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Autore: LilithJow    11/01/2014    1 recensioni
Io avevo sempre odiato la morte, così come le persone che le andavano incontro; quelle che rinunciavano alla propria vita, sperando in un'esistenza migliore, che però non c'era e io lo sapevo bene. Non capii perché nella mia mente si materializzò l'idea di permettere a Sebastian di uccidermi e non era qualcosa di simile a ciò che era successo in precedenza.
Avevo deciso di sacrificarmi per permettere a Simon di vivere e ritenevo che fosse una buona motivazione. Ma allora, una ragione non c'era, eppure lo desideravo comunque. - SEGUITO DI "LULLABIES"
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies Saga'
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Capitolo 20
"Chosen"


Avevo sempre sentito parlare di situazioni in cui il mondo attorno sembra fermarsi, insieme al tempo, e tu non sei più in grado di muoverti, né di respirare. Come praticamente ogni cosa attinente agli umani, l'avevo ritenuta una esagerazione.
Ma non era affatto così: esistevano davvero sensazioni del genere ed erano della peggior specie.
Non era panico, non era paura: si trattava di essere semplicemente inermi, senza una giusta concezione di spazio e realtà.


Ero ridotta in quello stato: parzialmente sdraiata a terra, dolorante, a pochi centimetri di distanza dal corpo mutilato di Tamara.
Il suo sangue, di un rosso talmente scuro da poter esser scambiato col nero, era schizzato ovunque ed era riuscito a sporcarmi il viso e i vestiti, mentre ancora si propagava sul cemento. A ciò, si univa quello di Simon; riuscii a scorgerlo poco più dietro. Teneva premuta una mano sulla spalla, in ginocchio e... Ancora sangue.

C'era sangue dappertutto.

Mi venne la nausea.

Con la forza che prima non avevo avuto, mi alzai in piedi e barcollai via, quel che bastava per non aver più davanti quell'orrore. Non riuscii ad allontanarmi molto.
Le mie gambe mi concessero il lusso solo di qualche passo, poi caddi di nuovo a terra, facendomi male alle mani che batterono su quello che ormai era asfalto. A quel punto, la nausea aumentò e la testa sembrò scoppiarmi. Era come avere la febbre.
Non l'avevo mai avuta direttamente, però riconoscevo i sintomi: avevo sentito persone elencarli innumerevoli volte.
Sebbene non avessi mangiato nulla dalla sera prima, il mio stomaco fu sottosopra e rigettai quei pochi avanzi che esso ancora conteneva. Quasi nulla, praticamente. Uscirono, più che altro, succhi gastrici – così pensavo si chiamassero – che mi lasciarono un sapore amaro e disgustoso in bocca.
Ero consapevole che quella non fosse la reazione giusta da avere. Avrei dovuto essere coraggiosa e forte, correre da Simon ed aiutarlo o che altro, ma proprio non ce la feci.
Una volta, forse, da Divoratrice, avrei ragionato più lucidamente, anche perché il sangue non mi aveva mai fatto un effetto simile.

“Ma sei una povera, debole e insulsa umana, adesso”. Una voce dentro alla mia testa infierì, quasi a rimproverarmi.

Scossi appena il capo, passandomi il dorso della mano sulle labbra. Tentai di alzarmi in piedi e, per mia fortuna, ebbi successo nel mio intento e trovai un briciolo di stabilità.
Mi voltai e mi bastò davvero poco per tornare al punto di partenza. Né Thomàs né Simon si erano mossi di un millimetro ed entrambi mi stavano fissando con la stessa espressione stampata in faccia.

«Sto bene» mi sforzai di dire, nonostante non fosse vero; non del tutto.

Thomàs sospirò. «Devo seppellirla» disse «altrimenti nel giro di qualche ora, ce la ritroveremo di nuovo tra le scatole».

Mi limitai soltanto ad annuire: prima si ripuliva quel casino, prima avrei potuto stare meglio. «Ci penso io» aggiunse lui. «Tu occupati di Simon. La ferita sembra profonda».
Fu una delle poche volte in cui lo chiamò per nome e non usò l'odioso termine “ragazzino”. In quel momento, tuttavia, ero fin troppo scombussolata per gioirne anche solo un po'.
Evitai di guardare in che modo il Cacciatore trascinò via il corpo senza testa. Ad un tratto, chiusi persino gli occhi e mossi qualche passo in quel modo, pur di non assistere al macabro spettacolo.
Quando sollevai le palpebre, Simon si era già drizzato e mi aveva raggiunto, ancora tenendosi la spalla. «Stai bene?» mi chiese, quella volta a voce alta. Non era minimamente preoccupato per se stesso, eppure stava sanguinando abbondantemente.
Sembrava non sentire nemmeno dolore. Era così diverso da quel ragazzino di mesi prima, che urlava e si spaventava per qualsiasi cosa. Quel lato, sotto certi aspetti, mi mancava.
Feci cenno di sì con la testa, distratta. «Andiamo dentro» esclamai. «Devi medicarti». Non osò obiettare ed insieme rientrammo in camera.
Per fortuna – o forse no? - il motel in cui alloggiavamo era estremamente isolato e dubitavo qualcuno avesse visto o sentito qualcosa. Non avevo proprio idea di come mascherare tutto.
Di solito ci pensava Martha.
Martha pensava a tutto, in realtà.

Ordinai a Simon di sedersi sul letto, mentre io recuperavo la cassetta del pronto soccorso in bagno – se quella davvero poteva esser definita tale: c'erano solo poche garze, delle fasce probabilmente già utilizzate e del disinfettante; nulla più. Avrei dovuto arrangiarmi.
Quando tornai nella stanza, Simon mi aveva obbedito, sistemandosi sul materasso. Lo aiutai a sfilare la maglietta e neanche in quel caso si lasciò sfuggire un gemito.
Presi posto al suo fianco e iniziai a tamponare con garze imbevute la ferita che notai, con sollievo, era meno grave del previsto, seppur molto profonda. Lui non batté ciglio. Mi lasciò terminare la mia operazione senza dire nulla e nemmeno io parlai.
Non avevo idea di cosa dire, comunque.

Non seppi cosa dire per i due giorni seguenti che, a confronto di ciò che era successo, furono pressapoco di calma piatta.
Ci spostammo in auto, con meta non conosciuta.
Io finsi di dormire per quasi tutto il tempo. Solo poche volte il sonno mi avvolse in maniera concreta. Quella volta non rientrava in tale insieme.

Avevo gli occhi chiusi, ma riuscivo a percepire ogni suono e rumore dentro la macchina.
Sia Thomàs che Simon, tuttavia, sistemati sui sedili anteriori – il primo alla guida, l'altro sul lato passeggero – mi credevano addormentata. Pensai fosse così, altrimenti non avrebbero intrapreso un determinato tipo di discorso verso il quale non seppi come sentirmi.

«Non ti ho ancora ringraziato per quello che hai fatto l'altro giorno» disse Simon. Sentii Thomàs sbuffare. «Non c'è bisogno» replicò, secco.

«Beh, mi hai salvato la vita».

«Non l'ho fatto per te».

«Certo che no. Lo hai fatto per lei».

«Nemmeno. Sono un Cacciatore, no? Caccio, tipo, le cose, ricordi?».

Lo prese in giro, ma diversamente da come accadeva di solito, Simon rise. Probabilmente, si era arreso al suo sarcasmo onnipresente. «Credo che a questo punto sia piuttosto inutile continuare a mentire» esclamò.

Thomàs sbuffò ancora. «Su cosa?».

«Sul fatto che provi qualcosa per Hazel. E' abbastanza evidente. La mia memoria fa cilecca spesso, ma su questo non si sbaglia».

«Non so a che ti riferisci».

«Oh, andiamo. Non saresti scattato come hai fatto quando lei ti ha respinto, altrimenti».

Ci fu un momento di silenzio che mi parve eterno. Avrei dovuto sollevare le palpebre e interrompere il loro dialogo, ma, stupidamente, non lo feci. Forse avevo soltanto voglia di sapere come tutto proseguiva – se fosse stato, poi, davvero così importante.

«Non sono cose che ti riguardano, ragazzino». Thomàs rispose solo allora e mi parve che l'auto avesse iniziato ad accelerare notevolmente.

«Tecnicamente, mi riguardano eccome se provi dei sentimenti per la mia ragazza» disse Simon.

«Non è la tua ragazza».

«Quindi, ammetti che ti darebbe fastidio se fosse davvero così».

«Non mi va di parlarne. E poi, detto sinceramente, nessuno ti dà l'esclusiva su di lei e...». interruppe la frase e ci fu di nuovo assenza di suono, quella volta addirittura più lunga.

«E' confusa» concluse Thomàs, dopo qualche secondo.

“Bene, oltre che ad essere inutile e malandata, ora sono anche confusa” pensai.

«Intendi... A causa di quella sorta di profezia?».

Il mio respiro si smorzò e temetti di star per soffocare in quel preciso istante. Mi sforzai di tenere ancora gli occhi chiusi e non seppi come esattamente riuscii a farlo.
Fu Thomàs a porre la stessa domanda che avrei fatto io: «Tu... Come lo sai?». Simon sospirò. «Ho sentito parecchie cose quando ero via» tagliò corto.
Fece una breve pausa, poi riprese: «So cosa è successo. Prima che perdessi la memoria, mi sono innamorato di lei quasi per costrizione, per fattori sovrannaturali. Ma a me non importa, perché so ciò che provo ora e sono certo del fatto che non ci sia più niente di esterno. Adesso il fottuto destino non c'entra, ci sono solo io e... E mi sto comunque innamorando di lei, sono lo stesso legato a lei. Non mi interessa cosa è successo prima. Fanculo al Creatore, fanculo a qualsiasi altra cosa».
Il mio cuore stava scalpitando. Avevo sperato di udire quelle parole fuoriuscire dalla sua bocca dal momento esatto in cui la verità mi era stata rivelata. Quasi non mi sembrava vero e per un attimo temetti di essermi addormentata sul serio e di star sognando tutto. Mi diedi persino un pizzicotto sul braccio per accertarmi di essere sveglia, seppur con le palpebre calate.

Ed ero sveglia.

Stava succedendo sul serio.

A quel punto, avrei davvero voluto aprire gli occhi e baciare Simon con una foga inaudita, ma fui preceduta da Thomàs: «Perché mi stai dicendo tutto questo?».

«Perché voglio che tu sappia che qualsiasi cosa sia accaduta o accadrà, io non mi arrendo. Rimarrò qui, probabilmente farò altri errori, certo, ma non sparirò mai del tutto. E il fatto che tu abbia iniziato a provare dei sentimenti per lei... E' normale. Chi non lo farebbe?».

Non ci fu subito una replica e... Sì, quei silenzi stavano rischiando di farmi impazzire. Tutto quel discorso mi mandava fuori di testa, in realtà.

«Quindi, se la nostra sfida dovesse ricominciare, non devo aspettarmi una bandiera bianca da parte tua» commentò l'altro.

«Qualcosa del genere».

«Non credo sia necessario». Sospirò e sebbene i miei occhi fossero ancora chiusi, percepii lo sguardo di Thomàs addosso. Durò solo qualche secondo e mi mise i brividi.

«Non importa cosa io faccia» continuò «non cambierà nulla. Lei non mi guarderà mai nel modo in cui guarda te e... Dio solo sa quanto mi piacerebbe essere guardato in quel modo».

In un certo senso, si era contraddetto, come se la sua maschera da tipo duro e spavaldo si fosse rotta, lasciando spazio ad un lato più docile e ciò non fece altro che farmi sentire irrimediabilmente in colpa.
Affondai le unghie nel mio braccio, facendomi male di proposito perché il dolore fisico era più sopportabile di tutto il resto e mi ringraziai per aver continuato a fingere di dormire; certamente, non sarei stata in grado di sostenere il suo sguardo dopo quello che avevo appena sentito.

Non riuscii a farlo neanche quando fui costretta a sollevare le palpebre, una volta giunti ad un nuovo e trascurato motel. Evitai entrambi, chiudendomi in bagno e gettandomi sotto l'acqua bollente della doccia. Pregai che essa mi facesse smettere di pensare almeno un po'.
Funzionò, per qualche minuto, ma quando vi uscii, avvolgendomi in un grande asciugamano bianco, fu quasi peggio di prima.
Rimasi immobile davanti allo specchio per svariati minuti. Fissavo il mio riflesso, quasi non riconoscendomi. Non accedeva spesso che mantenessi per così tanto un aspetto ed essendo umana, in tal momento, quella era l'unica forma che avrei mai potuto prendere.
Da un lato, mi stava bene. Mi piaceva il viso di Johanna, il suo corpo minuto, i suoi occhi verdi. Certo, fosse stata leggermente più alta, avrebbe aiutato, ma potevo conviverci.
Dall'altro, invece, mi dispiaceva non poter più essere in grado di cambiare i miei tratti. Mi avrebbe fatto comodo nell'assurda situazione in cui mi trovavo.

Con ancora i capelli umidi, mi asciugai distrattamente e misi addosso un paio di pantaloni neri e attillati e una maglietta blu che mi stava abbastanza larga. Dovetti prendere almeno tre respiri profondi prima di decidermi ad abbandonare il piccolo bagno della stanza
Simon e Thomàs si trovavano agli antipodi di quel luogo, il primo seduto su una poltrona apparentemente per niente comoda, intento a sfogliare quella che pareva una rivista su auto sportive; il secondo, sdraiato sul letto, a fissare il soffitto.
Io ero nell'esatto centro. La stessa distanza mi divideva da entrambi e non sapevo dove andare, perché mi sembrava che qualsiasi cosa avessi mai fatto, sarebbe stata sbagliata.
Così decisi, semplicemente, di essere neutrale e mi diressi verso la porta di legno che segnava l'ingresso della camera. La aprii, scuotendo appena la testa, con l'idea di fare due passi fuori o, più che altro, per stare lontana da tutta quella tensione che mi stava opprimendo.
Tuttavia, il mio intento fu stroncato ancor prima di poter esser messo in atto. Di fatti, sulla soglia, apparve di fronte a me un volto familiare, contorto in un'espressione che non seppi decifrare.

«Katie?» esclamai e non potei dire più nulla, poiché lei mi ricadde addosso, di peso, facendo finire tutte e due sul pavimento.

Il suo corpo era pesante, come se fosse svenuta – ma i Divoratori nemmeno potevano svenire – tanto che non riuscii a muovermi finché qualcuno non la tirò via da me. Mi drizzai rapidamente e vidi Katie tra le braccia di Thomàs, inginocchiato a terra.
I suoi occhi erano appena socchiusi e la sentii biascicare qualcosa di incomprensibile. Ero preoccupata: non avevo mai visto un Divoratore in quelle condizioni. Era dannatamente strano.

Thomàs adagiò, piano, Katie sul letto. Seguii i suoi movimenti con lo sguardo, ferma davanti alla porta che Simon si affrettò a chiudere.
«Che le è successo?» mi chiese proprio quest'ultimo. «Non ne ho idea» replicai, distratta.

Non osai fare supposizioni su ciò che le era accaduto. Sarei finita soltanto con l'avere mal di testa. Aspettai che Katie tornasse in sé e le ci volle almeno un'ora per farlo.
Le ero seduta accanto, sul bordo del materasso, quando i suoi occhi scintillarono di rosso e mi guardarono, quasi con sollievo. Simon e Thomàs erano rimasti lì vicino, accomodati sull'altro letto presente nella stanza.

«Hazel» disse Katie. «Ti ho trovata».

«Già» replicai, aggrottando le sopracciglia. «Perché mi stavi cercando?».

Lei abbozzò una risata, sarcastica. «Ti perdi sempre un sacco di cose, ragazza». Si tirò su, appoggiando la schiena sulla testata. Nessuna parola uscì dalla mia bocca, ma, con lo sguardo, le feci capire che volevo mi spiegasse ogni cosa.
Katie sospirò, passandosi una mano sul viso. «Sono scappata» sussurrò. «Il Creatore sta radunando la sua armata, lo sai, e se non decidi di schierarti, ha i suoi mezzi per farti cambiare idea».
«E' riuscito a catturarti?» chiesi, allora, e lei annuì, distrattamente. «Non sai quanto le cose sono cambiate» aggiunse, poco dopo. «Siamo ad un punto di non ritorno. Il pugnale che aveva scovato il tuo fratellino? Ne esistono migliaia, adesso. Ci vuole molto per fabbricarli, occorrono essenze e grandi riti magici, ma si stanno attrezzando. Manca poco. Stanno aspettando l'ultimo segnale e poi la guerra tra Creatore e Creatrice comincerà».

«Qual è l'ultimo segnale?».

La Divoratrice esitò. Lanciò un'occhiata a Thomàs e Simon, come se non fosse del tutto sicura di poter parlare con loro due presenti. Poi i suoi occhi tornarono fissi su di me. «Sei tu» disse, con tono fermo.

Temevo tale risposta. Non volevo fosse proprio quella. «Io non darò inizio proprio nulla» sbottai, scuotendo ripetutamente la testa.

«Ma tu devi» insistette Katie, afferrandomi per un braccio e stringendo forte la presa.

«No» ribadii. «Perché accidenti dovrei?».

«Perché tu sei l'arma segreta. Ti sei mai chiesta che vuol dire?».

Lo avevo fatto un sacco di volte, soprattutto quando avevo deciso direttamente di consegnarmi. Erano sorte molte ipotesi a riguardo, ma nessuna era una spiegazione certa e plausibile.

«Non mi interessa» mentii. «Non voglio scoppi una battaglia sanguinolenta per colpa mia».

«Non capisci!». Katie si ritrovò a urlare. «Tu sei la soluzione di tutto! Tu darai inizio alla guerra e tu segnerai la sua fine».

Per un momento, credetti stesse delirando. Sarebbe stato logico, considerate le condizioni in cui si trovava poco prima. Eppure, l'espressione sul suo viso era fin troppo seria per trattarsi di pura pazzia.

«Sei l'unica in grado di farlo» andò avanti. «l'unica che può brandire l'arma in grado di uccidere sia il Creatore che la Creatrice. Ecco perché ti vogliono dalla loro parte, perché chi ha te, ha già vinto».
Mi pizzicai leggermente il labbro inferiore. Era tutto così assurdo detto ad alta voce – non che solo pensato avesse più senso. «Come potrei anche solo sperare di avvicinarmi a uno di loro?» obiettai.
«A cosa credi servano le armate e i pugnali?». La Divoratrice roteò gli occhi, quasi seccata dalla mia ignoranza, alla quale non potevo rimediare. «L'esercito ti spianerà la strada, ti proteggerà, perché ovviamente la controparte cercherà di farti fuori, ma tu... Andrai avanti e colpirai».
Mi venne da ridere. Non lo feci di proposito, fu una reazione spontanea e probabilmente dettata dall'isterismo, tanto che Thomàs e Simon mi guardarono storto per più di qualche secondo.
«Scusate» esclamai, alzandomi in piedi e allargando le braccia, e mossi qualche passo distratto nella stanza. «Tutto questo è molto... Molto carino, Katie» commentai «e pare che qualcuno abbia progettato ogni cosa nei minimi dettagli, come sempre, del resto, ma... Ma non credo io farò nulla del genere. Non ne sono capace. Trovate qualcun altro».

«Nessun altro è come te, dannazione!». Katie sbraitò e si alzò di scatto dal letto, raggiungendomi nel tempo di un battito di ciglia. Il suo volto si ritrovò a qualche centimetro dal mio e l'espressione che vi si era dipinta sopra rasentava la furia. I suoi occhi scintillarono di rosso.

«Non ho rischiato tutto per niente» sibilò. «Luke è morto per permettermi di fuggire e trovarti e per nessuna ragione al mondo permetterò che la tua debolezza renda il suo sacrificio vano, intesi? Tu lo farai. Ti schiererai dalla parte di uno dei due, non mi importa chi, ucciderai chi ti compete. A quel punto la Resistenza interverrà e farai fuori l'altro. Dopo potremo creare un nuovo regime con il quale convivere in pace con gli umani. Sono stata abbastanza chiara?».

Capii, allora, che la rabbia che la ricopriva era determinata da un diverso fattore; non ce l'aveva direttamente con me, era soltanto triste per la morte di Luke, suo compagno da secoli, e ciò la stava pian piano distruggendo. Sotto quell'aspetto, la potevo capire benissimo, e non ebbi la forza di contraddirla o ribattere.

Annuii e basta, accettando così quel suo piano architettato da chissà chi e chissà quando, diabolico e imperfetto allo stesso tempo, sicura che me ne sarei pentita entro breve tempo.
Era come esser tornati alla partenza, con io che dovevo consegnarmi, solo che, quella volta, non volevo farlo. Avrei voluto continuare a scappare, anche per sempre – o per il resto della mia vita, in realtà – sapendo che Simon sarebbe rimasto al mio fianco, sebbene non me lo avesse detto direttamente.

Ma era troppo tardi per tirarmi indietro.

Prima che trovassi il coraggio di, finalmente, obiettare, Katie si era dissolta nell'aria, dicendoci di non muoverci da quel luogo, che lei avrebbe avvisato la Resistenza – che capii fosse un gruppo di Divoratori che rifiutavano di schierarsi e avrebbero poi progettato il Nuovo Regime – e sarebbe tornata entro un paio di giorni.

Il fatto di avere un destino già scritto per ogni minima cosa cominciava a darmi sui nervi.

Insomma, giusto per citare una persona a caso, “fanculo al destino”.

Eppure, non potevo sottrarmi ad esso, non senza che Katie e almeno un altro migliaia di Divoratori inveisse contro di me.

Non c'era via di scampo.

 

***


Sedevo su un muretto poco distante al motel in cui alloggiavamo. Esso si trovava distante dalla strada, tanto che non si udiva nemmeno il rumore del traffico in lontananza – non che effettivamente ci fosse.
Molto probabilmente, eravamo gli unici alloggianti lì, come capitava spesso – se non sempre.

Stare chiusa in camera non mi piaceva, per una svariata serie di motivi, quasi mi sentissi soffocare dentro quelle quattro mura.
Fuori, al freddo - pur essendo prossimi alla primavera - le cose non andavano un granché bene, ma sempre meglio del primo luogo.

Fissavo un punto vuoto davanti a me, cercando di concentrarmi su qualsiasi cosa che non fosse la Battaglia, l'Arma Segreta o checchessia, per quanto fosse difficile pensare ad altro. In qualunque modo la giravo, la mia esistenza non era mai stata così travagliata.

«Ehi». La voce di Simon mi fece sussultare appena. Mi bastò girare di poco il capo, per vederlo sedersi al mio fianco. «Stai bene?» chiese.

Avevo iniziato ad odiare quella domanda.
Ero solita rispondere ad essa con un sì, che fosse convinto o meno non importava. Lo dicevo quasi per circostanza, spesso per non gravare con i miei problemi sulle spalle degli altri, ma in quel momento il peso più grande lo stavo portando io e non ce la feci a fingere.

Scossi di poco la testa, in cenno di diniego. «No. Non sto affatto bene» mormorai.

Senza che lo volessi, i miei occhi si erano fatti lucidi. Guardai i suoi, talmente azzurri che parvero risplendere, nonostante la poca luce della sera.

«Ho paura, Simon» sussurrai. «Non ne ho mai avuta così tanta e... E non capisco nemmeno perché. Non... Non dovrei averne».

«Sei umana, Hazel. E' normale aver paura praticamente di tutto. E, in questo caso, sei persino giustificata».

«Ma non voglio. Quando... Quando ho paura, non riesco a ragionare lucidamente, sono soltanto bloccata e...».

Lasciai la frase in sospeso e mi alzai di scatto, muovendo qualche passo in modo distratto. Lui mi seguì dopo qualche secondo, fermandosi di fronte a me, che ormai avevo iniziato a piangere.

“Ti fai male e piangi. Piangi e ti fai male. Bel salto di qualità”. La mia coscienza inveii contro di me. Non me la presi; del resto, faceva bene a ricalcare la mia dannata debolezza.

Simon prese il mio viso tra le mani e, con i pollici, asciugò le lacrime che mi erano scivolate lungo le guance. «Non sei sola, okay?» disse. «Io sono con te. Sempre, e... E so che forse non sono il più indicato per scacciare le paure, dato che sono il primo ad aver terrore di tutto, ma... Ma se serve, manderò via le tue».

Poggiai delicatamente le dita sulle sue braccia e socchiusi gli occhi. Il fatto che tentasse di rassicurarmi sembrò alleviare le mie preoccupazioni, almeno un briciolo.

Era solito accadere il contrario. Ero sempre io quella pronta a consolare perché, fino a quel momento, ero stata la più forte. Ma allora... Allora non più. Ero divenuta la più debole e avevo estremo bisogno del suo sostegno.

«Ho sentito quello che hai detto a Thomàs, in macchina, l'altro giorno» sussurrai. Lui aggrottò le sopracciglia e capì a cosa mi stessi riferendo solo qualche secondo dopo.

«Stavo facendo finta di dormire» continuai, mordendomi piano il labbro inferiore. «Forse non avrei dovuto ascoltarvi, lo so, ma...».

«No, va bene» mi interruppe. «Volevo lo sentissi».

«Dovrei chiederti come hai fatto a venirne a conoscenza, però non sono certa di volerlo davvero sapere».

Simon abbozzò una risata. «Non è complicato da spiegare e... Ho rischiato di impazzire ascoltando tutto. Io rischio sempre di impazzire, in realtà, e non so come tu possa sopportarmi». Fui io a ridere, allora, anche a causa dell'espressione buffa che era apparsa sul suo volto.

«Non mi interessa chi ha deciso cosa chissà quanto tempo fa. Questa parte è semplice» concluse.

Annuii. «Fanculo al destino, no?».

«Fanculo al destino». Sorrise appena e poi si sporse nella mia direzione, baciandomi dolcemente sulle labbra. Quando mi distaccai, mi alzai sulle punte dei piedi così da poter poggiare la fronte sulla sua.

«Stavo pensando» dissi, a bassa voce «questa è una specie di nostra ultima notte al mondo».

«Non...».

«Possiamo fingere che lo sia così che possa chiederti una cosa?».

«Okay».

Sospirai e prima di dire altro, lo baciai ancora una volta, con più foga. «Fai l'amore con me» biascicai sulle sue labbra. Avrebbe dovuto suonare come una domanda, ma non lo fece. Fu quasi una supplica, un mio desiderio esternato, una mia necessità per sentirlo più vicino che mai.
Sperai che non dovessi spiegargli cosa tutto ciò stava a significare; per un momento, avevo rimosso dalla mia testa il fatto che i suoi ricordi fossero quasi del tutto inesistenti e finii per mordermi forte il labbro inferiore in attesa di una replica.
Per mia fortuna, non accadde nulla di eccessivamente strano: non mi chiese spiegazioni, fece soltanto cenno di sì con la testa e, allora, la sua bocca ritrovò la mia.
Mi distaccai a stento, prendendolo per mano e trascinandolo verso... Beh, tornare in camera non era propriamente l'ideale. Mi sentii ridicola anche solo a pensare a certe cose, ma dividevamo quella stanza con Thomàs e sarebbe stato imbarazzante.
Così, senza ragionarci troppo, immersa tra i suoi baci e le sue carezze, finimmo sui sedili posteriori dell'auto che usavamo per muoverci, parcheggiata proprio lì vicino, sotto l'unico grosso albero dei dintorni.
Non era certo l'emblema del romanticismo, ma, d'altronde, a me bastava lui con i suoi gesti impacciati, i suoi mezzi sorrisi, le sue leggere risate, il suo calore; come se fossimo una normale coppia di adolescenti, senza alcun problema.
Mi piacque credere che quella fosse la nostra realtà, mentre i vestiti ci scivolavano via di dosso, con delicatezza, e i vetri dell'auto cominciavano, lenti, ad appannarsi.
Passai le dita fra i suoi capelli, quel gesto che mi piaceva tanto fare. Lui mi mordicchiò il collo e allora risi, del tutto felice.

Perché sì: ero felice. Simon Clarke mi rendeva tale e avrei potuto urlarlo al mondo, fino a perdere fiato.

Mi abbandonai completamente ai suoi movimenti lievi e più volte i nostri occhi si incrociarono, senza che nessuno dei due parlasse. Non serviva: gli sguardi comunicavano da soli.
Diamanti verdi dentro diamanti azzurri che si fondevano e si univano, a formare un solo corpo e una sola anima, mentre il cielo stellato appariva sopra di noi, libero dalle nuvole di tempesta che però, inevitabilmente, sarebbe arrivata.

  
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