, di nuovo. Solo che stavolta piangevamo entrambi. Il destino ce l’aveva con noi.
«Ti amo anche io, Dan.» [capitolo 16]
Genere: Drammatico, Romantico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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La lucina arancione che filtrava nella stanza dalo spiraglio della porta era assai inquietante. Sembrava che c’era solo quella luce, e metteva paura. Guardai il quadrante di quello che era un orologio antico e lessi l’orario, le nove e venticinque. Era presto per me, che mi alzavo molto tardi la mattina, ma evidentemente per il ragazzo che mi stava stringendo contro il suo petto era anche tardi. Sentivo ancora il braccio stretto sull’addome, la fronte sulla mia, il suo respiro non ritmato e più che altro fatto di sospiri e di sbuffi. Mi chiesi se avessi dovuto girarmi o continuare a fingere di dormire. Come la sera precedente lo aveva portato a farmi sempre più domande e a interessarsi sempre di più a me, magari quella mattina avrebbe detto altro che delle domande. Magari parlava da solo... ma non volevo correre il rischio. Chiusi gli occhi e mi beai di quel braccio che mi trasmetteva ancora calore. Poi il braccio scivolò via, il fruscio di una mano che si muoveva sotto le lenzuola mi fece rabbrividire, poi si poggiò sui miei capelli e sobbalzai. Li accarezzò fino alle punte, scivolando lentamente, col dorso della mano. Sospirai immaginando di essere in paradiso ad ogni tocco, era così morbido, leggermente sensuale. Poi capii che quello che stavo pensando andava ogni limite della sopportazione, della mia stessa sopportazione, e feci per stiracchiarmi, così che lui rimosse subito la mano che si era poggiata sulla spalla. Mi misi a sedere e lo guardai, immaginai di non avere un bell’aspetto quella mattina. Non ero abituata a dormire con qualcuno e mi coprii il viso con le mani, sperando non mi avesse vista.
«Buongiorno» disse, ma non guardai la sua espressione. Ero impegnata a nascondere il viso con le mani.
«A te» risposi soffocando la voce per via delle mani sul viso.
«Dormito bene?»
Annuii.
«Perché» disse con tono divertito «perché tieni le mani sulla faccia?»
Feci un risolino senza toglierle. «Sono orribile di prima mattina.»
«Che ti frega, non sono mica un giudice di bellezza» mi afferrò il polso con delicatezza e spostare la mano lentamente, come se temesse di farmi male. Non ero nelle migliori condizioni, e spostai la testa di lato. Con l’altra mano prese il mento tra le mani e mi osservò attentamente. Tentai di non arrossire e di non guardarlo, erano troppo blu per i miei gusti e temevo di perdermici. Anche se era un modo di dire vecchio come quella stanza, mi piaceva dire che mi perdevo negli occhi della gente. Mi perdevo negli occhi di Kris, azzurri come il cielo, mi perdevo negli occhi di tutti i norvegesi che sfociavano dalle tonalità più chiare di verde alle più scure, a quelle azzurre, a quelle grigie, ma mai avevo visto degli occhi blu come i suoi. Chiusi gli occhi mentre lui teneva ancora fermo il mio viso per guardarlo, e poi sentii un suo respiro mozzato, e sollevai le palpebre per vedere che espressione avesse. Sorrideva, con lo sguardo basso.
«Hai paura che possa baciarti?»
Mi irrigidii a quelle parole. Nessuno me lo aveva mai detto. «N-no, è che...»
Non sapevo cos’altro aggiungere e gli bastò. Mi lasciò andare e si rintanò sotto le coperte, di nuovo.
«Non sei orribile» sussurrò riaffondando la testa nel cuscino.
«Peggio?»
Rise. «Forse.»
Strappò una risata anche a me, e lo seguii sotto le coperte. Eravamo di nuovo faccia a faccia, ma stavolta rimasi a guardarlo. «Tu invece sei molto bello.»
Si morse un labbro, esteso in un sorriso. «Non devi lunsingarmi in questo modo.»
«Perché dovrei?»
«Non mi conosci» si strinse nelle spalle.
Gli sorrisi, pur sapendo di essere orribile. «Io ti trovo bello.»
Sorrise a mia volta. «Io ti trovo stupenda, anche di prima mattina.»
Ci guardammo per un po’, ma non mi imbarazzai come la prima volta. Ero incantata da lui, mi aveva ipnotizzata come un incantatore di serpenti ipnotizza il suo cobra con la melodia. Sperai non rimanessi a fissarlo troppo a lungo, troppo tardi, mi ero già smarrita nel suo sguardo come nel deserto. Un deserto del colre del mare.
Nessuno in vita mia, in questi ventun’anni sprecati, mi aveva mai fatto un simile effetto, forse perché dove vivevo io erano tutti fottutamente uguali, erano tutti vestiti con i soliti cappotti antigelo, le solite scarpe di gomma anticaduta, antitutto, tutto ormai era un modo di isolarsi da qualcosa, anche dalla vita sociale. La mia vita era antisociale, ero fatta così. Ero fatta per avere uno o due amici, e mi chiedevo perché. Ma finalmente, con quel viaggio nel tempo, avevo conosciuto un ragazzo in grado di sconvolgermi e staccarmi dalle regole opprimenti della mia epoca. Avevo bisogno di spazio, di libertà, di conoscere l’amore sbagliando più volte, cadendo, innamorandomi solo dopo aver sofferto.
Dan era ciò che mi avrebbe fatta uscire da quell’oscura maledizione che opprimeva la mia libertà. Dan era quel mare in cui sarei affogata e sarei riemersa. Dan aveva quegli occhi blu che erano la positività della calamita. E i miei non potevano che essere la negatività.
«Ti piacciono parecchio i miei occhi, a quanto vedo» scherzò distogliendomi da ogni pensieri. Lo avevo messo in imbarazzo, ma in fondo lo ero anch’io.
«Sono blu» mormorai.
«E allora?»
Scossi le spalle. «Dove vivo io non ne ho mai visti, sono tutti verdi, grigi o azzurri.»
«Io non ho mai visto degli occhi grigi come i tuoi, se devo essere sincero» sorrise «Anzi, non ho mai visto un paio di occhi grigi. Sono surreali, quasi futuristici.»
«Nella mia epoca ormai è tutto di metallo, anche l’animo di una persona. Siamo dei robot. Siamo tutti schiavi di un sistema tirannico, basato sul lavoro dei poveri e sull’imposizione di regole assurde.»
Si fece più curioso. «Ad esempio?»
«Beh...» pensai a una probabile regola assurda fra le tante «non puoi abbracciare alcun uomo a meno che non sia un parente, un genitore o il marito.»
Quell’espressione così fredda e seria che mi spaventò si trasformò in una smorfia divertita. «Sul serio?»
Annuii.
«E come fanno le persone ad innamorarsi?»
«Me lo domando anch’io» risposi con aria triste.
Si mise a sedere, e lo imitai lasciandogli sfuggire un sorriso. Alzò le coperte e si mise in piedi, era molto magro, e si stiracchiò. «Ti sei mai innamorata?»
Scossi la testa. «Non ho amici dove vivo io.»
Non avevo notato lo strano paio di pantaloni che portava. Erano di varie tonalità di grigio e azzurro, tipo quelli che portavo io addosso. Non mi ero nemmeno messa un pigiama per dormire, mi ero stesa rimanendo coi vestiti della sera prima. Forse erano quei jeans che mi avevano fatta congelare, e la stoffa di quella felpa era davvero strana, sembrava fatta di erba del prato. Anche se di prati io ne avevo visti soltanto nei quadri di millecinquecento anni fa.
«Beh, qui te ne farai qualcuno» mi sorrise venendo verso il lato del mio letto e tendendomi la mano. L’afferrai e mi alzai dal letto. Richiusi la valigia, misi nella tasca il neurofono per qualunque bisogno ed uscii dalla stanza.
Chris era seduto su quella strana sedia senza schienale, appoggiato coi gomiti sul bancone e una raccolta di fogli di carta tra le mani. Sembravano quei libri scritti su carta che esistevano nel millennio scorso.
Ma io ero nel millennio scorso. E dovevo ancora rendermene conto.
Salutammo con la mano e Dan si avvicinò a lui, sedendosi alla sedia bizzarra accanto.
«Ehi Woody, hai già aperto?» gli chiese dandogli una pacca sulla spalla. Io rimasi dietro Dan a spiare Woody che stava attento a segnare dei numeri sul suo pezzo di carta bianco con un tubicino di plastica nero che emetteva del liquido nero. Forse era inchiostro, o qualcosa del genere.
Fu qualcosa di dolce quando Dan mi prese per un fianco e mi portò accanto a lui, in effetti Chris lanciò uno sguardo curioso e un po’ confuso per poi tornare ai suoi numeri.
«No Dan, lascio il locale chiuso per le festività» rispose richiudendo quell’ammasso di carta. Lo come lui osservai con attenzione proprio come lui aveva guardato il timer che avevo sul polso. In effetti non somigliava a niente di ciò che c’era in quella stanza. Era tutto così maledettamente monotono e privo di tecnologia. A parte uno schermo grande non più di quaranta pollici che sembrava una di quelle vecchie televisioni a colori in due dimensioni. Mi lasciai andare a malavoglia dalla morsa di Dan e mi avvicinai a quel televisore piuttosto vecchio. Eppure sembrava un modello abbastanza nuovo, per quell’epoca. Sentii dei passi venirmi incontro e una presenza alta si fermò proprio dietro di me, afferrandomi per i fianchi. Rabbrividii a quell’abbraccio così strano e così... inusuale. Io pensavo che gli abbracci avvenissero solo davanti, non che si potesse abbracciare anche da dietro. Non sapevo come rispondere, misi semplicemente le mani sulle sue braccia, attorcigliate sulla mia vita.
«Ti stupisce quella televisione?» chiese in un soffio.
Annuii. «Dove vivo io sono tutte proiezioni tridimensionali. Quando guardi la tv è come vivere la storia.»
«Mi piacerebbe vivere nella tua epoca» affermò.
«E io nella tua» sospirai «Nel terzo millennio la libertà è un bene di lusso. O la ottieni coi soldi, o non l’avrai mai.»
«Noi non siamo liberi in questo mondo, Rachel, non lo siamo mai stati e non lo saremo mai. Ci saranno sempre a comandare dei pezzi di merda che pretenderanno il controllo di tutto senza preoccuparsi di aver accontentato tutti. Ci saranno sempre questi bastardi che pur di vivere serenamente opprimono e sotterrano un popolo, segnano la fine di una popolazione sono salendo al potere. Ci sono anche qui, cosa credi?»
Sollevai le spalle. «Lì non puoi innamorarti. E l’amore è l’unica cosa libera che avrebbero potuto lasciare.»
«Qui se ti innamori c’è sempre qualcosa che te lo fa andare storto.»
Sospirai. «Mancano 38 ore e mezza prima che debba tornare a casa.»
«Appunto.»
Mi gelò. Sentii improvvisamente una fitta all’addome, alla schiena, come il presentimento di aver fatto qualcosa di sbagliato. Temevo di fare una brutta figura senza reagire davanti a quella che era probabilmente una dichiarazione. Mi tremarono le gambe. Stavo per svenire.
«Scusami» sciolse l’abbraccio e indietreggiò, lasciandomi quasi cadere all’indietro. Prima che uscisse dalla locanda con lo sguardo di Chris che lo seguiva con gli occhi corsi verso di lui e gli afferrai il polso, ma fu più forte di me e se ne liberò.
«Dan!» lo chiamai, ma continuò a camminare. Faceva freddo, fuori, troppo freddo, e io non avevo lui coi suoi abbracci che mi riscaldava.
Tornai dentro, chiudendo la porta alle spalle, e mi ci poggiai sopra. Guardai Chris che sospirava rassegnato.
«Chris, tornerà?» domandai con lo sguardo basso.
Mi diede un’occhiata veloce. «Puoi chiamarmi Woody, se ti fa piacere.»
«Tornerà, Woody?» stavolta lo guardai e ricambiò lo sguardo con un sorriso.
«Puoi scommetterci. A proposito, è la vigilia di Natale oggi, che ti va di fare?»
Feci uno sguardo interrogativo. Non sapevo assolutamente cosa fosse il Natale, in Norvegia c’era la festa di rinconciliazione, per festeggiare l’unione della Norvegia al continente russo, ma non in Natale. Non chiesi cosa fosse per non destare sospetti.
«Ehm... non, non saprei.»
«Potresti stare con noi. Noi intendo me, Dan e i ragazzi» fece spallucce e fu una cosa dolcissima. Il suo viso rotondetto coperto dai capelli e le spalle larghe lo facevano sembrare un orsacchiotto. E la bassa statura lo faceva troppo dolce.
Avrei dovuto rispondere di sì, tra l’altro volevo scoprire cosa fosse questo Natale, e trascorrere una serata con Dan non mi avrebbe infastidito nemmeno un po’. Vederlo scappare via mia aveva lasciato un vuoto dentro, e soprattutto il freddo. Senza di lui avevo freddo. Lui poteva riscaldarmi, lui poteva abbracciarmi. Nessun altro.
«Nel mentre che Dan torna e tu decidi cosa fare stasera...»
«Vengo con voi» risposi prontamente.
«Bene. Nel mentre che Dan torna che ti va di fare? Una partita a carte, guardare la tv? Tanto lui è in giro a bere e ubriacarsi, lo fa sempre, quindi farà tardi.»
Non sapevo cosa rispondere. Non sapevo giocare a carte. «Da-da dove vengo io non si gioca molto a carte... ti va di insegnarmi?»
La sua prima espressione fu sorpresa, ma poi fece una risata. «È strano che non si giochi a carte, ma vieni, te lo insegno.»
Mi fece segno di seguirlo sui divanetti, mi disse di sedermi e aspettarlo lì. Tornò mezzo minuto dopo con in mano un volumetto grande quanto una mano, una scatolina di cartone che si aprì e ne uscì un mazzo di carte, tutte uguali ma con dei segni diversi. Ne presi una e la osservai attentamente. Aveva tanti cuori rossi disegnati, e ai lati c’erano i numeri che segnavano il numero di cuori. Un’altra aveva dei quadri rossi, un’altra dei trifogli neri e un’altra delle forme strane che scoprii si chiamavano picche. Provocai a Woody una risata, dovevo essere proprio divertente a guardare stupefatta qualcosa che lui vedeva tutti i giorni. Se avesse visto il neurofono, avrebbe fatto la mia stessa identica espressione. Qualcosa vibrò nella mia tasca e immaginai fosse proprio il neurofono, ma non era il momento di tirarlo fuori. Ero curiosa di imparare a giocare a carte, doveva essere divertente.
Lui prese tutto il mucchio e le sistemò in un unico mazzo, mischiandole tra di loro con un’abilità che mi sembrò fuori dal comune. Poi le divise in due parti e mi incitò a mettere una pila di quelle sull’altra. Obbedii ridendo. Poi ne prese una decina e me le diede in mano, e così anche lui facendomi segno di coprirle e non fargliele vedere. Le aveva sistemate in mano in una specie di ventaglio, aveva una grande abilità. Io non sapevo nemmeno come tenerle.
«Ora devi fare una cosa, devi ordinare tutte le tue carte in base al numero, il colore e il segno. Afferrato?»
Annuii e cercai di sistemarle disastrosamente, facendole cadere più volte a terra e sul tavolo, scoprendole. Lui rise e, pazientemente, si avvicinò mostrandomi come dovevo sistemarle. Quando capii come dovevo fare, mi lasciò mescolare il mazzo, distribuirle e riordinarle. Poi iniziò a spiegarmi un gioco che nemmeno capii il nome.
E così passarono le ore, le risate, e si fecero le tre di pomeriggio. O almeno, così diceva l’orologio digitale che portava Woody sul polso, al contrario del mio timer che segnava le ore che passavano.
E nonostante era passato tanto tempo, Dan non tornava. Iniziai a preoccuparmi seriamente, e lui se ne accorse.
«Sei preoccupata per Dan?»
Cercai di nascondere il rossore alle guance quando dissi di sì.
«Lo chiamo?»
Annuii di nuovo. Prese il suo aggeggio quadrato con un touchscreen scarso e ci schiacciò sopra qualche numero. Era strano. A noi non servivano i numeri, bastava digitare il codice del neurofono che ogni apparecchio aveva, ed erano tutti diversi.
Rimase ad aspettare per un po’ e poi parlò.
«Dan, dove cazzo sei? -no, no che non sto tranquillo! Dan, torna adesso altrimenti vengo ovunque tu sia e ti riempio di botte. -non me ne frega, siamo entrambi in pensiero. -Dan. -Dan di questo parleremo dopo. Ora, ti prego, torna alla locanda, fallo per me, fallo... fallo e basta» richiuse e si infilò l’aggeggio in tasca.
Iniziai a pensare che quella che poteva essere una sbronza si era trasformata in peggio. Guardai Chris spreando in uno sguardo confortevole che non arrivò mai.
«Sta tornando» disse in un sospiro. Abbassai lo sguardo, e così anche le braccia. Mi poggiai sul tavolo, freddo, sperando ancora che si facesse vivo il più presto possibile. Avevo freddo, e detestavo il freddo. Detestavo il freddo degli occhi di Chris che ormai aveva perso la voglia di giocare a carte, odiavo il freddo di quel tavolo di legno, odiavo il freddo delle mie mani che non sentivano le presenza di Dan. Rimasi con lo sgaurdo rivolto alla porta in eterno. Poi chiusi gli occhi, e rimasi a fissare il buio che circondava me con le palpebre abbassate, immaginando di tornare a casa, da vincitrice, con i giornalisti che chiedevano come fosse stato il viaggio e il passato.
Ma io non stavo vivendo il passato, io stavo vivendo un presente diverso.
«Chris» lo chiamai senza aprire gli occhi «dimmi una cosa... Dan si ubriaca spesso?»
«Ogni volta che pensa di aver fatto qualcosa di sbagliato» rispose atono.
«E che ha fatto di sbagliato?»
Alzai la testa e lo guardai. Si stringeva nelle spalle. «Credo che si sia aperto un po’ troppo con te.»
«In che senso?»
«In un modo o nell’altro ha ammesso ciò che prova per te» mugugnò trattenendo uno starnuto.
«Non può provare niente dopo un... una notte che lo conosco, sarebbe assurdo» realizzai stupita.
«Ma Dan è assurdo, è questo il problema» ribatté «e credo che sia scappato per il semplice fatto che tu te ne dovrai andare domani sera... lo rattrista. E lo demoralizza. Dan non ha mai avuto una, diciamo, figura femminile sempre presente nella sua vita, anche se io stesso che sono il suo miglire amico so poco del suo passato, so che non era sempre a casa, con sua madre. Ha scoperto la timidezza e gli ha impossibilitato di consocere altre ragazze, ma da come si comportava con te penso che abbia sbloccato quel timore di fare brutta impressione. E immagino che tu sia peggio di lui con le amicizie, o sbaglio?»
Non c’era niente di offensivo in quello che aveva detto, ma solo la verità. Io ero una frana con le amicizie, infatti non ne avevo nemmeno una.
Tornai a buttare la testa sul tavolo, tra le braccia. «Non sbagli. È solo che pensavo...»
«Pensavi?»
«Pensavo, che ne so, di arrivare qui e... non lo so, non sapevo niente quando sono arrivata. Non sapevo che tipo di vita mi sarei dovuta aspettare, non sapevo come muovermi né come comportarmi, figurati trovarmi a dormire con un uomo.»
«È una cosa brutta?»
Alzai la testa. «Da dove vengo io, sì, è un reato se non è un parente, un genitore o il marito.»
Inarcò un sopracciglio. «Sei islamista, per caso?»
Che parola buffa. «No, sono della Norvegia.»
«In Norvegia si pratica l’islamismo?»
«In Norvegia non si pratica nessun tipo di islatismo o quello che è.»
Scoppiò a ridere. «Islamismo. Comunque ci credo che Dan si sia preso una cotta per te.»
Arrossii e poggiai la schiena sullo schienale di quel divanetto in pelle scura a scrutare il soffitto. Era di legno, come tutto il resto, e pendevano delle catenine con appese delle parabole contenenti una lucina fioca. Chissà come si chiamavano. Non glielo chesi, sarei finita per rivelargli chi fossi e da dove venissi.
Tra una risata e l’altra, qualche buffa domanda e qualche osservazione assurda, la porta del locale si aprì facendo entrare una folata di vento gelido. Rabbrividii. Guardai verso l’entrata e c’era Dan che si poggiava sulla porta di schiena, passandosi una mano tra i capelli. Aveva le labbra rosse e il viso bianco. Rimasi a guardarlo per un po’, prima che rivolgesse lo sguardo verso di me e mi rigirai. Ero ancora offesa e delusa da quello che aveva fatto quel giorno. Woody si alzò e gli andò incontro, dandogli una pacca sulla spalla. Si rintanò dietro una porta di legno più chiaro e si chiuse dentro. Eravamo solo io e lui. Sentivo le cose precipitare, e non solo, sentivo l’ansia, l’imbarazzo che mi torturavano l’anima. Strinsi la mascella e di nuovo sentii quella folata gelida che più che vento sembrava il suo respiro. Ma era ancora lontano da me, e tornai a fissarlo mentre si sfilava la giacca coperta di neve. Immaginai che ci fosse una bufera, fuori. Nella mia epoca le bufere di neve si risolvevano subito coi sistemi di riscaldamento, e così bastava azionarli e si poteva andare in giro senza preoccuparsi di morire congelati.
Lanciò la giacca sul bancone adorato di Woody e venne verso di me, e per un attimo smisi di respirare. Si sedette di fronte a me, esattamente dove c’era Woody pochi minuti prima che arrivasse lui. Ci guardammo per un po’. Mi percorse un brivido, ma non lo feci apposta stavolta, avevo davvero freddo. E temevo che non mi avrebbe riscaldata quella sera.
«Freddo?» accennò.
Annuii. Non avevo una giacca con me, qualcosa di caldo da mettere addosso, avevo solo le sue braccia che per il momento si rifiutavano di riscaldarmi.
«Probabilmente mi odierai» mormorò.
«No» risposi senza enfasi «sono solo confusa.»
«Credo che tu non capisca il perché della mia reazione» fece spallucce, con una voce poco rassicurante. Aveva un qualcosa di minaccioso. E mi spaventava.
«Credo di averlo colto il motivo, non sono così stupida anche se vengo da un’epoca diversa in cui il contatto con gli uomini è limitato.»
Mi lanciò un’occhiataccia. «Non dovevi fermarmi. O almeno, non dovevi provarci.»
Lo guardai cercandomi la risposta da sola, ma non ci riuscii. Aspettai che fu lui a parlare.
«Se solo avessi, come minimo, cercato di non farmi credere che ti interesso ora sarei meno sconsolato.»
«Non capisco il motivo della tua sconsolazione» ormai gli stavo dando la possibilità di dirmi tutto senza giochi di parole e senza doppisensi. O le cose le diceva, o gliele avrei tirate di bocca.
«Vorrei tanto saperlo anch’io. Ti ho conosciuta stanotte, non una vita fa.»
«Non ha importanza quando ci siamo consociuti, ha importanza perché ci siamo conosciuti» tirai.
«Tu domani sera te ne andrai. Io non ti vedrò. Tu sarai nella tua epoca, a mille anni più avanti di me, io sarò qui, a marcire solo come un cane nell’alcool, nelle feste, a guardare donne che non amerò mai. Non ho un futuro, Rachel» il mio nome pronunciato da lui fu improvvisamente bello.
«Non so se voglio tornare nel futuro, Dan» lo chiamai a mia volta «non voglio vivere in un’epoca in cui la libertà è un’opzione dei potenti.»
«Non ti permetterò di restare in questo schifo di città, seppur a danno mio» disse secco.
Lo guardai male. «Ma perché esistete solo tu ed il tuo dolore? Perché non provi a pensare anche a quanto sarebbe devastante per me tornare in un mondo in cui non ho amici, nessuno che mi ami e nessuno che mi amerà mai, senza genitori... io non ci torno per vivere, Dan, io ci torno perché gli scienziati mi hanno affidato il compito di sperimentare la macchina del tempo. E se non torno loro non sapranno niente. Non sapranno se funziona o meno, non sapranno se dovranno gettarla via e magari perdere le speranze. Io non ci torno se non per quello. E sinceramente, se davvero volessi rimanere in una città in cui non conosco le abitudini, il modo di fare e di vivere, non potrei di certo restare a marcire qui. Tu non hai capito che se non partirei è perché ho trovato te... e... e Chris, anche.»
Mi si bloccò il fiato quando i suoi occhi divennero più blu del solito. Mi ero dichiarata involontariamente anch’io. Gli avevo detto ciò che provavo. E ovviamente avevo messo in mezzo Chris per non destare sospetti, ma chi volevo prendere in giro, era ovvia la cosa. Lui non rispose. Si limitò a guardarmi di sottecchi.
«Woody mi ha invitata alla vostra festa, stasera» cambiai discorso.
«Sì, si festeggia il Natale. Hai accettato?»
Sollevai le spalle. «Affinché ci fossi tu.»
«Non andrei in un posto in cui non ci sei tu» ammise abbassando la testa. Mi alzai, con i piedi e le mani congelate, e sentii veramente il bisogno di un suo abbraccio. Mi seguì con gli occhi mentre mi sedevo accanto a lui e mi accoccolavo sul suo petto. E finalmente, dopo averci sperato tanto, mi diede uno di quegli abbracci che mi riscaldavano il corpo, il cuore e l’anima.
Guardai il timer, mancavano 36 ore. E 36 ore non mi avrebbero impedito di innamorarmi di lui.
  
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