In the mosaic.
One
year ago.
L’aroma
di caffè mi arrivò dritta in faccia, come il
respiro
di qualcuno sul mio corpo, anche quella mattina. Nonostante avessi
l’abitudine
di far colazione al bar, il caffè appena sveglia, in pigiama
e con la bocca
impastata dal sonno, era d’obbligo. Così, ogni
sera, senza che mi fossi mai
scordata, attivavo la sveglia sul timer della macchinetta del
caffè; in quel
modo ogni mattina alle sei non era la sveglia a strillare per
svegliarmi, né le
urla dei vicini e neppure la chiamata di un ipotetico fidanzato, avevo
smesso
con le relazioni, io e le relazioni che andavano oltre le amicizie ci
prendevamo
a cazzotti. L’odore forte e allo stesso tempo piacevole, che
ogni mattina
sfiorava le mie narici, sapeva darmi la giusta carica per ricominciare,
con il
lavoro, con le mie amiche e soprattutto con mia madre, che ogni giorno
chiamava
per sapere se e cosa avessi mangiato, se avevo bisogno di vestiti, cibo
e quant’altro,
mia madre non riusciva ad accettarlo, ma era successo; ero una persona
assolutamente dipendente su ogni punto di vista. Anche quella mattina
mi alzai,
a piedi nudi e col pigiama che poteva starmi su tre volte, mi diressi
in
cucina. Quel giorno lo ricordo ancora come se fosse appena passato. Il
cielo
era plumbeo, avevo un gran caldo dentro casa, ma, al pensiero di uscire
in
strada rabbrividii fino alla punta dei capelli. Bevvi il mio
caffè e ignorando
il pacchetto di sigarette che stava sopra il tavolo urlando
“prendimi”, mi
diressi in bagno. La doccia. Quella ci voleva sempre dopo il
caffè. Dopo aver
fatto colazione, guardai l’orologio, erano solo le sette,
avevo un’ora a mia
disposizione e mi sembrò stupido prendere l’auto.
Amavo andare a piedi. Amavo
sentire la gente di prima mattina, chi urlava per il ritardo, chi
invece se ne
stava seduta su un gradino a sorseggiare il caffè dentro un
bicchiere di
cartone, chi era rimasto fuori a dormire e vagabondava per le strade.
«Tesoro!» Sentii l’urlo di mia madre e mi
gelai sul posto.
Chiusi gli occhi e cercando di dipingermi un sorriso in volto mi voltai.
«Mamma, che fai qui?»
«Oh tesoro! Sono ancora le sette! Credevo di trovarti a
casa…sono
passata per vedere come stavi, ieri avevi un po’ di
tosse.» In effetti era
vero, mi solleticava la gola da qualche giorno, ma ovviamente a lei non
lo
avevo detto e, ovviamente, lei lo aveva capito dalla mia voce.
«Sta’ tranquilla Mamma, sto bene. Sto per andare a
lavoro.
Ci vediamo uno di questi giorni…» Sussurrai
allontanandomi di poco. Con lei era
così o te la dava a gambe levate immediatamente, oppure
dovevi stare lì per
circa mezz’ora a sentirla ciarlare di quanto splendido sia
preparare le torte.
Torte al cioccolato, al limone, con le carote, mele, mandorle,
nocciole, panna,
crema al caffè. Mia madre amava fare le torte e tutti lo
sapevano. Ogni anno
partecipava ai vari concorsi che poi venivano registrati e messi in
onda, ma
lei non ha mai vinto, semplicemente perché ci sono altre
persone più brave. Non
le ho mai detto che le sue torte sono le migliori del mondo, in quel
caso
dovrei sparire dall’universo. Congedai mia mamma che
scoppiò a ridere
voltandosi dall’altro lato, per poi sparire tra i passanti.
«Mrs.
Owen. So che è difficile, soprattutto quando in certe
situazioni
non ci siamo dentro ma, deve cercare di alzarsi, di reagire, sua figlia
ha
bisogno di questo…solo di questo, deve aiutarla, in questo
modo, mi duole dirlo,
ma sta peggiorando solo la situazione.» Sussurrai guardando
gli occhi grigi
della signora Owen, una donna sulla quarantina, era venuta da me
qualche mese
prima…inizialmente mi aveva chiesto
“compagnia” solo per sfogarsi. Sua figlia,
quindici anni, è stata violentata né lei
né sua madre possono andare avanti
dopo quel giorno. Non mi era mai capitata una cosa del genere, ma si sa
è una
cosa mostruosa, soprattutto quando la persona che compie il gesto
è a piede
libero pronto a colpire ancora.
«Dottoressa…io…»
Balbettò un secondo prima di scoppiare a
piangere. Mi alzai dalla poltrona e corsi ad abbracciarla, non potevo
farlo in
realtà, era vietato dal regolamento; niente relazioni con i
pazienti, niente
gesti o parole di affetto, dentro al posto di lavoro il paziente si
tratta come
un estraneo, anche se fa parte della famiglia. Si asciugò le
lacrime su un
fazzoletto di seta e la clessidra si fermò, segnando la fine
dell’ora. Compilai
la ricevuta e Mrs. Owen tirò fuori cinquanta euro. Erano
solo le nove del
mattino e avevo già una grande voglia di piangere. Capitava
spesso che
piangessi dopo la giornata lavorativa, i pensieri e le parole dei miei
pazienti
andavano via soltanto dopo una fumante tazza di tè al
mirtillo, le mie amiche
principalmente mi chiesero di mollare tutto, ma il punto era proprio
qui, mi
piaceva regalare sorrisi, mi piaceva avere la consapevolezza di essere
capace
ad aiutare le persone, quando stavo male per loro poi passava, e
soltanto
capendoli fino in fondo poteva aiutarli per davvero. In quel periodo
trecento
persone diverse venivano in studio, era stato una dei periodi
lavorativi più
proficui, il lavoro andava bene, ed io stavo bene con me stessa, fino a
quel
giorno, ovviamente. Per la pausa pranzo venne Rosalie, portò
due panini
imbottiti e parlammo per tutta l’ora della sua nuova fiamma
“senza nome”, non
mi rivelava mai il nome, non almeno fin quando la cosa non diventava
ufficiale.
Mi dispiacque molto salutarla; lei era una maestra d’asilo e
i suoi orari non
coincidevano mai con i miei, la vedevo poco ed era una delle cose che
più
odiavo. Io e Rosalie ci conoscemmo nel lontano millenovecento
novantotto,
entrambe avevamo diciotto anni, stavo portando a spasso il mio
cagnolino Billy –ormai
morto di vecchiaia- quando ad un certo punto il suo nipotino si mise a
giocare
con il mio cane, parlammo di tutto quel pomeriggio, continuammo ad
incontrarci
e dal quel giorno divenne l’amica più cara che
avessi mai avuto. Rosalie era
mia sorella, mia cugina, mia madre, il mio fidanzato, lei era tutto
quello di
cui avevo bisogno…forse ero pure dipendente da questo nostro
legame
indissolubile. Scesi le scale e misi la chiavetta sul distributore
automatico, il
caffè, di certo, non era il migliore del
mondo…eppure ne avevo assolutamente
bisogno.
«Papà?» Chiesi confusa mentre goffamente
pulivo le mie
labbra con la manica della maglia. Solo dopo mi resi conto del gesto
che
affettivamente avevo fatto. Era strano vedere lì mio padre,
non ci vedevamo mai
se non la domenica a pranzo. Amavo mio padre, ma non lo vedevo spesso a
causa
del lavoro, suo e mio, a causa anche della sua timidezza, nonostante
fossi la
figlia, non era l’uomo più aperto del mondo con
me. Dovevo aver combinato
qualcosa che in quel momento non ricordavo.
«Bells. Come stai?» Mi chiese sorridendomi.
Sospirai di
sollievo e mi avvicinai a lui abbracciandolo. Ero più
tranquilla, quando doveva
rimproverarmi lo faceva subito, in modo veloce ed efficace, arrivati al
“come
stai?” era tutta acqua passata. Non amava rimproverarmi, non
amava riprendermi
mentre sbagliavo. Voleva che crescessi da sola, inciampando sui miei
piedi, lo
voleva, ma non era riuscito a farlo…mi aveva viziato nel
migliore dei modi, la
cosa migliore, fu però il mio carattere…il mio
modo di essere, se fossi stata
un’altra persona, avrei approfittato di tutto ciò,
invece mi ritrovai matura
presto, mi ritrovai con la mente collocata al mio futuro e infine mi
ritrovai
sapendo cosa volevo nella vita.
«Sto bene. Che fai qui?»
«Ho dovuto lasciare una pratica importante tra le mani della
nuova segretaria, ho un po’ di fretta a dire il
vero…»
«Bè? Quindi? Hai bisogno di qualcosa?»
Ero confusa fino al
limite assoluto.
«Ho bisogno di qualcosa, sì. Ricordi Carlise? Il
mio amico
del liceo, quello che…»
«No papà. Carlisle non mi dice nulla.»
Lo interruppi prima
che cominciasse a raccontarmi di quanti dispetti facesse al liceo,
aveva fretta
disse qualche attimo prima, io invece dovevo accogliere un paziente tre
minuti
dopo.
«Bella. Carlisle Cullen. »
«Oh Papà! Il presidente! È ovvio che lo
conosco, ma…Papà
muoviti!» Dissi portandomi le mani tra i capelli,
cominciavano a darmi fastidio
anche gli occhiali sul naso.
«Suo figlio Bella. Ha dei problemi che nessuno psicologo
riesce a guarire. Non so cosa abbia realmente. Gli serve uno psicologo
potenziale ed io mi chiedevo se…»
«Portalo qui.» Mormorai cercando con lo sguardo
l’agenda
sulla scrivania.
«Domani alle tre?» Gli chiesi guardandolo con
l’agenda
aperta tra le mani.
«Bella lui è qui…» A quelle
parole rimasi a bocca aperta.
Ero allibita, per l’ennesima volta uno dei miei genitori mi
aveva dato per
scontato. Era come se mi avesse costretta ad accettare, se io mi fossi
opposta,
avrei dovuto comunque accettare, lui lì, con suo padre ed io
non potei fare
nulla se non annuire. Non dissi nulla a mio padre quel giorno, di
certo, non
sapevo cosa sarebbe successo di lì a qualche mese, forse in
quel caso mi sarei
gettata dalla finestra e basta. Mi sedetti sulla poltrona e attesi
l’arrivo di
quest’uomo, provai ad immaginarlo per qualche secondo, ma
niente di quello che
la mia mente aveva visualizzato gli rese giustizia.
I suoi passi
erano pesanti, non appena udii quel rumore
sinistro che provocavano mi alzai pronta ad affrontare lui e il
fardello che si
portava dietro. Testa china, braccia incollate al fianco, pugni chiusi,
occhi
rivolti al pavimento e quei passi…quei passi che mi fecero
paura per qualche
istante, mi sentii fuori posto in quel momento. Suo padre avanzava con
la mano
appoggiata alla spalla del figlio, un sorriso di circostanza dipinto in
volto.
Era Carlisle Cullen, un uomo che per certi aspetti avevo odiato, non mi
piaceva
molto il suo modo di “aiutare” il nostro paese, ma
in quel momento pensai che
suo figlio avesse bisogno di qualcuno, il presidente lo lasciai per
secondo…forse
la rabbia nei suoi confronti mi avrebbe aiutata nelle mie notti insonni.
«Buon pomeriggio signorina Swan.» Salutò
educatamente Mr
Cullen. Io mi inchinai a lui e mi sorrise in modo caldo.
Indicò con gli occhi
il figlio che non intendeva comunque alzare il viso o, per lo meno,
fare
qualche cenno di saluto alla sottoscritta.
«Lui è Edward…» Disse il
padre chiaramente in imbarazzo.
«Prego, accomodatevi.» Sussurrai impaurita, non
conoscendone
il reale motivo. Non appena i due sparirono oltre la soglia del mio
studio mi
avvicinai alla sala d’aspetto, dove Mr. Sanderson aspettava
che fosse chiamato
da me. Spiegai lui la situazione e con gli occhi delusi
accettò l’appuntamento
di domani, ringraziai mentalmente Rosalie per avermi fatto tenere
l’ora dell’indomani
libera per un velocissimo giro in città, purtroppo
però l’avevo riempita
adesso. “Pazienza” mi ripetei rientrando nel mio
studio. Edward Cullen aveva
ancora la testa china e sinceramente quella cosa alterava i miei nervi
in
maniera mostruosa. Mi sedetti al mio posto e guardai gli occhi azzurri
di Mr.
Cullen, erano cordiali…quasi
rassicuranti…già dal primo giorno
cercò in
anticipo di chiedermi scusa con un semplice sguardo. Non mi sentii a
mio agio
in quei pochi secondi e forse dal quel giorno non mi ci sentii mai.
Restammo
tutti e tre in silenzio, mio padre era già tornato a lavoro.
Alzai gli occhi al
cielo e mi schiarii la voce.
«Mi chiamo Isabella Swan e faccio la psicologa da cinque
anni. Il mio intento non è curare le persone, anche
perché, sono del parere che
chi viene qua non sia malato ma, che venga qua per avere lo stimolo
adatto per
tornare sui propri passi. Io ascolto, consiglio e poi giudico.
Solitamente le
sedute durano un’ora, dipende sempre e comunque dalle
esigenze dei pazienti, può
essere dimezzata o prolungata.» Dissi per la millesima volta
nella mia vita.
Quello era il mio solito modo di presentarmi a gente nuova e di solito
la gente
mi sorrideva o, rispondeva subito dicendo che sapeva già
tutto sul mio metodo. Mr.
Cullen invece annuì solamente.
«Credo che per oggi un’ora basti. Se non
è troppo chiederlo
vorrei che fosse lei a decidere quanto Edward abbia bisogno.»
Rimasi un attimo
interdetta, non era questione di riuscire a capire quanto tempo
avessero
bisogno i clienti, erano semplicemente loro che decidevano quanto voler
stare
qui dentro. Annuii rendendomi conto che non c’era
nient’altro da fare. Lui si
congedò e disse a Edward che lo avrebbe aspettato fuori, il
figlio annuì ed io
tirai un sospiro di sollievo nel vedere che almeno a quello aveva
reagito. “Pazienza”
mi ripetei ancora.
Tutto a un tratto la stanza divenne fredda, era come se la
sua presenza potesse annullare ogni cipiglio di serenità.
Non sapevo come
riuscire a rompere quel cumulo di ghiaccio che si era creato in pochi
attimi, si
era posto in mezzo allo spazio che ci divideva. Mi sentivo in imbarazzo
come
mai prima di allora, afferrai il mio taccuino e la biro e lo guardai,
vedendo
soltanto i suoi capelli bronzei scarmigliati.
«Mi sono laureata in psicologia cinque anni fa…ho
sempre
amato questo lavoro, era il mio sogno nel
cassetto…» Cominciai a parlare in
quel modo per la prima volta in vita mia, solitamente non facevo
neanche in
tempo a sfilare la penna dalla borsa che le persone iniziavano a
sfogarsi, io
dovevo solo annuire…quella volta cambiai metodo e capii che
era l’unico modo
per riuscire a lavorare con lui. Gli raccontai
dell’università, rivelai di me
più di quanto io stessa potessi mai immaginare. Ogni tanto
sistemavo gli
occhiali che scivolavano dal mio naso più del previsto e
ogni qualvolta
guardavo il suo viso, che non appena avevo cominciato a parlare aveva
alzato,
non avevo ancora avuto il piacere di vedere i suoi occhi
però, erano chiusi,
anzi, sigillati. Non aveva traccia di curiosità nel viso,
non aveva alcuna
espressione. Mi fece paura, non di quella che si intende con il proprio
termine, paura di fallire con questa missione, di non riuscire a
concludere
nulla. Odiavo sentirmi così, ho odiato in primis il momento
in cui mi resi
conto che già dal primo giorno le mie paure non erano
propriamente infondate.
Fermai la voce e lo guardai con un mezzo sorriso sulle labbra.
«Non era obbligato a venire qui, Mr. Cullen, è
passata solo
mezz’ora ma può sempre tornare a
casa…»
«Edward. Mi chiamo Edward.» Mormorò
finalmente aprendo le
palpebre, il suo sguardo mi colpì come uno schiaffo dritto
in faccia. I suoi
occhi erano verdi, erano piccoli e poco lucenti, notai la loro bellezza
estasiata, ma solo in secondo tempo riuscii a leggerli come mio solito
e mi
spaventai. Vidi pura paura, senso di abbandono, rabbia,
dolore…i suoi occhi
erano affondati in un mare di tenebre. Chiusi i miei occhi di scatto ma
riuscii
a mantenere l’espressione tranquilla.
«Bene, Edward.» Dissi guardando le sue labbra. Era
uno degli
uomini più belli che avevo mai visto. La sua pelle sembrava
morbida come quella
di un neonato e mi faceva tenerezza, mi sarebbe piaciuto abbracciarlo,
cullarlo
e forse…forse anche dargli un bacio.
«Mi parli un po’ di lei, se
vuole…dobbiamo cercare di
conoscerci se vogliamo andare avanti…okay?» Gli
chiesi sorridendogli
dolcemente. Lui annuì e mi guardo le mani.
«Non…possiamo darci del tu?»
«Ma certo.» Dissi fermamente convinta e sollevata
da quel
suo comportamento inaspettato.
«Non scrivere
però…non…»
«D’accordo!» Esclamai mettendo il
taccuino sul cassetto. Lo
guardai e lo incitai a parlare con il suo sguardo, adesso morbido e
caldo…forse
lo sguardo di prima era stato solo una mia
impressione…adesso quello sguardo
agghiacciante era sparito totalmente.
«Mio padre crede di aiutarmi sballottandomi da uno psicologo
ad un altro. Non so qual è il mio problema e mi dispiace che
questa volta sia
toccata a te la patata bollente. È testardo e decide sempre
lui per gli altri.»
«Di cosa ti occupi Edward?» Domandai rimanendo
perplessa…diceva
di essere una persona senza alcun problema…eppure quando
arrivò nel mio studio
sembrava tutt’altro.
«Di niente. Mio padre è ricco, credo che anche le
zanzare
siano a conoscenza della sua ricchezza, di rimando non vuole che noi
figli
lavoriamo.»
«Hai fratelli?»
«Ho una sorella, gemella.»
«Ho capito. Quindi non vuoi più venire
qui?»
«Dovresti chiederlo a mio padre.» Era visibilmente
arrabbiato ogni volta che nominava il padre.
«Sei tu che decidi qui Edward, non lui. Se tu ritieni che
non sia necessario venire qui, allora ci parlo io con tuo
padre.»
«No. Non è necessario.» Disse prima di
scoppiare a piangere.
Strizzai gli occhi e non potei fare a meno di alzarmi dalla poltrona e
avvicinarmi
a lui. Accarezzai la sua schiena e solo dopo qualche secondo mi accorsi
dei
miei capelli che solleticavano il suo viso, si calmò subito
e guardò i miei
occhi.
«Edward, ascoltami, io voglio aiutarti. Non fare
così, dimmi
tutto, tira fuori tutto quello che c’è dentro di
te, io sono qui per questo.»
Mormorai sicura come non mai delle mie parole.
«Isabella…mi
dispiace…io…» Scossi la testa e gli
sorrisi. La
clessidra segnò la fine dell’ora e dentro di me mi
dispiacque parecchio. Lo
salutai e lui mi ringraziò dicendomi che ci saremmo visti
nei prossimi due
giorni. Suo padre lo aspettava in macchina, credevo che sarebbe rimasto
sopra
per sapere qualcosa…c’era qualcosa di strano nel
legame tra padre e figlio…mi
sentivo di troppo a pensarlo eppure non potevo farne a meno. Mi
avvicinai alla
finestra e lo vidi che mi fissava dall’interno
dell’auto, non potei togliere lo
sguardo da lui, tutto di quell’uomo mi suonava interessante.
Lui continuava a
guardarmi e sorrideva, nella stanza c’era ancora freddo ma
quello che aveva
appena fatto riuscì a scaldarmi il cuore.
Ebbene, ce
l’ho, stranamente, fatta.
Il capitolo è uno dei più corti (a parte i
prologhi) che io
abbia mai scritto, ma credo che dentro ci sia tutto quello che deve
esserci in
un primo capitolo.
Spero che la storia incuriosisca e per qualsiasi cosa io
sono qui ad accettare i vostri pareri.
La storia verrà aggiornata ogni
Venerdì…dovrei farcela ;)
Come molti di voi sanno ne ho due in corso…ma voglio
provarci lo stesso.
Grazie.
Un bacione,
Roby <3