Polonia
Il
mio nome è Ryszard Ostrowski, figlio di Nadzieja Ostrowska e
padre ignoto.
Queste sono le mie memorie - ti prego di non gettarle senza leggere -
non
limitarti a scorgere un mio inquieto segreto: la pena che ho provato
nel
rivivere i miei ricordi mi ha lasciato prostrato, il mio spirito
è colpito a
morte. Il mio tempo è ormai scaduto e i nascondigli
preclusi, da qui alla fine
della Terra, ma spero che questa sofferenza non sia stata vana.
Prego
che queste mie parole non fuggano dalla carta o non sarà
esistito un uomo di
nome Ryszard Ostrowski che ha visto la śmierć
camminare sulla pelle del mondo come una livida stella.
Nelle
notti invernali i lupi scendevano dai boschi e si avventuravano fin nei
cortili, ululando sotto le finestre. Spesso i genitori sbarravano gli
scuri,
affinché i bambini non cedessero alla tentazione di aprirli.
Kazimierz, il
figlio più piccino del fornaio, era riuscito a far cedere il
catenaccio, e al
mattino la madre aveva trovato la stanza vuota, la finestra aperta e,
fuori, la
neve macchiata di rosso e una camiciola sbrindellata.
Io
non avevo un padre che facesse lavori di falegnameria, ma la mia stanza
era al
primo piano e non fui mai tentato di uscire in quelle ore.
Una
notte, quando avevo dodici anni, mi svegliai senza sapere
perché; mezzo
intontito, passai qualche minuto a fissare il soffitto, poi sentii gli
ululati:
pareva che i lupi stessero morendo - quando avevo quattro anni i
cacciatori
portarono in paese un lupo catturato in una tagliola. Ululava alla
stessa
maniera.
Corsi
ad aprire la finestra e nella luce grigia delle notti nevose vidi i
lupi
fuggire verso la foresta. Non avevo mai visto i lupi fuggire davanti a
nulla;
rimasi a guardare, meravigliato, senza curarmi del freddo intenso.
Vidi
le schiene irsute degli animali scartare attorno a un punto bianco, li
udii
guaire.
Quella
macchia di chiarore si avvicinò al villaggio e io mi
strofinai gli occhi,
incredulo.
I
vecchi ci insegnavano a riconoscere la śmierć,
anche se probabilmente nessuno l’aveva mai vista davvero - o
era vissuto
abbastanza a lungo da parlarne - perciò la riconobbi, e fui
preso dal terrore.
Pensavo che avrei dovuto allontanarmi dalla finestra, ma non riuscivo a
muovermi: prima fui paralizzato dalla paura, poi dall’amore.
In
mano aveva una luce verde, che le si spargeva sul petto e sul viso come
una
cascata al contrario. Bianco di neve, di luna, di foschia e cristalli
ghiacciati, disegnata con linee di nuvola, passo di spettro. Come se
fosse
stata partorita dalla terra innevata.
Lei,
la śmierć, infiammò da
subito la mia
immaginazione. Ora la pelle mi si ricopre di un sudore gelido nel
pensarci, ma
allora mi sentii pazzo di lei. Corsi al letto, indossai gli abiti
più pesanti
che avessi e uscii di casa.
Ci
incontrammo davanti alla casa del vecchio Jakub: lei reggeva alta la
sua
fiammella - che, come mi resi conto avvicinandomi, si produceva da un
ramoscello di agrifoglio - e mi guardò con gli occhi
pallidi, grigioblu. - Vai
via, bambino - disse con una specie di mormorio sommesso.
Io
sussultai come se mi avesse punto con uno spillo, tremando dalla testa
ai
piedi. La śmierć entrò
nella casa
buia; vidi il bagliore verde spettrale attraverso le fessure delle
finestre.
Aspettai finché non sentii le ossa gelate, ma lei non
uscì.
La
vecchia Krystyna gridava come un’ossessa in mezzo alla
piazza; fui svegliato
dai suoi lamenti. In un primo momento pensai che i lupi avessero
divorato suo
figlio, ma mentre la mente mi si schiariva ricordai che era ormai
grande e che
i lupi erano fuggiti.
Seppi
che gridava per colpa della śmierć.
-
Me l’ha portato via! Ieri sera ha mangiato, pan
Jakub, con appetito come un giovane di vent’anni e
stanotte la śmierć maledetta
è entrata nel nostro
letto! - e si strappava i capelli grigi con le mani mentre quattro
uomini
portavano fuori suo marito con i piedi in avanti.
Accadde
di sera, mentre il crepuscolo estivo si insinuava nella cucina.
-
Voglio sposarla, nemmeno i suoi genitori si oppongono!
-
Rifletti, Ryszard, ha una dote così modesta che potrei
eguagliarla in un solo
giorno di lavoro! - gridò mia madre, il viso rosso e lucido
di sudore, e si
asciugò la fronte con il grembiule. Attesi, ma quando lo
abbassò vidi
l’inflessibilità nei suoi occhi azzurri. - Tu non
la sposerai - sillabò a voce
molto più bassa e strinse le labbra, come se non volesse
aggiungere nulla.
Vorrei che tu
morissi,
pensai con le braccia che mi tremavano contro i fianchi.
Senza
pronunciare una sola parola - sapevo benissimo che non avrebbe sortito
alcun
effetto - uscii e presi la strada che scendeva verso il mare, incurante
della
procella e dei richiami ansiosi di mia madre. Mi sentivo male, avevo un
sapore
acre in bocca e il mio passo era insolitamente molle.
-
Wanessa! - urlai.
Venticinque
anni, una costa battuta dal vento, il mare nero e la tempesta verde
sopra le
nostre teste. Lei si voltò a guardarmi da lontano, i capelli
le si alzavano
sulle spalle come se qualcuno li stesse respirando. Una nuvola di
vapore. -
Ciao, Ryszard! - la sentii gridare per superare l’ululato del
vento.
Era
bella, caldamente bella, con quella sfumatura di fuoco nei capelli
bruni.
Sapevo che l’avrei sposata e mi faceva girare la testa il
pensiero di potermi
tuffare in lei e cercare il suo fuoco nascosto.
Quando
fummo vicini le presi entrambe le mani e me le portai alle labbra,
baciandole
la punta delle dita. Lei rise.
- Ryszard, che cosa
ti prende oggi?
Mi
immobilizzai con la testa china, vedevo i miei capelli biondi e sottili
dondolarmi davanti agli occhi. - Dirò a mia madre che voglio
sposarti - risposi
con durezza; Wanessa mi si accostò, mi sfiorò il
braccio con il seno, appena
velato dall’abito. - Io ti amo, Wanessa Sobolewska - le
dissi, solenne.
I
tuoni coprirono le parole della donna che amavo, ma lessi dalle sue
labbra che
anche lei mi amava. Tornai a casa con le mani affondate nelle tasche e
il cuore
che smaniava per uscirmi dal petto e prendere il posto della tempesta;
mai
avevo provato una felicità del genere... e mai
più l’ho provata, da quella
notte fatale.
Tutti
sapevano che amavo mia madre - la rispettavano per avermi cresciuto
dopo la
morte di mio padre - nessuno mi raccontò mai come fosse
morto, né come si
chiamasse. Nadzieja Ostrowska fece del suo meglio per proteggermi e
crescermi
al meglio: non ho alcun dubbio che così sarebbe stato, se
non fossi stato messo
al mondo con un occhio dannato.
Mia
madre era nel cortiletto, il vestito che ondeggiava come uno straccio:
aveva
cominciato a piovere, sferzate di acqua fredda sul suo corpo esile, ma
quando
la chiamai non si mosse. Solo dopo il mio secondo richiamo
alzò la testa,
fissandomi distratta.
-
Vieni dentro! Piove, non vedi? - le dissi dalla porta della cucina.
Lei
si scostò una ciocca bagnata dalla fronte, scuotendo la
testa come se stesse
cercando di svegliarsi da un brutto sogno, quindi si
appoggiò ad una betulla
sottile. Colsi, sorpreso, la regalità della sua mano... dico
sorpreso perché
non avevo mai pensato a mia madre come a una donna di intensa grazia.
Pensai
di serbare quel complimento e riferirglielo non appena fosse stata al
coperto.
Un gesto rapido attrasse il mio sguardo - simile a una coltellata, o a
un’altra
azione di quel tipo violento. La śmierć
che tredici anni prima mi era parsa timida neve ora era del bianco
sfolgorante
delle saette. Spalancai la bocca e gridai, continuando anche dopo che i
timpani
mi si furono rotti con uno schiocco terribile e non fui più
in grado di udirmi,
finché qualcuno accorse e mi portò via.
Intravidi
in un pezzo di vetro la mia faccia stravolta, gli occhi spiritati e il
sangue
che mi colava dalle orecchie, prima di essere ottenebrati dalla febbre.
Fui in
bilico tra la vita e la morte per due settimane.
Da
allora la śmierć non mi
abbandonò
più.
Wanessa
morì di parto.
Ero
accanto a lei quando il sangue le ruscellò tra le gambe,
costringendola a
buttare indietro la gola sussultante. Le stringevo la mano livida e
sudata, la
levatrice infilò senza paura le mani in quello schifo e
mormorò una preghiera.
- Deve spingere, signora. Si liberi del fardello.
-
Ce la stai facendo, amore mio - le sussurrai - manca poco.
Venne
fuori un bambino lungo due spanne, con un faccino viola e grinzoso e un
ciuffo
di capelli neri. La levatrice lo lavò e lo avvolse nelle
fasce con i gesti
frettolosi di chi ha una grande esperienza; Wanessa era orribilmente
pallida,
accasciata tra le lenzuola zuppe di sudore. Le scostai i capelli dalla
fronte,
sorridendole, anche se lei mi rivolse un’occhiata palpitante
e angosciata. Mosse
le labbra, ma non ne uscì alcun suono - così mi
chinai e la pregai di stare
tranquilla e riposare.
La
levatrice le spinse degli stracci tra le gambe, aggrondata, si fece il
segno
della croce e ripeté la preghiera accorata di poco prima.
Fingendo che nulla di
preoccupante stesse accadendo, tornai a parlare a Wanessa in tono
caldo,
fiducioso.
Guardai
la levatrice con la coda dell’occhio: ora se ne stava ritta
in fondo al letto,
le mani insanguinate poggiate in grembo, su un grembiule già
sporco; mi chiesi
perché mi stesse guardando con un’espressione
infinitamente triste, ma non osai
pronunciare la domanda ad alta voce.
-
Esci - le ordinai, duro. Per un attimo la stretta delle dita di Wanessa
si fece
convulsa.
-
Ryszard, è un bambino? Un maschio? - ansimò, gli
occhi febbricitanti. Non lo
avevo notato, ma sentivo che era un maschio e glielo dissi. Lei fece un
sorriso
tremulo e bellissimo, che mi si incise dentro e affondò come
una lama. - Ho le
gambe che vanno a fuoco, puoi togliermi la coperta? -
domandò innocentemente.
Ma
non aveva le gambe coperte: era il calore insano del sangue.
Quella
volta sapevo che sarebbe giunta e quando, alzando lo sguardo, la vidi
dall’altra
parte del letto non ne fui sconvolto. Addolorato, raggelato, ma non
sorpreso. La
śmierć aveva il ventre rotondo e il
seno gonfio di latte come una donna incinta, il viso morbido.
-
Ci incontriamo ancora - disse lei, con una nota ironica che mi
terrorizzò.
-
Non portarmela via - mormorai, ma la śmierć
scosse la testa; allungò il braccio e sfiorò
Wanessa con il suo rametto
sempreverde... e in un istante finì tutto.
La
mia vita fu una fuga infinita: foreste, brughiere, città,
fiumi che superai in
una corsa continua, guardandomi sempre alle spalle, sentendola giungere
in ogni
posto che toccassi. Feci crescere il bambino alla levatrice,
chiedendole solo
di dargli nome Szymon - il nome che Wanessa voleva per lui -
perché avevo
troppa paura che la śmierć si
prendesse anche lui, sapendolo sempre accanto a me.
Vidi
morire uomini, donne, bambini e di notte ero ossessionato da incubi da
cui mi
svegliavo in un bagno di sudore: sognavo di donne bianche, mia madre,
Wanessa e
la śmierć che mi
seguivano come spettri
lungo strade senza luna. Non c’era rimedio, né
nella religione, né nelle
sollecitazioni della carne.
Negli
inverni infiniti del Nord ripensavo al nostro primo incontro, riesumavo
un
desiderio ormai stinto e ridotto in cenere e mi chiedevo come avessi
potuto
trovarla bella
C’erano
i suoi occhi grigioblu, smodatamente affascinanti, negli stagni che si
aprivano
in mezzo ai campi innevati. La mia peregrinazione assunse i tratti di
una
rotta, una corsa angosciosa fino alla fine del mondo dalle porte della
città di
Warszawa, laddove la śmierć mi
indicò
con il suo ramo spettrale e mi disse: - Presto sarò da te.
Non
sarei diventato vecchio, dunque. Quel pensiero mi spinse a nascondermi
in
questa vecchia chiesa, con una candela sola, a ripercorrere la mia vita
maledetta: questo sforzo mi ha accorciato la vita, e so che se vi fosse
uno
specchio in questo luogo dimenticato dal mondo vi troverei un uomo
abbruttito e
invecchiato dalla paura.
Forse,
se non avessi insistito per scrivere queste memorie sarei vissuto
ancora, ma
mai avrei dimenticato che la śmierć era
prossima a prendermi. Ora, lascerò questo folio
dove tu, Lettore, potrai trovarlo e farne tesoro.
La
mia vita è finita, lontana da me da molto tempo a questa
parte.