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Autore: BlackEyedSheeps    10/01/2014    3 recensioni
“E’ tutto a posto, vero?”
“Sono in vacanza. Cosa potrebbe andare storto? A parte i vicini di casa che decidono di trapanare i muri alle sette del mattino…”

Clint, ancora perseguitato dai superstiti demoni degli eventi di New York, è sempre più isolato. Quando la situazione tocca il fondo, Natasha decide di intervenire, rifiutandosi di restare a guardare. Ma anche lei dovrà fare i conti con i postumi della battaglia degli Avengers...
[Clint/Natasha] [Post-The Avengers]
Genere: Angst, Erotico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Compromised'
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CAPITOLO 3

 

Shout, shout, let it all out
These are the things I can do without
Come on - I'm talking to you
Come on

(Shout - Tears for Fears)

 

Ira

 

Un fiocco di neve le sfuggì dai capelli e andò a posarsi sulla foto del colonnato di piazza San Pietro, a Roma, che giaceva sul pavimento. Nonostante avesse trascorso le ultime due ore in balia delle intemperie della notte, che ormai si faceva giorno, nonostante quell'oggetto fuori posto le assicurasse che Clint era tornato al cottage prima di lei, un brivido le corse giù per la schiena. Una sensazione tanto orribile quanto chiara.

 

Rinunciò a raccogliere la cartolina che Coulson le aveva inviato anni prima, rinunciò a togliersi la giacca pesante e gli stivali foderati di pelliccia che aveva indossato per uscire alla ricerca di Clint, rinunciò a respirare finché non ebbe raggiunto la porta della cantina.

 

La maniglia le sembrò innaturalmente gelida al contatto con le sue dita. Il petto aveva cominciato a bruciare intensamente nello sforzo di trattenere il fiato. Esercitò un'incerta, tentennante pressione verso il basso: la serratura non oppose alcuna resistenza. Il cigolio della porta che ruotava sui cardini fu sufficiente a farle capire che Clint aveva superato il limite.

 

Concesse tregua ai propri polmoni, permise all'aria intrisa di alcool, sudore e umido di riempirle il naso e la bocca. L'attimo che le ci volle per individuarlo, seduto a terra, la testa abbandonata contro il muro, parve protrarsi fino all'infinito. Il cuore interruppe il suo folle martellio, abbandonandola sulla soglia dei peggiori incubi di Clint Barton.

 

A mente lucida, la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata – nell'ordine – preoccuparsi, riflettere, escogitare una soluzione in diverse fasi, qualcosa che l'aiutasse a mantenere il controllo sulla situazione, ad affrontare un problema alla volta, senza lasciarsene sopraffare.

 

Ma quello non era il caso. Le guance arse dal freddo, i muscoli tesi ed esausti per la lunga, inutile camminata tra le nevi circostanti, le palpebre pesanti per un sonno che tardava a arrivare: un principio di rabbia, sorda e inaspettata, si fece sentire nel suo stomaco. Man mano che i secondi passavano si faceva più chiara, insistente, ingombrante... strinse i pugni e serrò le labbra scarlatte, come per impedire all'ira di emergere, per non darle alcuna possibilità di sfogo.

 

Si levò il giaccone con un movimento calibrato, quasi meccanico. L'appoggiò sulla pila di scatoloni addossati alla parete più vicina a lei e si decise ad affrontare Clint, dovendo fare appello ad ogni briciolo di energia che le rimaneva per tenere a bada qualsiasi reazione spropositata (pensò a Bruce Banner, all'Altro, alla maledizione che si portava dietro, ricordò il terrore che l'aveva colta quando si era accorta di essere rimasta sola, sull'Helicarrier, in compagnia della Rabbia fatta carne ed ossa).

 

“Clint”, lo richiamò seccamente, la voce che, miracolosamente, tradiva solo un vago fastidio.

Lo vide sollevare le palpebre con estrema fatica, combattere con il rollio di onde inesistenti che gli impedivano di tenere dritto il collo, sorriderle infine con aria tutt'altro che consapevole.

“Tasha...” sussurrò in un biascichio appena comprensibile. “Tasha... m-mi... mi 'iace.”

 

Non gli chiese il permesso di afferrarlo sotto un braccio e tirarlo su a forza: lo fece e basta. Lo sentì sbuffare, lamentoso, del tutto contrariato dallo spostamento. Prese a trascinarlo fuori dalla cantina, sorreggendo il suo peso come meglio poté. Urtò con la punta del piede una bottiglia di rum ammezzata: rotolò sotto un vecchio comodino scrostato che era appartenuto ai precedenti proprietari del cottage. Sparì alla vista e Natasha se ne dimenticò prontamente, troppo presa dalla muscolosa mole di Clint, praticamente inerte nella sua ferrea stretta.

 

Riuscì a fargli raggiungere il salotto, ad evitare una caduta giù per i pochi gradini che conducevano nel sottosuolo, ma non sfiorò neppure la possibilità di farlo arrivare sano e salvo fino alla camera da letto al secondo piano. Lo aiutò a coricarsi sul divano che ormai aveva preso la forma delle sue curve, lo aiutò a spogliarsi del maglione pesante che ancora indossava, lo coprì con la coperta piegata ordinatamente sul poggiapiedi che affiancava il tavolino da caffè.

 

Tra un sussurro sconclusionato e l'altro, Clint non tardò ad addormentarsi.

 

***

 

Il sole stava tramontando tra le morbide pieghe nevose dei rilievi che circondavano il cottage. Natasha arrestò il motore dopo aver effettuato uno sgangherato parcheggio nel vialetto di ghiaia che si snodava dal portico fino a perdersi tra gli alberi. Scese dal grosso fuoristrada per andare a recuperare i sacchetti della spesa che aveva sistemato sul sedile del passeggero, dopodiché percorse i pochi metri che la separavano dall'ingresso dell'abitazione.

 

La prima cosa che notò, non appena il calore dell'interno l'ebbe avvolta, fu la borsa di Clint. Il suo proprietario, seduto al tavolo della cucina, si voltò verso di lei un attimo dopo. Sembrava che quell'intera giornata di sonno bruscamente recuperato, gli avesse fatto più disservizi che favori. La barba si era allungata ancora, i capelli erano spettinati, l'espressione indecifrabile. Per un istante ebbe l'impressione di aver sorpreso uno sconosciuto in casa propria.

 

Tentò di richiamare a sé comprensione, mansuetudine, solidarietà... tutto quello che ottenne fu di trattenere lo slancio furibondo che premeva follemente per catapultarla verso di lui con intenti non molto nobili.

 

Le sembrò sul punto di dire qualcosa, ma – particolare che non la sorprese affatto – dalle sue labbra dischiuse non uscì alcun suono. Rispose a quell'ormai familiare silenzio con uno schiocco della lingua, subito seguito dal chiudersi violento della porta alle sue spalle. Ignorò Clint e raggiunse la cucina a passo di marcia per appoggiare le buste della spesa sul tavolo. Solo quando se ne fu liberata si decise a togliersi il giaccone che le ingombrava i movimenti. Non fece in tempo a sistemarlo sullo schienale dell'unica sedia libera, che la mano di Clint fu sulla sua. Il palmo umido e incerto riuscì solamente a sfiorarla: Natasha ritrasse bruscamente la mano, come scottata, ma con intenzione.

 

“Non mi toccare”, sibilò prima di potersene rendere conto. Era come se Clint si fosse azzardato a lanciare un sassolino sulla superficie apparentemente calma della sua pelle, scatenando una catastrofe. Le acque si increspavano e ribollivano al di sotto della porcellana del suo viso, delle sue mani, del suo collo. La consapevolezza di essere ad un misero passo dal baratro, poi, contribuiva solamente a farla infuriare ancora di più: Natasha Romanoff non era un essere umano in preda al caos della propria natura, non sguazzava nell'incertezza, non si beava degli imprevisti e di certo non le capitava spesso di non riuscire a dominare i propri istinti. Si vantava di essere metodica, fredda, glaciale nel suo lavoro. Tutta la sua persona era un filtro tra la confusione del mondo esterno e la chiara e limpida organizzazione della sua mente. Natasha non si arrabbiava mai così tanto, Natasha non alzava mai la voce: tutto quello che faceva, lo faceva perché ci aveva riflettuto. A prescindere dal loro livello di ragionevolezza, i suoi comportamenti erano sempre calcolati, mai casuali o gratuiti.

 

Quello, però, non era il caso. Il suo personalissimo mondo di etichette, compartimenti stagni, cassetti e casseforti con cui tentava di dar senso alle cose, si era rovesciato su se stesso, si era andato a schiantare contro il punto interrogativo che erano la vita e la persona di Clint Barton.

 

Si allontanò per andare a sfilarsi gli stivali ancora sporchi di neve accanto al camino: aveva lasciato impronte dappertutto. Si maledisse per quella disattenzione. L'uomo si era rimesso in piedi, il senso di colpa e la vergogna attaccati addosso così come l'odore pungente dell'alcool che ancora emanava, maldestramente soffocato dal profumo di quello che Natasha riconobbe come il suo bagnoschiuma.

 

“Me ne vado”, le annunciò dopo qualche istante di scomodo silenzio. Le parti si erano invertite: adesso era lei che lo ignorava e lui quello che le si muoveva nervosamente attorno senza sapere cosa aspettarsi.

“Sì, vai”, convenne lei. “Scappa”, asserì in quello che voleva essere un tono piatto e freddo, ma che invece le uscì tremante, pieno di rabbia mal repressa, “dopotutto, mi pare, è quello che sai fare meglio.”

 

Gli occhi di Clint accennarono a sgranarsi, ma il movimento si esaurì a metà dell'operazione. Incassò il colpo, valutò una risposta, gettò la spugna poco dopo. Distolse lo sguardo e accennò a recuperare delle sue cose, per andarsene una volta per tutte. Stava facendo esattamente quello che Natasha gli aveva appena suggerito di fare, il che non ebbe altro effetto su di lei se non quello di farla infuriare ancora di più.

 

“Lo sai?” Riprese, la voce più acuta del normale, le parole che le si formavano sulle labbra con o senza il consenso del suo cervello. “Phil si sbagliava sul tuo conto. Tutti si sbagliavano sul tuo conto... sei un fottuto codardo, ecco cosa sei.” Non se ne accorse subito, ma stava cercando di scuoterlo, di fargli male: se, dopotutto, il silenzio non aveva sortito alcun effetto, perché non provare col suo esatto opposto?

 

“Cos'è, un nuovo tipo di terapia?” Domandò lui. La sua voce e la sua postura trasudavano stanchezza.

“No, questa sono io. Io che ti dico cosa penso esattamente di questo.”

Clint sbuffò, mentre una tensione appena accennata cominciava a delinearsi ai lati del suo collo.

“Non m'interessa sapere che cosa pensi.”

“Non me ne frega un cazzo di quello che ti interessa o non ti interessa,” puntualizzò. La diga che tratteneva la sua rabbia cominciava a dare i primi segni di cedimento.

“Fantastico. Allora forse non avresti dovuto portarmi fin qui.”

“Già, probabilmente non avrei dovuto.”

“Bene. Me ne vado.”

 

Scattò in avanti prima di poterlo programmare: gli strappò la giacca di mano e la gettò a terra di malo modo.

 

“Siamo una squadra”, lo accusò a viso aperto.

“In questo momento? Non mi sembra”, obiettò lui, confuso e deluso al tempo stesso.

“Lo sai perché non siamo una squadra? Perché tu l'hai dimenticato”, lo avvicinò di un passo, troppo presa dall'ira che le ribolliva in petto per fermarsi. “Ti sei dimenticato di me, ti sei dimenticato di tutto, e invece che parlarne e affrontare il problema a testa alta, hai deciso di andare a rintanarti da solo con te stesso... a fare chissà che cosa. E ora questo!” Indicò vagamente il punto in cui si trovavano le scale che conducevano alla cantina dove l'aveva trovato alle porte dell'alba, svariate ore prima. “Vieni qui e... e r-risprofondi nei tuoi vizi mentre ti trovi in casa mia?” Ignorò l'incertezza, calcò la voce sull'ultima parola, come per rimediare alla mancanza.

 

Adesso, non c'erano che pochi centimetri a separarli. La vicinanza non le dava fastidio, anzi, non faceva altro che alimentare il suo stato d'animo, come se lo schiamazzante caos che aveva sempre associato a Clint, la stesse in qualche modo contagiando.

 

“Hai ragione. Non avrei dovuto farlo in casa tua.”

 

Non ebbe il tempo di registrare la cosa, che aveva sollevato un pugno per colpirlo in pieno volto. Il gesto fu goffo e plateale: Clint non ebbe alcun problema a bloccarle il polso a mezz'aria, prima ancora che le sue dita si potessero chiudere definitivamente su loro stesse. Tanto la reazione di lei, quanto quella di lui risultarono istintive, memoria irrevocabilmente iscritta nei loro muscoli di spie.

 

“Vuoi colpirmi? Davvero? Pensi che possa farmi stare meglio?” La provocò.

“Perché mi dovrebbe importare di come stai tu, quando ogni tuo singolo gesto non ha il benché minimo rispetto verso di me?” Sibilò in risposta, sporgendosi verso il suo viso, tanto da sfiorargli il naso con la punta del proprio. “Quando mi hai trovata, all'inizio, ti sei messo a blaterare di tante belle e stupide cose... cos'avrei dovuto fare, cosa non avrei dovuto fare, cosa mi conveniva. Il tuo triste passato e di come lo SHIELD ti avesse dato una chance di redenzione”, gli vomitò addosso tutte quelle parole, arrabbiata, tradita, delusa. “E adesso che la situazione è invertita tutto quello che riesci a fare è sfuggirmi? Evitarmi? Non mi guardi negli occhi, non mi rivolgi la parola... e adesso mi scarichi addosso la colpa di averti permesso di ubriacarti come un adolescente del cazzo che non riesce a trattenersi!” Le guance avevano preso improvvisamente colore, i suoi occhi verdi una luce terribile, le sue labbra una smorfia animalesca.

 

Agitò il polso che ancora le teneva stretto, lo colpì in pieno volto con l'altra mano, senza preoccuparsi di dosare la forza. La mandibola di lui scricchiolò sotto la violenza dell'urto. Un secondo ancora e si ritrovò schiacciata sul divano, entrambi i polsi immobilizzati sopra la testa, un ginocchio piantato tra le costole ad impedirle un qualsiasi movimento. Sentiva il suo cuore vicinissimo, lo scorrere, quasi, del suo sangue nelle vene, l'odore del suo corpo, quello stesso odore che si dibatteva per liberarsi da quello dell'alcool, nel disperato tentativo di riaffermare la propria identità.

 

Gli occhi di Clint parvero velarsi, per un istante soltanto, di cieca furia. Ma gli bastò un attimo per accorgersi di quello che stava facendo, di averla scaraventata tra i cuscini senza farsi troppi scrupoli, di averla piegata, con la forza, al proprio volere.

 

Il pensiero di Natasha corse immediatamente al loro scontro sull'Helicarrier, ed era piuttosto sicura che anche quello di Clint fosse andato a finire laggiù, perché, prima che se ne potesse rendere conto, si era rimesso in piedi, allontanato a grandi passi da lei, un'espressione turbata sul volto. Una nuova, improvvisa consapevolezza si impossessò di lei.

 

“Ti senti in colpa”, dichiarò con ferrea certezza. Si rimise in piedi, troppo presa dalla scoperta per riuscire a rispettare i confini che Clint, ne era sicura, avrebbe voluto imporle. Tornò a farglisi vicina, non gli dette tregua. “Verso di me, non è così? Per quello che Loki ti aveva ordinato di fare, quello che avresti fatto se non te l'avessi impedito”, continuò, insistente, insopportabile. “Fammi indovinare... mi uccidi ogni notte.”

Credi che non sappia una cosa o due, sugli incubi, Clint? Abbassò la voce, cancellando di volta in volta la misera distanza che Clint cercava di imporre tra i loro corpi, un passo indietro dopo l'altro. “Lentamente... intimamente...” ricordava le parole a memoria, “perché è così che mi fa paura.”

 

Clint si bloccò bruscamente: il bancone della cucina gli impediva di allontanarsi ulteriormente.

 

“Non capisci, Clint?” Lo vide fremere quando pronunciò il suo nome, ma non se ne preoccupò: si era guadagnata il sacrosanto diritto di farlo. “Non lo vedi? Io sono qui. Tu non mi hai uccisa. Io te l'ho impedito perché è questo che fanno i partner, si parano il culo a vicenda! Pensi seriamente che ti avrei permesso di uccidermi mentre eri sotto l'effetto di quel mostro?” Accennò a prendergli il viso tra le mani, ispirata da chissà che incomprensibile slancio, ma Clint si sottrasse al contatto, sgusciando di lato per liberarsi della sua incombente e soffocante presenza.

 

“No. Sei tu che non capisci”, le ritorse contro l'accusa. “Non sai cos'ho visto, non sai che cosa gli ho detto, non sai che razza di piani avesse per te e per me, non lo sai e non lo puoi sapere!”

“Lo saprei se tu ti decidessi a parlarmene!”

“Perché dovrei? Stavo per ucciderti!”

“Ma sono ancora viva!”

“Ma stavo per ucciderti comunque!” Le loro voci si erano alzate in un crescendo progressivo. “Chi ti assicura che lui non sia ancora da qualche parte, nella mia testa, che non stia aspettando il momento giusto per portare a termine ciò che aveva iniziato? Solo per ristabilire chissà che razza di dominio sulla mia testa!”

“Chi ti assicura del contrario?” Lo incalzò, sgraziatamente.

“Nessuno, ma non posso correre il rischio.”

“Codardo!”

“Chiamami come cazzo ti pare, non m'interessa, non m'inter-”

 

Natasha aveva afferrato un grosso coltello dal cassetto delle posate, gliel'aveva schiaffato in pugno, l'aveva costretto a serrare la presa sull'impugnatura, e adesso se lo puntava al petto, tra i seni, come guidandogli la mano.

 

“Uccidimi, allora,” sussurrò in tono di sfida. “Uccidimi.”

 

***

 

Osservò la lama di quel coltello come si trovasse ad avere fra le mani un oggetto a lui sconosciuto, come se non ne conoscesse l’utilizzo. Puntò uno sguardo incredulo sul viso di Natasha che sembrava lo stesse implorando di fare qualcosa il cui significato non riusciva a comprendere… eppure lo conosceva, lo conosceva bene, e sapeva esattamente cosa aveva fra le mani, solo gli sembrava assurdo, irreale.

Fino a che punto era disposta a provocarlo per procurargli una reazione di tutto rispetto? Che diavolo si aspettava che facesse?

“Sei impazzita…” si ritrovò a sibilare, la mano stretta a pugno sul quel manico di coltello, così vicino alla sua carne...

Lo sguardo che andò a posarsi sulla sua gola, la sua vena pulsante, viva, irregolare sotto la pelle.

Di nuovo i ricordi del suo incubo presero a vorticargli in immagini scomposte nella mente. Ora concentrandosi sul colore del sangue, ora sui suoi occhi vacui, sugli scatti convulsi dei suoi piedi che non toccavano terra, delle sua labbra sempre meno rosee, del sibilo spezzato di un respiro.

Fin quando fu troppo.

 

Esalò un ringhio frustrato e afferrò la lama del coltello con la mano ancora libera, sciogliendosi da quella costrizione. Il dolore della lama sulla carne vulnerabile lo fulminò all’istante, ma non lo frenò. Il coltello cadde con un tintinnio al suolo, trattenendo sospeso un istante infinito.

 

“Che cazzo credevi di fare?” la accusò furente, arrabbiato con se stesso per il lungo attimo di esitazione e arrabbiato con lei per avergli scatenato ricordi che era riuscito a relegare lontano per una manciata di ore.

Natasha lo guardava con una strana luce negli occhi e lui ci vide più di quanto avrebbe voluto: lo spronava a continuare, a non frenarsi, a lasciar sfogare tutta la frustrazione, la rabbia accumulata che fino a quel momento non aveva trovato un solo attimo di sfogo.

“Preferisci accontentarti di facili soluzioni”, la sentì accusarlo nuovamente “Occultare un problema non lo fa svanire. Coprire la merda con altra merda, Clint… non ti rendi conto che ti sta solo soffocando? Ma guardati… sei patetico. La pallida copia dell’uomo che credevo di conoscere.”

Questa volta non ci fu umiliazione, vergogna o rammarico a frenarlo, non ci fu nessun rimorso di coscienza. Il dolore alla mano, che stava sgocciolando sangue fra le pieghe delle dita, fu abbastanza reale da costringerlo a confrontarsi con la realtà, con il peso delle parole di lei. Il dolore fece scattare, improvviso, un meccanismo inceppato che riprese a ticchettare, fastidioso.

La frustrazione e la rabbia sì, ma contro se stesso, contro la brutale ma fin troppo reale immagine che Natasha gli stava mostrando. Il riflesso di un uomo che aveva sperato di non dover mai più incontrare. Che aveva odiato in passato e che odiava con ancor più convinzione ora, rafforzato dal peso degli anni e dell’esperienza.

“Colpiscimi Clint, so che vuoi farlo”, lo provocò.

In cuor suo sapeva che non era quella la soluzione, non la risoluzione definitiva del problema, che non era lei, il problema. Però era stata Natasha a riportarlo a galla, a rinfacciarglielo crudelmente.

“Colpiscimi, porca puttana!” gli gridò contro, colpendolo a mani aperte sul petto, sospingendolo indietro con forza, mentre tutta la mortificazione, la collera, la delusione, si condensavano in un malcelato grido d’aiuto che Natasha gli stava sputando in faccia senza remore.

 

La detonazione ebbe inizio senza che nemmeno potesse registrarla o misurarla. Reagì alla sua provocazione restituendole il colpo, senza preoccuparsi di calibrare la forza o capire che non poteva essere quello l’unico modo di risolverla.

La risposta di Natasha non si fece attendere.

Il tempo per le parole era terminato, il tempo per le accuse, per la violenza verbale... quella non riusciva bene a nessuno dei due.

 

Lo scontro fu feroce, brutale, entrambi decisi a non risparmiarsi in nome di un’amicizia che continuava da anni. Non era il momento della pietà, non più quello della comprensione, del facile perdono.

I muscoli in tensione, i colpi inferti e ricevuti in una feroce danza di azione e reazione che conoscevano a memoria.

A farne le spese i pochi mobili della cucina, del salotto, dell’anticamera.

 

Per ogni pugno, calcio incassato, per ogni frustata di dolore subita, sentiva riattivarsi, mano a mano, strati di coscienza. Uno dopo l’altro si sgretolavano sotto la forza di quello scontro. Sangue, sudore, stanchezza, il rumore pulsante del proprio cuore, affaticato ma finalmente vivo.

 

La disperata follia di due individui che non riescono a raggiungersi se non nel dolore.

 

Quando lei lo colpì allo sterno, si sbloccò il ricordo del loro primo incontro, della forza che lui le aveva riconosciuto, dell’ammirazione del tutto fuori luogo, dell'empatia che aveva frenato la sua mano; lui rispose colpendola alla gola, mozzandole il respiro, per impedire alla pietà per lei di indebolirlo.

 

Lei gli torse un braccio, e gli interrogatori dello SHIELD, la paura di quello che avrebbe rischiato, la consapevolezza di aver agito nel giusto, senza alcun rimorso di coscienza, lo sguardo comprensivo di Coulson, tutte le seconde possibilità e la fiducia, la fecero da padrone.

 

Un calcio nella schiena e si sbriciolò la patina che teneva ingabbiati i ricordi di tutte quelle confessioni non richieste, del rispetto reciproco dimostrato.

 

l sapore del sangue, fra le labbra, gli ricordò quando fosse importante il lavoro di squadra, di quanto si era detto, in più di un occasione, che a lei sola avrebbe affidato la sua stessa vita, senza nessuna vergogna o ripensamento. Dell'energia, dell'invulnerabilità che gli regalava quel legame.

 

Quando lo atterrò e sentì su di sé il peso del suo corpo caldo, avvertì quello stesso rimescolio allo stomaco che lo aveva colto impreparato prima che ripartisse per il New Mexico, la tensione emotiva che lo teneva inevitabilmente incatenato a lei.

 

E infine, quando rotolò su quella stupida cartolina di vacanze romane, che gli rimase imprigionata fra le pieghe dei pantaloni, gli arrivò il rimprovero di Phil.

La sua muta accusa dall'aldilà gli ricordò di quanto fosse andato troppo vicino a mandare a puttane uno dei legami migliori che gli fossero capitati dacché lo aveva conosciuto. Che lei era viva, e si stava battendo per lui. Gli stava scaraventando addosso tutta la sua amarezza, lo stava accusando del suo fallimento, mentre lui continuava ad essere egoisticamente imprigionato in un assurdo limbo fatto di terrore, di sensi di colpa e ingiustificate paure. Che avrebbero definitivamente distrutto tutto quello che avevano costruito in quegli anni, che li avevano condotti a quell'ingiusto e negativo confronto.

L'avrebbe persa e sarebbe stata solo colpa sua. Avrebbe smarrito il senso positivo che riusciva a dare alla sua esistenza.

 

Il pensiero definitivo lo colpì così forte che fece più male di qualsiasi altro colpo ricevuto.

 

Si rimise in piedi, distrutto, sconfitto.

Se la ritrovò di fronte, il peso del suo sguardo, in attesa.

Anche lei esausta, accaldata.

 

Le rivolse un’occhiata che improvvisamente implorava la tregua, mentre l’invasione di tutti quei sentimenti nascosti, che ora combattevano per uscire uno dopo l’altro, sgorgando in un mormorio scomposto, fatto di sudore e sangue.

 

Lei non abbassò la guardia finché non lo vide crollare.

Ora sopraffatto dai ricordi, inondato da tutto ciò che non era riuscito a sfogare in settimane intere di costipazione emotiva, gli strati si erano frantumati ed erano arrivati a scoprire la parte di lui più nascosta, più fragile, più vulnerabile.

 

Natasha gli fu subito accanto e lui si aggrappò a lei, le dita come artigli a trattenerla. L’estrema protezione prima che anche l’ultimo pezzo si infrangesse sotto il peso della sua ritrovata coscienza.

Si sorprese di scoprire il sapore salato delle lacrime mischiato a quello ferroso sangue, affondò il viso sul suo ventre, cercando un rifugio, caldo, rassicurante.

La senti accettare quello sfogo, senza ritrarsi un solo istante. Le sue braccia che lo circondavano protettive, accoglienti.

 

Erano una squadra, aveva detto Natasha.

Era vero.

Una squadra della quale non avrebbe mai dovuto dubitare. Una squadra che lo avrebbe visto piegato, forse, ma mai sconfitto.

 

Rimasero così, fermi per interminabili attimi, precipitati in una simbiosi involontaria, fermi, a confrontare i respiri, a sincronizzare i battiti dei rispettivi cuori.


____________________________________
 
N.d.A.: grazie a chi ci ha letto, commentato, spulciato (?)! Ci fa sempre tanto piacere :D Qualche scommessa per il prossimo peccato? Scommettiamo che è quello che aspettano tutti ù_ù *noi comprese* Alla prossima!
  
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