Non sapeva fare nient'altro se non
danzare.
▪
CAPITOLO I ▪
Cannes, Costa
Azzurra. Settembre 2012
Il
sole splendeva, illuminando la sala numero 6 della scuola di un’aura nuova,
come a voler dire: «quest’anno sarà diverso».
Invece
di diverso non c’era nulla: Joëlle Boulogne se ne stava nel suo angolino vicino al pianista,
mentre osservava i suoi alunni prendere posto alla sbarra per scaldarsi. Era
una sequenza continua di calze nere e maglie bianche, quella monotonia la
rilassava.
Quando
finalmente tutto fu pronto per la lezione ed i suoi alunni le rivolsero uno
sguardo d’assenso, la donna prese posto nella sbarra centrale rivolta verso lo
specchio «iniziamo dai pliés»
annunciò, la voce chiara aveva qualcosa di autoritario. Si spostò la lunga
treccia nera sulla schiena e fece seguire all’elenco dei passi anche un abbozzo
dei movimenti, «demi-pliés
e stendere, demi-pliés
e stendere, – vi era una piccola variazione delle braccia – grand-pliés e tornare, port de bras avanti
e port de bras
indietro». Si girò verso i ragazzi e abbozzò un sorriso a metà tra sfida e
compiacimento, «in seconda, quarta e quinta posizione. Poi mezzapunta e in
equilibrio in quinta».
Qualcuno
sbuffò e Joëlle fece finta di niente, si allontanò
dalla sbarra e spostò lo sguardo sul pianista, «Didier»
lo chiamò, e un momento dopo la musica invase tutta la stanza. Lei se ne stava
lì: fasciata nel suo body a maniche lunghe prugna e nella gonna a portafoglio
color terra – combinazione discutibile ma non del tutto sgradevole – e
osservava i suoi ragazzi mentre
eseguivano l’esercizio. Poi, d’improvviso, qualcosa la sembrò investire come un
treno, ma nessuno si fermò. Si mise a girare tra le file di ragazzi silenziosa
e indagatrice, osservando i movimenti delle braccia e delle gambe.
«Attento
ai piedi, Adam» disse ad uno, poi fece qualche passo
squadrando un altro ballerino e mormorò un «Roberto, le dita sono troppo tese –
rilassale, santo cielo!». Si guardò attorno, qualche ruga ai lati degli occhi e
sulla fronte le colorò il viso, batté le mani e urlò: «la testa, la testa
dritta! Dovete guardare in avanti, concentratevi!».
In
un angolo un ragazzo sciolse la posizione, scrollò le spalle e riprese la
sequenza.
Non
andava affatto bene. «No, fermi – fermi», attraversò con qualche falcata l’aula
e si mise al centro della sala e fece un respiro come per calmarsi. L’atmosfera
divenne pesante quando Didier smise di suonare il
pianoforte, «spostate le sbarre, dobbiamo assolutamente
fare una cosa».
Un
lieve mormorio riempì la sala, ma qualche secondo dopo gli studenti stavano già
obbedendo agli ordini. Quando la superficie fu libera Joëlle
squadrò tutti i suoi allievi, «Reinhart, vieni al
centro» e gli indicò il pavimento davanti a lei come per mostrargli il punto
esatto in cui doveva sostare.
Il
ragazzo si scambiò un paio di occhiaie con gli altri, poi si avvicinò.
«Voialtri
allontanatevi, per favore». E fecero quello che lei aveva chiesto, una lieve
brezza entrava dalle finestre semiaperte. «Reinhart,
un grand jeté en tournant lungo la diagonale, cortesemente. Guardate
attentamente», quindi anche lei fece un passo indietro e lasciò che il suo
studente eseguisse il compito.
Quando
si fermò, Joëlle si avvicinò a lui, e così gli altri.
«Che cosa avete notato?» la domanda sembrava così ovvia che il silenzio che ne
seguì sembrò irritarla ancora di più, «cosa c’era che non andava?» tentò di
specificare.
Un
alunno azzardò, «l’arabesque finale?».
Tutti si voltarono verso di lui e questo arrossì.
«Sbagliato».
«Le
gambe non si erano aperte abbastanza?» tentò un altro.
Joëlle sembrò
inorridire, «assolutamente no!». Attese ancora qualche secondo, nessuno parlò, «Reinhart, tu hai idea di cosa hai sbagliato?» lo guardava
negli occhi, in qualche modo nelle iridi dell’insegnante c’era una richiesta di
supplica: dì qualcosa di intelligente, almeno
tu, ti prego.
«Non
credo ci fosse qualcosa di sbagliato, Madame»
e si grattò una guancia, come se fosse lievemente imbarazzato dalla situazione.
Madame era il modo in cui si faceva
chiamare dagli allievi – il che aveva qualcosa di “vecchia scuola”, ma alla
fine non risultava questo grande fastidio.
«Sbagliato!» ruggì la donna, «così non
va, non va affatto! Non potete andare
avanti in questo modo» una ciocca le sfuggì dalla treccia e subito Joëlle provvide a
nasconderla dietro l’orecchio, ornato da un piccolo orecchino a perla. Batté le
mani un paio di volte e cercò di ricomporsi, «Reinhart:
primo, secondo, terzo arabesque e poi
un arabesque croisée.
E ricordati che sei un ballerino» si
allontanò di qualche passo dall’alunno, aggiungendo sottovoce «o almeno è
quello che vorresti essere» – ma non c’era cattiveria nel commento, solo una
vaga speranza che si rendesse conto dei suoi sbagli.
Alla
conclusione dell’esercizio – eseguito con la massima concentrazione, questo
dovette concederglielo – tutti gli occhi erano puntati sulla figura rigida
della Madame, ansiosi di un commento.
«Allora, di questi cosa mi dite?» chiese, i piedi della donna avevano assunto
naturalmente la terza posizione,
residui di anni al Balletto di Monte-Carlo.
Nessuno
rispose.
«Sapete
cosa c’è?» Joëlle si avvicinò alla sedia dove aveva
riposto la propria borsa, da questa estrasse un paio di pantaloni di tuta e se
li infilò addosso, sciogliendo poi il nodo che teneva legata attorno alla
propria vita la gonnella semitrasparente, la ficcò malamente nella sacca e mise
questa sulla propria spalla, «la lezione è finita. Io vado a trovare un modo
per rimediare a questo guaio. E’ inammissibile che torniate dalla pausa estiva
in questo modo. Siete miei alunni, diamine, non ragazzetti trovati per strada
che muovono i fianchi e dicono di saper ballare». C’era un’evidente nota di disgusto
nella sua voce verso qualcosa che nessuno seppe spiegarsi, ma ormai la loro
insegnante era diventata un mistero a trecentosessanta gradi: tanti dubbi e
niente certezze. Né su cosa volesse, né su cosa le piacesse e a momenti né su
chi fosse realmente.
Fece
per andarsene e, quando raggiunse la porta, uno studente – il Roberto di prima,
con il suo pessimo accento italiano – la bloccò. «Madame…» sembrava evidentemente
intimidito dal suo portamento con le spalle dritte e l’andamento fiero, ma continuò
ad esporre la sua richiesta, «possiamo almeno sapere cosa non andava? Reinhart è stato perfetto».
Un
lieve brusio: la domanda aveva effettivamente senso.
«Vuoi
sapere cosa non andava?» l’insegnante si girò verso gli alunni, la treccia le
era ricaduta su una spalla e il ciuffo intrappolato dietro il padiglione
auricolare era ritornato ribelle a contornarle la tempia, «era un palo, e lo
siete tutti, dannazione. Non potete
aspettare che la gente sia felice se fate un arabesque che sembra voi che vi svegliate e stiracchiate la
mattina. Loro cercano perfezione.
Vogliono movimenti leggiadri, eleganti, un bel sorriso e sapere che dietro
quelle due ore di spettacolo c’è del lavoro, del sudore e del sangue».
«Ci
sta dicendo che non abbiamo passione?» a parlare fu sempre Roberto, il quale
sembrava abbastanza colpito dal discorso – come se non avesse senso.
«Proprio
così: siete così fissati con la tecnica che non andate oltre. Avete il problema
contrario di quei stupidi film americani sulla danza, la maggior parte
disgustosi» e con uno sbuffo si girò, «a domani. E preparatevi, vi farò pentire
di essere venuti qua a studiare danza».
E
per spezzare la tensione Didier suonò una ninna nanna
al pianoforte, facendo ridacchiare tutti.
Reinhart sospirò
sfilandosi la maglia bianca, recuperando l'asciugamano e infilandosi nello
spogliatoio, assieme ai suoi compagni.
Il
sottofondo di borbottii e commenti, non molto gradevoli, riempiva le quattro
mura dove avevano lasciato i borsoni, rovinando già dal primo giorno quella
solita atmosfera piuttosto gioviale che si veniva a creare fra gli allievi.
«Reinhart, cosa c'è che non va nel tuo grand
jeté en tournant?» lo
ammonì scherzando il suo compagno di stanza, Brice –
un francese un po' suonato, ma dopo anni trascorsi in sua compagnia aveva
imparato a sopportarlo. «Nessuno lo sa? Oh, che delusione!» continuò imitando
malamente la voce dell'insegnante.
«Fanculo, Brice. Non c'era niente
di sbagliato in quel dannato coso» rispose Rain (lo
chiamavano così, per abbreviare), sfilandosi la calzamaglia nera, «quella ha
solo un gran bisogno di scopare, e sfoga la sua frustrazione su di noi» spiegò
passandosi l'asciugamano fra i capelli, «non è divorziata? Sarà per quello…».
«Tu
non dovresti parlare: sei il suo preferito! Non fa altro che ripetere "Reinhart, hai dei piedi bellissimi!" o "Adam, stai dritto con quella schiena! Reinhart,
tu invece sei perfetto! Oh, Reinhart quanto vorrei
darti delle lezioni privat–"».
«Piantala,
Brice» lo interrupe lui, lanciandogli l'asciugamano
sulla faccia, spostandosi verso la parte dello spogliatoio in cui erano
presenti le docce – avevano un'altra lezione poco dopo, e quella conclusa in largo
anticipo gli aveva lasciato il tempo di darsi una sciacquata.
S'infilò
sotto il getto dell'acqua tiepida passandosi le dita fra le ciocche biondo
cenere, abbandonandosi alla semplice ed intensa monotonia che aveva preso il
possesso della sua vita. Era a Cannes da quando aveva nove anni, e oramai si
sentiva più francese ché islandese – certo, la sua famiglia gli mancava, ma con
il tempo ci aveva fatto l'abitudine, così come si era adattato al resto: era il
pegno da dover pagare per poter diventare un ballerino.
«Cosa
abbiamo, adesso?» gli chiese l'amico, raggiungendolo alle docce.
«Pas de deux, a
quanto pare. Il lunedì sarà una tortura se non cambiano le lezioni» rispose
mentre si insaponava i capelli per la prima volta in quella giornata – ce ne
sarebbero state altre quattro o cinque, oramai sapeva anche questo. Dopotutto
non potevano presentarsi alla lezione successiva sudati e sporchi, non con il
regime instaurato nell'Accademia.
«Secondo
te domani ci farà veramente pentire dell'errore introvabile ed inesistente del
tuo grand jeté en tournant? Per non parlare che abbiamo sbagliato anche i
suoi tanto cari pliés.
E addirittura i banalissimi arabesque!»
domandò Brice, tentando di instaurare una conversazione,
sebbene Rain non gli sembrasse dell'umore adatto,
quella mattina. Non erano mai andati tanto d'accordo, il loro era un rapporto
di amore ed odio, e forse anche di interesse. Si sopportavano per necessità, ma
nulla di più.
«Probabilmente
sì, ma chi se ne frega» borbottò rimuovendo la schiuma dalla testa, scivolando
subito dopo fuori dall'acqua per andare a recuperare un asciugamano pulito.
Alla fine non gli importava davvero: era lì per ballare, e se tutto fosse
andato bene quello sarebbe stato l'ultimo anno in quella scuola. Una compagnia
lo avrebbe notato e preso con sé e lui avrebbe coronato il suo sogno.
«Dici
così perché tu sei intoccabile, per lei almeno» si lamentò l’altro, facendolo
irritare ancora di più di quanto già non lo fosse.
Non
era vero che era intoccabile, come non era vero che era il preferito di quella
megera che li seguiva dal loro arrivo lì: era esattamente come tutti gli altri,
se non in una situazione peggiore dato che la sua famiglia faticava a pagare le
rette annuali.
Ma
su una cosa Brice aveva ragione: Joëlle
avrebbe trovato il modo di distruggerli e umiliarli, aveva imparato anche
questo.
La
luce soffusa disegnava strane ombre sul parquet chiaro mentre la sua immagine
allo specchio volteggiava per la sala, ripetendo un'infinità di volte quel
dannatissimo gran jeté
en tournant. Voleva capire cosa non andasse, se
davvero era la passione a mancargli, ma quanto più si ostinava a riprodurre
quei passi, tanto meno comprendeva dove stesse il problema. Sospirò chinandosi
un po' in avanti, passando le dita fra i capelli sudati – gli sarebbe servita
una doccia in più, quella volta.
Quel
"non avete passione" gli risuonava nella testa con la stessa
intensità della deflagrazione di un proiettile sparato in una cattedrale:
tuonava, rimbombava, e da un lato gli faceva anche male. Se non aveva passione,
se era quella che gli mancava, allora tanto valeva che qualcuno si fosse preso
la briga di dirglielo prima, quando ancora era bambino e non aveva speso
l'infanzia e l'adolescenza in un luogo così lontano da casa.
Magari
era incazzata e se l'è semplicemente presa con noi, si ritrovò a
pensare tentando di giustificarsi, di auto convincersi che il problema non era
lui, e che non aveva sbagliato quel maledetto passo. Magari era davvero così.
Scattò
guardando il suo riflesso nella specchiera, ricordando con un sorriso che era
in quei riverberi che si era visto crescere – ogni anno era sempre un po' più
grande, un po' meno bambino e più uomo: un po' più ballerino.
Viveva
per quello, oramai. Non sapeva fare nient'altro se non danzare, e il pensiero
di fallire gli faceva venire voglia di urlare. Fissò gli occhi castani –
ereditati dalla madre inglese – sulla sua figura, poi serrò le palpebre e fece
un respiro profondo, ripetendo per l'ennesima volta l'esercizio.
Continuò
così per minuti, forse ore, e quando il sonno incominciò a farsi sentire si
lasciò andare sul pavimento, cercando di recuperare il fiato perso.
Non
era vero che non aveva passione: lo sentiva dalla musica che ogni tanto gli
risuonava nelle orecchie, dai passi sconclusionati che ogni tanto abbozzava
involontariamente, reggendosi a qualche corrimano.
Non
era vero: lui era un ballerino, e non sarebbe mai stato nient'altro.
«Per
arrivare in cima dovrai trovare una cosa che… non
imparerai a lezione»
«Che
cosa?» «Ecco… la passione, il fuoco!» «Il fuoco?»
«Vuoi
diventare il ragazzo che ha la folla ai suoi piedi?»
«Sì, lo
voglio. Ma… come faccio a diventarlo?»
«Devi
andare oltre: trova la persona speciale, oppure la cosa che ti emoziona davvero»
– Cooper & Tommy, Center Stage 2: Turn It Up
–
WE LIVE AND BREATHE WORDS – note
d’autrici.
Abbiamo aggiornato prestissimo, ma non
sarà sempre così, purtroppo.
Non abbiamo nulla di particolare da dire,
riguardo a questo capitolo.
Per i passi di danza ci siamo documentate
in giro, e in più la saggia Iysse ci ha aiutate, e la ringraziamo molto per questo. C'è
comunque molta Licenza Poetica, noi non abbiamo studiato danza a Cannes, quindi
ci siamo fatte un'infarinatura generale sull'Accademia e le lezioni, ma - per
esempio - non sappiamo se facciano o meno la doccia nei bagni comuni, per
dirvi.
Per il momento vi lasciamo il volto
di Rain – anche se lo trovate là in alto, nel
bellissimo banner.
E niente, il resto si vedrà. ~ Diamo la
linea al telegiornale.
papavero radioattivo.