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Autore: RobiSmolderhalder    17/01/2014    5 recensioni
SOSPESA A TEMPO DETERMINATO!
C'era tanto...troppo silenzio. C'era dolore. C'erano le tenebre che premevano contro il suo cuore. Lo vedevo, lo sentivo fino alle ossa. Mi trascinava dentro di sé, nelle tenebre, non c'era il sole, c'era solo buio, solo giornate di eterne nuvole. Il sole era ricoperto dal suo strato di dolore. Tante volte, nel corso di quel percorso, mi ero detta "chi me lo ha fatto fare?" Eppure adesso non sarei qui. Non sarei la stessa Isabella Swan.
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Ragazze, questa è una sfida per me. E' una storia che tratta di mente malata, di dolore fino al confine del sole.
Tutti umani.
Roby
Genere: Erotico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Carlisle Cullen, Charlie Swan, Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Nessun libro/film
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In the mosaic.

 

 

One year ago.

 

 

 

 

 

 

L’aroma di caffè mi arrivò dritta in faccia, come il respiro di qualcuno sul mio corpo, anche quella mattina. Nonostante avessi l’abitudine di far colazione al bar, il caffè appena sveglia, in pigiama e con la bocca impastata dal sonno, era d’obbligo. Così, ogni sera, senza che mi fossi mai scordata, attivavo la sveglia sul timer della macchinetta del caffè; in quel modo ogni mattina alle sei non era la sveglia a strillare per svegliarmi, né le urla dei vicini e neppure la chiamata di un ipotetico fidanzato, avevo smesso con le relazioni, io e le relazioni che andavano oltre le amicizie ci prendevamo a cazzotti. L’odore forte e allo stesso tempo piacevole, che ogni mattina sfiorava le mie narici, sapeva darmi la giusta carica per ricominciare, con il lavoro, con le mie amiche e soprattutto con mia madre, che ogni giorno chiamava per sapere se e cosa avessi mangiato, se avevo bisogno di vestiti, cibo e quant’altro, mia madre non riusciva ad accettarlo, ma era successo; ero una persona assolutamente dipendente su ogni punto di vista. Anche quella mattina mi alzai, a piedi nudi e col pigiama che poteva starmi su tre volte, mi diressi in cucina. Quel giorno lo ricordo ancora come se fosse appena passato. Il cielo era plumbeo, avevo un gran caldo dentro casa, ma, al pensiero di uscire in strada rabbrividii fino alla punta dei capelli. Bevvi il mio caffè e ignorando il pacchetto di sigarette che stava sopra il tavolo urlando “prendimi”, mi diressi in bagno. La doccia. Quella ci voleva sempre dopo il caffè. Dopo aver fatto colazione, guardai l’orologio, erano solo le sette, avevo un’ora a mia disposizione e mi sembrò stupido prendere l’auto. Amavo andare a piedi. Amavo sentire la gente di prima mattina, chi urlava per il ritardo, chi invece se ne stava seduta su un gradino a sorseggiare il caffè dentro un bicchiere di cartone, chi era rimasto fuori a dormire e vagabondava per le strade.
«Tesoro!» Sentii l’urlo di mia madre e mi gelai sul posto. Chiusi gli occhi e cercando di dipingermi un sorriso in volto mi voltai.
«Mamma, che fai qui?»
«Oh tesoro! Sono ancora le sette! Credevo di trovarti a casa…sono passata per vedere come stavi, ieri avevi un po’ di tosse.» In effetti era vero, mi solleticava la gola da qualche giorno, ma ovviamente a lei non lo avevo detto e, ovviamente, lei lo aveva capito dalla mia voce.
«Sta’ tranquilla Mamma, sto bene. Sto per andare a lavoro. Ci vediamo uno di questi giorni…» Sussurrai allontanandomi di poco. Con lei era così o te la dava a gambe levate immediatamente, oppure dovevi stare lì per circa mezz’ora a sentirla ciarlare di quanto splendido sia preparare le torte. Torte al cioccolato, al limone, con le carote, mele, mandorle, nocciole, panna, crema al caffè. Mia madre amava fare le torte e tutti lo sapevano. Ogni anno partecipava ai vari concorsi che poi venivano registrati e messi in onda, ma lei non ha mai vinto, semplicemente perché ci sono altre persone più brave. Non le ho mai detto che le sue torte sono le migliori del mondo, in quel caso dovrei sparire dall’universo. Congedai mia mamma che scoppiò a ridere voltandosi dall’altro lato, per poi sparire tra i passanti.

 

«Mrs. Owen. So che è difficile, soprattutto quando in certe situazioni non ci siamo dentro ma, deve cercare di alzarsi, di reagire, sua figlia ha bisogno di questo…solo di questo, deve aiutarla, in questo modo, mi duole dirlo, ma sta peggiorando solo la situazione.» Sussurrai guardando gli occhi grigi della signora Owen, una donna sulla quarantina, era venuta da me qualche mese prima…inizialmente mi aveva chiesto “compagnia” solo per sfogarsi. Sua figlia, quindici anni, è stata violentata né lei né sua madre possono andare avanti dopo quel giorno. Non mi era mai capitata una cosa del genere, ma si sa è una cosa mostruosa, soprattutto quando la persona che compie il gesto è a piede libero pronto a colpire ancora.
«Dottoressa…io…» Balbettò un secondo prima di scoppiare a piangere. Mi alzai dalla poltrona e corsi ad abbracciarla, non potevo farlo in realtà, era vietato dal regolamento; niente relazioni con i pazienti, niente gesti o parole di affetto, dentro al posto di lavoro il paziente si tratta come un estraneo, anche se fa parte della famiglia. Si asciugò le lacrime su un fazzoletto di seta e la clessidra si fermò, segnando la fine dell’ora. Compilai la ricevuta e Mrs. Owen tirò fuori cinquanta euro. Erano solo le nove del mattino e avevo già una grande voglia di piangere. Capitava spesso che piangessi dopo la giornata lavorativa, i pensieri e le parole dei miei pazienti andavano via soltanto dopo una fumante tazza di tè al mirtillo, le mie amiche principalmente mi chiesero di mollare tutto, ma il punto era proprio qui, mi piaceva regalare sorrisi, mi piaceva avere la consapevolezza di essere capace ad aiutare le persone, quando stavo male per loro poi passava, e soltanto capendoli fino in fondo poteva aiutarli per davvero. In quel periodo trecento persone diverse venivano in studio, era stato una dei periodi lavorativi più proficui, il lavoro andava bene, ed io stavo bene con me stessa, fino a quel giorno, ovviamente. Per la pausa pranzo venne Rosalie, portò due panini imbottiti e parlammo per tutta l’ora della sua nuova fiamma “senza nome”, non mi rivelava mai il nome, non almeno fin quando la cosa non diventava ufficiale. Mi dispiacque molto salutarla; lei era una maestra d’asilo e i suoi orari non coincidevano mai con i miei, la vedevo poco ed era una delle cose che più odiavo. Io e Rosalie ci conoscemmo nel lontano millenovecento novantotto, entrambe avevamo diciotto anni, stavo portando a spasso il mio cagnolino Billy –ormai morto di vecchiaia- quando ad un certo punto il suo nipotino si mise a giocare con il mio cane, parlammo di tutto quel pomeriggio, continuammo ad incontrarci e dal quel giorno divenne l’amica più cara che avessi mai avuto. Rosalie era mia sorella, mia cugina, mia madre, il mio fidanzato, lei era tutto quello di cui avevo bisogno…forse ero pure dipendente da questo nostro legame indissolubile. Scesi le scale e misi la chiavetta sul distributore automatico, il caffè, di certo, non era il migliore del mondo…eppure ne avevo assolutamente bisogno.
«Papà?» Chiesi confusa mentre goffamente pulivo le mie labbra con la manica della maglia. Solo dopo mi resi conto del gesto che affettivamente avevo fatto. Era strano vedere lì mio padre, non ci vedevamo mai se non la domenica a pranzo. Amavo mio padre, ma non lo vedevo spesso a causa del lavoro, suo e mio, a causa anche della sua timidezza, nonostante fossi la figlia, non era l’uomo più aperto del mondo con me. Dovevo aver combinato qualcosa che in quel momento non ricordavo.
«Bells. Come stai?» Mi chiese sorridendomi. Sospirai di sollievo e mi avvicinai a lui abbracciandolo. Ero più tranquilla, quando doveva rimproverarmi lo faceva subito, in modo veloce ed efficace, arrivati al “come stai?” era tutta acqua passata. Non amava rimproverarmi, non amava riprendermi mentre sbagliavo. Voleva che crescessi da sola, inciampando sui miei piedi, lo voleva, ma non era riuscito a farlo…mi aveva viziato nel migliore dei modi, la cosa migliore, fu però il mio carattere…il mio modo di essere, se fossi stata un’altra persona, avrei approfittato di tutto ciò, invece mi ritrovai matura presto, mi ritrovai con la mente collocata al mio futuro e infine mi ritrovai sapendo cosa volevo nella vita.
«Sto bene. Che fai qui?»
«Ho dovuto lasciare una pratica importante tra le mani della nuova segretaria, ho un po’ di fretta a dire il vero…»
«Bè? Quindi? Hai bisogno di qualcosa?» Ero confusa fino al limite assoluto.
«Ho bisogno di qualcosa, sì. Ricordi Carlise? Il mio amico del liceo, quello che…»
«No papà. Carlisle non mi dice nulla.» Lo interruppi prima che cominciasse a raccontarmi di quanti dispetti facesse al liceo, aveva fretta disse qualche attimo prima, io invece dovevo accogliere un paziente tre minuti dopo.
«Bella. Carlisle Cullen. »
«Oh Papà! Il presidente! È ovvio che lo conosco, ma…Papà muoviti!» Dissi portandomi le mani tra i capelli, cominciavano a darmi fastidio anche gli occhiali sul naso.
«Suo figlio Bella. Ha dei problemi che nessuno psicologo riesce a guarire. Non so cosa abbia realmente. Gli serve uno psicologo potenziale ed io mi chiedevo se…»
«Portalo qui.» Mormorai cercando con lo sguardo l’agenda sulla scrivania.
«Domani alle tre?» Gli chiesi guardandolo con l’agenda aperta tra le mani.
«Bella lui è qui…» A quelle parole rimasi a bocca aperta. Ero allibita, per l’ennesima volta uno dei miei genitori mi aveva dato per scontato. Era come se mi avesse costretta ad accettare, se io mi fossi opposta, avrei dovuto comunque accettare, lui lì, con suo padre ed io non potei fare nulla se non annuire. Non dissi nulla a mio padre quel giorno, di certo, non sapevo cosa sarebbe successo di lì a qualche mese, forse in quel caso mi sarei gettata dalla finestra e basta. Mi sedetti sulla poltrona e attesi l’arrivo di quest’uomo, provai ad immaginarlo per qualche secondo, ma niente di quello che la mia mente aveva visualizzato gli rese giustizia.

I suoi passi erano pesanti, non appena udii quel rumore sinistro che provocavano mi alzai pronta ad affrontare lui e il fardello che si portava dietro. Testa china, braccia incollate al fianco, pugni chiusi, occhi rivolti al pavimento e quei passi…quei passi che mi fecero paura per qualche istante, mi sentii fuori posto in quel momento. Suo padre avanzava con la mano appoggiata alla spalla del figlio, un sorriso di circostanza dipinto in volto. Era Carlisle Cullen, un uomo che per certi aspetti avevo odiato, non mi piaceva molto il suo modo di “aiutare” il nostro paese, ma in quel momento pensai che suo figlio avesse bisogno di qualcuno, il presidente lo lasciai per secondo…forse la rabbia nei suoi confronti mi avrebbe aiutata nelle mie notti insonni.
«Buon pomeriggio signorina Swan.» Salutò educatamente Mr Cullen. Io mi inchinai a lui e mi sorrise in modo caldo. Indicò con gli occhi il figlio che non intendeva comunque alzare il viso o, per lo meno, fare qualche cenno di saluto alla sottoscritta.
«Lui è Edward…» Disse il padre chiaramente in imbarazzo.
«Prego, accomodatevi.» Sussurrai impaurita, non conoscendone il reale motivo. Non appena i due sparirono oltre la soglia del mio studio mi avvicinai alla sala d’aspetto, dove Mr. Sanderson aspettava che fosse chiamato da me. Spiegai lui la situazione e con gli occhi delusi accettò l’appuntamento di domani, ringraziai mentalmente Rosalie per avermi fatto tenere l’ora dell’indomani libera per un velocissimo giro in città, purtroppo però l’avevo riempita adesso. “Pazienza” mi ripetei rientrando nel mio studio. Edward Cullen aveva ancora la testa china e sinceramente quella cosa alterava i miei nervi in maniera mostruosa. Mi sedetti al mio posto e guardai gli occhi azzurri di Mr. Cullen, erano cordiali…quasi rassicuranti…già dal primo giorno cercò in anticipo di chiedermi scusa con un semplice sguardo. Non mi sentii a mio agio in quei pochi secondi e forse dal quel giorno non mi ci sentii mai. Restammo tutti e tre in silenzio, mio padre era già tornato a lavoro. Alzai gli occhi al cielo e mi schiarii la voce.
«Mi chiamo Isabella Swan e faccio la psicologa da cinque anni. Il mio intento non è curare le persone, anche perché, sono del parere che chi viene qua non sia malato ma, che venga qua per avere lo stimolo adatto per tornare sui propri passi. Io ascolto, consiglio e poi giudico. Solitamente le sedute durano un’ora, dipende sempre e comunque dalle esigenze dei pazienti, può essere dimezzata o prolungata.» Dissi per la millesima volta nella mia vita. Quello era il mio solito modo di presentarmi a gente nuova e di solito la gente mi sorrideva o, rispondeva subito dicendo che sapeva già tutto sul mio metodo. Mr. Cullen invece annuì solamente.
«Credo che per oggi un’ora basti. Se non è troppo chiederlo vorrei che fosse lei a decidere quanto Edward abbia bisogno.» Rimasi un attimo interdetta, non era questione di riuscire a capire quanto tempo avessero bisogno i clienti, erano semplicemente loro che decidevano quanto voler stare qui dentro. Annuii rendendomi conto che non c’era nient’altro da fare. Lui si congedò e disse a Edward che lo avrebbe aspettato fuori, il figlio annuì ed io tirai un sospiro di sollievo nel vedere che almeno a quello aveva reagito. “Pazienza” mi ripetei ancora.
Tutto a un tratto la stanza divenne fredda, era come se la sua presenza potesse annullare ogni cipiglio di serenità. Non sapevo come riuscire a rompere quel cumulo di ghiaccio che si era creato in pochi attimi, si era posto in mezzo allo spazio che ci divideva. Mi sentivo in imbarazzo come mai prima di allora, afferrai il mio taccuino e la biro e lo guardai, vedendo soltanto i suoi capelli bronzei scarmigliati.
«Mi sono laureata in psicologia cinque anni fa…ho sempre amato questo lavoro, era il mio sogno nel cassetto…» Cominciai a parlare in quel modo per la prima volta in vita mia, solitamente non facevo neanche in tempo a sfilare la penna dalla borsa che le persone iniziavano a sfogarsi, io dovevo solo annuire…quella volta cambiai metodo e capii che era l’unico modo per riuscire a lavorare con lui. Gli raccontai dell’università, rivelai di me più di quanto io stessa potessi mai immaginare. Ogni tanto sistemavo gli occhiali che scivolavano dal mio naso più del previsto e ogni qualvolta guardavo il suo viso, che non appena avevo cominciato a parlare aveva alzato, non avevo ancora avuto il piacere di vedere i suoi occhi però, erano chiusi, anzi, sigillati. Non aveva traccia di curiosità nel viso, non aveva alcuna espressione. Mi fece paura, non di quella che si intende con il proprio termine, paura di fallire con questa missione, di non riuscire a concludere nulla. Odiavo sentirmi così, ho odiato in primis il momento in cui mi resi conto che già dal primo giorno le mie paure non erano propriamente infondate. Fermai la voce e lo guardai con un mezzo sorriso sulle labbra.
«Non era obbligato a venire qui, Mr. Cullen, è passata solo mezz’ora ma può sempre tornare a casa…»
«Edward. Mi chiamo Edward.» Mormorò finalmente aprendo le palpebre, il suo sguardo mi colpì come uno schiaffo dritto in faccia. I suoi occhi erano verdi, erano piccoli e poco lucenti, notai la loro bellezza estasiata, ma solo in secondo tempo riuscii a leggerli come mio solito e mi spaventai. Vidi pura paura, senso di abbandono, rabbia, dolore…i suoi occhi erano affondati in un mare di tenebre. Chiusi i miei occhi di scatto ma riuscii a mantenere l’espressione tranquilla.
«Bene, Edward.» Dissi guardando le sue labbra. Era uno degli uomini più belli che avevo mai visto. La sua pelle sembrava morbida come quella di un neonato e mi faceva tenerezza, mi sarebbe piaciuto abbracciarlo, cullarlo e forse…forse anche dargli un bacio.
«Mi parli un po’ di lei, se vuole…dobbiamo cercare di conoscerci se vogliamo andare avanti…okay?» Gli chiesi sorridendogli dolcemente. Lui annuì e mi guardo le mani.
«Non…possiamo darci del tu?»
«Ma certo.» Dissi fermamente convinta e sollevata da quel suo comportamento inaspettato.
«Non scrivere però…non…»
«D’accordo!» Esclamai mettendo il taccuino sul cassetto. Lo guardai e lo incitai a parlare con il suo sguardo, adesso morbido e caldo…forse lo sguardo di prima era stato solo una mia impressione…adesso quello sguardo agghiacciante era sparito totalmente.
«Mio padre crede di aiutarmi sballottandomi da uno psicologo ad un altro. Non so qual è il mio problema e mi dispiace che questa volta sia toccata a te la patata bollente. È testardo e decide sempre lui per gli altri.»
«Di cosa ti occupi Edward?» Domandai rimanendo perplessa…diceva di essere una persona senza alcun problema…eppure quando arrivò nel mio studio sembrava tutt’altro.
«Di niente. Mio padre è ricco, credo che anche le zanzare siano a conoscenza della sua ricchezza, di rimando non vuole che noi figli lavoriamo.»
«Hai fratelli?»
«Ho una sorella, gemella.»
«Ho capito. Quindi non vuoi più venire qui?»
«Dovresti chiederlo a mio padre.» Era visibilmente arrabbiato ogni volta che nominava il padre.
«Sei tu che decidi qui Edward, non lui. Se tu ritieni che non sia necessario venire qui, allora ci parlo io con tuo padre.»
«No. Non è necessario.» Disse prima di scoppiare a piangere. Strizzai gli occhi e non potei fare a meno di alzarmi dalla poltrona e avvicinarmi a lui. Accarezzai la sua schiena e solo dopo qualche secondo mi accorsi dei miei capelli che solleticavano il suo viso, si calmò subito e guardò i miei occhi.
«Edward, ascoltami, io voglio aiutarti. Non fare così, dimmi tutto, tira fuori tutto quello che c’è dentro di te, io sono qui per questo.» Mormorai sicura come non mai delle mie parole.
«Isabella…mi dispiace…io…» Scossi la testa e gli sorrisi. La clessidra segnò la fine dell’ora e dentro di me mi dispiacque parecchio. Lo salutai e lui mi ringraziò dicendomi che ci saremmo visti nei prossimi due giorni. Suo padre lo aspettava in macchina, credevo che sarebbe rimasto sopra per sapere qualcosa…c’era qualcosa di strano nel legame tra padre e figlio…mi sentivo di troppo a pensarlo eppure non potevo farne a meno. Mi avvicinai alla finestra e lo vidi che mi fissava dall’interno dell’auto, non potei togliere lo sguardo da lui, tutto di quell’uomo mi suonava interessante. Lui continuava a guardarmi e sorrideva, nella stanza c’era ancora freddo ma quello che aveva appena fatto riuscì a scaldarmi il cuore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ebbene, ce l’ho, stranamente, fatta.
Il capitolo è uno dei più corti (a parte i prologhi) che io abbia mai scritto, ma credo che dentro ci sia tutto quello che deve esserci in un primo capitolo.
Spero che la storia incuriosisca e per qualsiasi cosa io sono qui ad accettare i vostri pareri.
La storia verrà aggiornata ogni Venerdì…dovrei farcela ;) Come molti di voi sanno ne ho due in corso…ma voglio provarci lo stesso.
Grazie.
Un bacione,

 

Roby <3

   
 
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