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Autore: papavero radioattivo    07/01/2014    6 recensioni
[...] sembrava che lo guardasse, che lo guardasse davvero: che gli sbirciasse l’anima per dirgli “tu puoi farlo, puoi ballare”. ― DAL CAPITOLO II.
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Esiste un abisso fra un ballerino classico e uno di street dance, un divario difficile da colmare, ma forse non impossibile. Due mondi diversi che collidono, due ragazzi con la passione per la danza. Questa è la loro storia d'amore un po' da film, un passo a due fatto di promesse e carezze. Perché un solo ballo basta a farti innamorare.
Reinhart ed Étienne sono immersi in due vite opposte di Cannes, in Costa Azzurra. Tra saggi di danza, discoteche, caviglie rotte e insalate per pranzo impareranno a conoscersi e a conoscere che una birra e un pezzo di cioccolato ogni tanto non possono rovinare la carriera di un ballerino - e una verità non può essere così dolorosa come ci si aspetta.
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→ linguaggio scurrile e lievissimi riferimenti a tematiche sessuali, la storia non prenderà nessuna piega "delicata" e rimarrà piuttosto sul comico.
→ lieve presenza di elementi angst durante l'evoluzione della trama.
Genere: Angst, Comico, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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Non sapeva fare nient'altro se non danzare.

CAPITOLO I

 

 

 

 

                            Cannes, Costa Azzurra. Settembre 2012

 

 

Il sole splendeva, illuminando la sala numero 6 della scuola di un’aura nuova, come a voler dire: «quest’anno sarà diverso».

Invece di diverso non c’era nulla: Joëlle Boulogne se ne stava nel suo angolino vicino al pianista, mentre osservava i suoi alunni prendere posto alla sbarra per scaldarsi. Era una sequenza continua di calze nere e maglie bianche, quella monotonia la rilassava.

Quando finalmente tutto fu pronto per la lezione ed i suoi alunni le rivolsero uno sguardo d’assenso, la donna prese posto nella sbarra centrale rivolta verso lo specchio «iniziamo dai pliés» annunciò, la voce chiara aveva qualcosa di autoritario. Si spostò la lunga treccia nera sulla schiena e fece seguire all’elenco dei passi anche un abbozzo dei movimenti, «demi-pliés e stendere, demi-pliés e stendere, – vi era una piccola variazione delle braccia – grand-pliés e tornare, port de bras avanti e port de bras indietro». Si girò verso i ragazzi e abbozzò un sorriso a metà tra sfida e compiacimento, «in seconda, quarta e quinta posizione. Poi mezzapunta e in equilibrio in quinta».

Qualcuno sbuffò e Joëlle fece finta di niente, si allontanò dalla sbarra e spostò lo sguardo sul pianista, «Didier» lo chiamò, e un momento dopo la musica invase tutta la stanza. Lei se ne stava lì: fasciata nel suo body a maniche lunghe prugna e nella gonna a portafoglio color terra – combinazione discutibile ma non del tutto sgradevole – e osservava i suoi ragazzi mentre eseguivano l’esercizio. Poi, d’improvviso, qualcosa la sembrò investire come un treno, ma nessuno si fermò. Si mise a girare tra le file di ragazzi silenziosa e indagatrice, osservando i movimenti delle braccia e delle gambe.

«Attento ai piedi, Adam» disse ad uno, poi fece qualche passo squadrando un altro ballerino e mormorò un «Roberto, le dita sono troppo tese – rilassale, santo cielo!». Si guardò attorno, qualche ruga ai lati degli occhi e sulla fronte le colorò il viso, batté le mani e urlò: «la testa, la testa dritta! Dovete guardare in avanti, concentratevi!».

In un angolo un ragazzo sciolse la posizione, scrollò le spalle e riprese la sequenza.

Non andava affatto bene. «No, fermi – fermi», attraversò con qualche falcata l’aula e si mise al centro della sala e fece un respiro come per calmarsi. L’atmosfera divenne pesante quando Didier smise di suonare il pianoforte, «spostate le sbarre, dobbiamo assolutamente fare una cosa».

Un lieve mormorio riempì la sala, ma qualche secondo dopo gli studenti stavano già obbedendo agli ordini. Quando la superficie fu libera Joëlle squadrò tutti i suoi allievi, «Reinhart, vieni al centro» e gli indicò il pavimento davanti a lei come per mostrargli il punto esatto in cui doveva sostare.

Il ragazzo si scambiò un paio di occhiaie con gli altri, poi si avvicinò.

«Voialtri allontanatevi, per favore». E fecero quello che lei aveva chiesto, una lieve brezza entrava dalle finestre semiaperte. «Reinhart, un grand jeté en tournant lungo la diagonale, cortesemente. Guardate attentamente», quindi anche lei fece un passo indietro e lasciò che il suo studente eseguisse il compito.

Quando si fermò, Joëlle si avvicinò a lui, e così gli altri. «Che cosa avete notato?» la domanda sembrava così ovvia che il silenzio che ne seguì sembrò irritarla ancora di più, «cosa c’era che non andava?» tentò di specificare.

Un alunno azzardò, «l’arabesque finale?». Tutti si voltarono verso di lui e questo arrossì.

«Sbagliato».

«Le gambe non si erano aperte abbastanza?» tentò un altro.

Joëlle sembrò inorridire, «assolutamente no!». Attese ancora qualche secondo, nessuno parlò, «Reinhart, tu hai idea di cosa hai sbagliato?» lo guardava negli occhi, in qualche modo nelle iridi dell’insegnante c’era una richiesta di supplica: dì qualcosa di intelligente, almeno tu, ti prego.

«Non credo ci fosse qualcosa di sbagliato, Madame» e si grattò una guancia, come se fosse lievemente imbarazzato dalla situazione. Madame era il modo in cui si faceva chiamare dagli allievi – il che aveva qualcosa di “vecchia scuola”, ma alla fine non risultava questo grande fastidio.

«Sbagliato!» ruggì la donna, «così non va, non va affatto! Non potete andare avanti in questo modo» una ciocca le sfuggì dalla treccia e subito Joëlle provvide  a nasconderla dietro l’orecchio, ornato da un piccolo orecchino a perla. Batté le mani un paio di volte e cercò di ricomporsi, «Reinhart: primo, secondo, terzo arabesque e poi un arabesque croisée. E ricordati che sei un ballerino» si allontanò di qualche passo dall’alunno, aggiungendo sottovoce «o almeno è quello che vorresti essere» – ma non c’era cattiveria nel commento, solo una vaga speranza che si rendesse conto dei suoi sbagli.

Alla conclusione dell’esercizio – eseguito con la massima concentrazione, questo dovette concederglielo – tutti gli occhi erano puntati sulla figura rigida della Madame, ansiosi di un commento. «Allora, di questi cosa mi dite?» chiese, i piedi della donna avevano assunto naturalmente la terza posizione, residui di anni al Balletto di Monte-Carlo.

Nessuno rispose.

«Sapete cosa c’è?» Joëlle si avvicinò alla sedia dove aveva riposto la propria borsa, da questa estrasse un paio di pantaloni di tuta e se li infilò addosso, sciogliendo poi il nodo che teneva legata attorno alla propria vita la gonnella semitrasparente, la ficcò malamente nella sacca e mise questa sulla propria spalla, «la lezione è finita. Io vado a trovare un modo per rimediare a questo guaio. E’ inammissibile che torniate dalla pausa estiva in questo modo. Siete miei alunni, diamine, non ragazzetti trovati per strada che muovono i fianchi e dicono di saper ballare». C’era un’evidente nota di disgusto nella sua voce verso qualcosa che nessuno seppe spiegarsi, ma ormai la loro insegnante era diventata un mistero a trecentosessanta gradi: tanti dubbi e niente certezze. Né su cosa volesse, né su cosa le piacesse e a momenti né su chi fosse realmente.

Fece per andarsene e, quando raggiunse la porta, uno studente – il Roberto di prima, con il suo pessimo accento italiano – la bloccò. «Madame» sembrava evidentemente intimidito dal suo portamento con le spalle dritte e l’andamento fiero, ma continuò ad esporre la sua richiesta, «possiamo almeno sapere cosa non andava? Reinhart è stato perfetto».

Un lieve brusio: la domanda aveva effettivamente senso.

«Vuoi sapere cosa non andava?» l’insegnante si girò verso gli alunni, la treccia le era ricaduta su una spalla e il ciuffo intrappolato dietro il padiglione auricolare era ritornato ribelle a contornarle la tempia, «era un palo, e lo siete tutti, dannazione. Non potete aspettare che la gente sia felice se fate un arabesque che sembra voi che vi svegliate e stiracchiate la mattina. Loro cercano perfezione. Vogliono movimenti leggiadri, eleganti, un bel sorriso e sapere che dietro quelle due ore di spettacolo c’è del lavoro, del sudore e del sangue».

«Ci sta dicendo che non abbiamo passione?» a parlare fu sempre Roberto, il quale sembrava abbastanza colpito dal discorso – come se non avesse senso.

«Proprio così: siete così fissati con la tecnica che non andate oltre. Avete il problema contrario di quei stupidi film americani sulla danza, la maggior parte disgustosi» e con uno sbuffo si girò, «a domani. E preparatevi, vi farò pentire di essere venuti qua a studiare danza».

E per spezzare la tensione Didier suonò una ninna nanna al pianoforte, facendo ridacchiare tutti.

 

 

Reinhart sospirò sfilandosi la maglia bianca, recuperando l'asciugamano e infilandosi nello spogliatoio, assieme ai suoi compagni.

Il sottofondo di borbottii e commenti, non molto gradevoli, riempiva le quattro mura dove avevano lasciato i borsoni, rovinando già dal primo giorno quella solita atmosfera piuttosto gioviale che si veniva a creare fra gli allievi.

«Reinhart, cosa c'è che non va nel tuo grand jeté en tournant?» lo ammonì scherzando il suo compagno di stanza, Brice – un francese un po' suonato, ma dopo anni trascorsi in sua compagnia aveva imparato a sopportarlo. «Nessuno lo sa? Oh, che delusione!» continuò imitando malamente la voce dell'insegnante.

«Fanculo, Brice. Non c'era niente di sbagliato in quel dannato coso» rispose Rain (lo chiamavano così, per abbreviare), sfilandosi la calzamaglia nera, «quella ha solo un gran bisogno di scopare, e sfoga la sua frustrazione su di noi» spiegò passandosi l'asciugamano fra i capelli, «non è divorziata? Sarà per quello…».

«Tu non dovresti parlare: sei il suo preferito! Non fa altro che ripetere "Reinhart, hai dei piedi bellissimi!" o "Adam, stai dritto con quella schiena! Reinhart, tu invece sei perfetto! Oh, Reinhart quanto vorrei darti delle lezioni privat–"».

«Piantala, Brice» lo interrupe lui, lanciandogli l'asciugamano sulla faccia, spostandosi verso la parte dello spogliatoio in cui erano presenti le docce – avevano un'altra lezione poco dopo, e quella conclusa in largo anticipo gli aveva lasciato il tempo di darsi una sciacquata.

S'infilò sotto il getto dell'acqua tiepida passandosi le dita fra le ciocche biondo cenere, abbandonandosi alla semplice ed intensa monotonia che aveva preso il possesso della sua vita. Era a Cannes da quando aveva nove anni, e oramai si sentiva più francese ché islandese – certo, la sua famiglia gli mancava, ma con il tempo ci aveva fatto l'abitudine, così come si era adattato al resto: era il pegno da dover pagare per poter diventare un ballerino.

«Cosa abbiamo, adesso?» gli chiese l'amico, raggiungendolo alle docce.

«Pas de deux, a quanto pare. Il lunedì sarà una tortura se non cambiano le lezioni» rispose mentre si insaponava i capelli per la prima volta in quella giornata – ce ne sarebbero state altre quattro o cinque, oramai sapeva anche questo. Dopotutto non potevano presentarsi alla lezione successiva sudati e sporchi, non con il regime instaurato nell'Accademia.

«Secondo te domani ci farà veramente pentire dell'errore introvabile ed inesistente del tuo grand jeté en tournant? Per non parlare che abbiamo sbagliato anche i suoi tanto cari pliés. E addirittura i banalissimi arabesque!» domandò Brice, tentando di instaurare una conversazione, sebbene Rain non gli sembrasse dell'umore adatto, quella mattina. Non erano mai andati tanto d'accordo, il loro era un rapporto di amore ed odio, e forse anche di interesse. Si sopportavano per necessità, ma nulla di più.

«Probabilmente sì, ma chi se ne frega» borbottò rimuovendo la schiuma dalla testa, scivolando subito dopo fuori dall'acqua per andare a recuperare un asciugamano pulito. Alla fine non gli importava davvero: era lì per ballare, e se tutto fosse andato bene quello sarebbe stato l'ultimo anno in quella scuola. Una compagnia lo avrebbe notato e preso con sé e lui avrebbe coronato il suo sogno.

«Dici così perché tu sei intoccabile, per lei almeno» si lamentò l’altro, facendolo irritare ancora di più di quanto già non lo fosse.

Non era vero che era intoccabile, come non era vero che era il preferito di quella megera che li seguiva dal loro arrivo lì: era esattamente come tutti gli altri, se non in una situazione peggiore dato che la sua famiglia faticava a pagare le rette annuali.

Ma su una cosa Brice aveva ragione: Joëlle avrebbe trovato il modo di distruggerli e umiliarli, aveva imparato anche questo.

 

 

La luce soffusa disegnava strane ombre sul parquet chiaro mentre la sua immagine allo specchio volteggiava per la sala, ripetendo un'infinità di volte quel dannatissimo gran jeté en tournant. Voleva capire cosa non andasse, se davvero era la passione a mancargli, ma quanto più si ostinava a riprodurre quei passi, tanto meno comprendeva dove stesse il problema. Sospirò chinandosi un po' in avanti, passando le dita fra i capelli sudati – gli sarebbe servita una doccia in più, quella volta.

Quel "non avete passione" gli risuonava nella testa con la stessa intensità della deflagrazione di un proiettile sparato in una cattedrale: tuonava, rimbombava, e da un lato gli faceva anche male. Se non aveva passione, se era quella che gli mancava, allora tanto valeva che qualcuno si fosse preso la briga di dirglielo prima, quando ancora era bambino e non aveva speso l'infanzia e l'adolescenza in un luogo così lontano da casa.

Magari era incazzata e se l'è semplicemente presa con noi, si ritrovò a pensare tentando di giustificarsi, di auto convincersi che il problema non era lui, e che non aveva sbagliato quel maledetto passo. Magari era davvero così.

Scattò guardando il suo riflesso nella specchiera, ricordando con un sorriso che era in quei riverberi che si era visto crescere – ogni anno era sempre un po' più grande, un po' meno bambino e più uomo: un po' più ballerino.

Viveva per quello, oramai. Non sapeva fare nient'altro se non danzare, e il pensiero di fallire gli faceva venire voglia di urlare. Fissò gli occhi castani – ereditati dalla madre inglese – sulla sua figura, poi serrò le palpebre e fece un respiro profondo, ripetendo per l'ennesima volta l'esercizio.

Continuò così per minuti, forse ore, e quando il sonno incominciò a farsi sentire si lasciò andare sul pavimento, cercando di recuperare il fiato perso.

Non era vero che non aveva passione: lo sentiva dalla musica che ogni tanto gli risuonava nelle orecchie, dai passi sconclusionati che ogni tanto abbozzava involontariamente, reggendosi a qualche corrimano.

Non era vero: lui era un ballerino, e non sarebbe mai stato nient'altro.

 

 

 

 

«Per arrivare in cima dovrai trovare una cosa che… non imparerai a lezione»

«Che cosa?» «Ecco… la passione, il fuoco!» «Il fuoco?»

«Vuoi diventare il ragazzo che ha la folla ai suoi piedi?»

«Sì, lo voglio. Ma… come faccio a diventarlo?»

«Devi andare oltre: trova la persona speciale, oppure la cosa che ti emoziona davvero»

Cooper & Tommy, Center Stage 2: Turn It Up

 

 

 

 

 

 

WE LIVE AND BREATHE WORDS – note d’autrici.

 

 

Abbiamo aggiornato prestissimo, ma non sarà sempre così, purtroppo.

Non abbiamo nulla di particolare da dire, riguardo a questo capitolo.

Per i passi di danza ci siamo documentate in giro, e in più la saggia Iysse ci ha aiutate, e la ringraziamo molto per questo. C'è comunque molta Licenza Poetica, noi non abbiamo studiato danza a Cannes, quindi ci siamo fatte un'infarinatura generale sull'Accademia e le lezioni, ma - per esempio - non sappiamo se facciano o meno la doccia nei bagni comuni, per dirvi.

Per il momento vi lasciamo il volto di Rain – anche se lo trovate là in alto, nel bellissimo banner.

 

E niente, il resto si vedrà. ~ Diamo la linea al telegiornale.

papavero radioattivo.

   
 
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