22)No rest for the wicked they say
Ci
sono segreti che pesano
sul cuore.
Ci sono parole non dette
che uccidono.
Jack non sta ancora del
tutto bene, così io e Alex abbiamo deciso che è
meglio che non sappia della
notizia fino a quando non si sarà del tutto ripreso.
La sua influenza da stress
ha superato i due giorni, anche se ora sa di essere Jack Barakat e non
un elfo
di Gran Burrone e che Alex non è Frodo o Samvise.
Il dottore dice che in un
paio di giorni si sarà del tutto ripreso, tra due giorni
dovrò dirgli tutto e
sento il mio cuore esplodere alla sola idea.
Per ora il mio solo
conforto è Alex e devo dire che si è dimostrato
sensibile e comprensivo, sta
facendo del suo meglio per tirarmi su di morale. Io però non
ci riesco, quando
sono nella stanza di Jack devo sorridere per forza, appena esco la
maschera
cade e divento uno zombie apatico.
Holly mi ha accompagnato
al raschiamento e ha tentato anche lei di consolarmi, ma non ce
l’ha fatta, non
mi sentivo così male e così colpevole dalla morte
di Jim e so che non è un bene
per me.
Ho iniziato a tagliarmi
seriamente dopo la sua morte e sento che adesso sto camminando su un
terreno
minato che rischia di farmi cadere di nuovo in un problema che credevo
superato.
Dio, perché non posso
avere un po’ di pace?
Forse ho combinato
qualcosa nella mia vita precedente e sto scontando adesso sotto forma
di
disgrazie continue.
L’unica cosa che mi dà un
po’ di pace – e allo stesso tempo mi distrugge
dentro – è dormire con Jack, che
non sa nulla di tutto questo.
Vorrei che rimanesse malato
ancora un po’, perché non mi va che si senta
meglio per poi ricevere una
notizia come questa. Forse per lui non sarà così
terribile, ma nono credo
nemmeno che gli farebbe piacere.
E intanto in questi due
giorni la vita va avanti, Jack inizia a mangiare cibi più
solidi e a girellare
per casa, la febbre almeno alla mattina non l’ha
più.
Due giorni dopo sta
benissimo, si è ripreso completamente e tra poco
arriverà il momento in cui
dovrò distruggere questa felicità posticcia.
Sto cucinando
svogliatamente quando lui si presenta in cucina, ha una faccia seria.
“Wendy, tutto bene?
Hai un’aria strana.”
Io spengo il gas e mi
siedo davanti a lui: il momento è arrivato.
“Effettivamente ho un’aria
strana.”
Esordisco.
“E come mai ce l’hai?”
“Mentre eri malato sono
successe alcune cose.”
“Del tipo?”
Io abbasso gli occhi.
“Del tipo che ho fatto un
test di gravidanza.”
“E sei incinta?”
Mi chiede lui con gli
occhi spalancati.
“Sì e no.”
“Non capisco.”
“Dopo il test ho fatto
delle analisi di laboratorio, ero incinta, ma il feto era morto.
Ho fatto un raschiamento
due giorni fa.”
Lui mi guarda senza
parole, poi si alza e mi abbraccia, muto.
Nemmeno lui sa cosa dire,
non ha nemmeno una parola da spendere su questa cosa, non so cosa ne
pensi.
“Io, Wen… Piccola, mi
dispiace!
Io non so cosa dire, è
tutto… troppo grande per me, per noi.”
“Ti sarebbe piaciuto
essere padre?”
Gli chiedo con voce
spenta.
“Non lo so, non ci ho mai
pensato.”
“E non ci penserai ancora
per un po’, lui si è accorto che non lo volevo e
se n’è andato.
È colpa mia se è morto!”
Scoppio a piangere tra le
sue braccia, lui mi stringe forte.
“Wendy, non è colpa tua.
Sono cose brutte, ma succedono e
nessuno
ne ha colpa.
Non fare così, non voglio
vederti piangere.”
“Tu l’avresti voluto?”
“Penso di sì, alla fine.
Sarebbe stato il frutto del nostro amore, non avrei voluto
perderti.”
Io continuo a piangere per
un po’, poi mi fa sedere al tavolo e mi prepara un the. Una
volta che ho in
mano quello – forte e zuccherato – mi sento un
po’ meglio, almeno lui lo sa.
“Mi dispiace di non
esserti stato accanto.”
“Eri malato e poi c’erano
Alex e Holly a darmi una mano.”
“Alex lo sapeva prima di
me.”
“Non arrabbiarti, è stato
un caso. Quando sono arrivata a casa dopo il risultato delle analisi ha
visto
che non stavo bene e mi ha chiesto perché.
Tutto qui.
Avrei dovuto fingere un
po’ meglio.”
La sue espressione
corrucciata si distende.
“Tranquilla, hai fatto
bene. Dovevi parlarne con qualcuno e visto che io non c’ero
Alex va benissimo.”
Io sospiro di sollievo,
non volevo offenderlo con quello che ho fatto o che fargli pensare che
Alex
vale più di lui.
“Non sono stati giorni
facili per te, vero?”
“No e credo che nemmeno i
prossimi saranno facili. Mi sento vuota.”
Taccio sul mio timore per
l’autolesionismo, non voglio farlo preoccupare ancora di
più.
Non è detto che ci ricada,
anche se mi sembra difficile riuscire a mantenere il controllo sui miei
nervi e
impulsi in questa situazione.
“Domani devo tornare allo
studio, non fare cose stupide in mia
assenza.”
“Ok.”
Rimaniamo un attimo in
silenzio.
“Finisco io di preparare
il pranzo, anzi ordino qualcosa dal cinese.”
Io annuisco, senza forze,
al momento non mi
importa molto di
quello che mangerò e se non mangiassi sarebbe probabilmente
lo stesso.
Non ho molta fame.
Sono poche le cose di cui
ho voglia ultimamente, in ogni caso io e Jack mangiamo la roba del
cinese in
silenzio, poi lui torna a letto e io lo seguo.
Se mi sembra di stare bene
solo tra le sue braccia è lì che starò
finché posso.
Il
giorno dopo lui va alle
registrazioni di malavoglia.
Mi saluta con un lungo
bacio e poi bacia anche la mia mano ferita.
“Cerca di stare
tranquilla, non fare nulla di avventato, io arriverò il
più presto possibile.”
“Va bene.”
Rispondo spenta, poi me ne
torno a letto e dormo dalla parte di Jack, almeno il suo odore mi
rilasserà.
Dormo fino alle undici,
poi me ne vado in bagno e mi guardo a lungo allo specchio. La ragazza
dai
capelli azzurri che sfumano in un verde acido ha un’aria
spenta e trasandata, è
pallida e con le occhiaie, nonostante il sonno.
Sospiro e torno in
camera, in fondo a un cassetto
– nascosto da tutto e da tutti –
c’è
un pacchetto di lamette che mi sono portata da Baltimora e sono una
grande
tentazione.
Ne porto una in bagno e me
la rigiro tra le mani, ho promesso a Jack di non fare nulla di stupido,
ma io
non ce la faccio. Mi sento morta e l’unico modo per capire se
non lo sono è
vedere se sanguino come gli altri esseri umani.
Lo so che è sbagliato e
che sto infrangendo una promessa, ma non posso farne a meno. Incido un
piccolo
taglio sul polso ed esce un po’ di sangue, premo un altro
po’ e ne esce di più.
Conosco il sorrido che mi
si forma quando mi taglio, lo conosco e lo odio, ma non ne posso fare a
meno.
Me lo medico e lo bendo,
poi lo nascondo sotto il solito polsino, pulisco anche il bagno per
evitare che
rimangano tracce.
Scendo in cucina e mi
mangio una tazza di cereali, mi sento lo stesso vuota, ma il calore del
sangue
e della ferita mi consola.
Jack sarebbe furioso, ma
io non so come reagire. Mi viene da piangere e mi raggomitolo sul
divano, è
così che mi trova Jack.
Lui si precipita da me e
mi alza il volto.
“Wen!”
“Ciao, Jack!”
“Cos’hai?”
“Esisto, il che è un bel
problema.”
Lui mi guarda senza
capire.
“Una persona come me non
dovrebbe vivere.”
“Non dire cavolate.”
Io taccio, lui guarda il
polsino e lascio che me lo tolga, così nota subito il taglio
nuovo.
“Non avresti dovuto
farlo.”
Io continuo a non parlare.
“Perché Wen?”
“Perché non merito di
vivere.”
“Non è vero.”
“Ho ucciso il nostro
bambino.”
Lui mi prende le mani tra
le sue e mi guarda dritto negli occhi, vorrei evitare di farlo, ma il
loro
potere ha la meglio sulla mia debole volontà e mi perdo in
quegli occhi
castani.
“Non hai ucciso nessuno,
adesso ti cucino qualcosa e poi vieni alle prove con me.”
“A cosa ti servirei?”
Lui sospira.
“Almeno sono sicuro che
non ti taglierai. Ho paura che un giorno tornando a casa ti
troverò in un lago
di sangue nel bagno di casa nostra e non voglio, capisci?”
“Forse sarebbe meglio
perte.”
“No, non lo sarebbe.
Lascia decidere a me cosa è meglio per me e stare senza di
te non è una buona
cosa.”
Io annuisco debolmente,
lui mi lascia andare e lo sento trafficare in cucina, poco dopo torna
con un
piatto si uova strapazzate e del bacon. Meglio di niente.
Mangio in silenzio sotto
lo sguardo preoccupato del mio ragazzo.
Finito, mi costringe a
salire in camera e a vestirmi. Io indosso un paio di pantaloni scozzesi
che mi
arrivano a malapena sotto il ginocchio e una maglia nera con un teschio
e una
rosa, mi metto un paio di anfibi e sono a posto.
Non ho voglia di
truccarmi, non ho nemmeno voglia di uscire.
Jack mi prende per mano e
mi fa salire in macchina, io eseguo tutto come un automa, non mi
importa dove
sono al momento.
La macchina si muove,
fuori c’è una bella giornata, Los Angeles ci sta
regalando il suo meglio, ma
io non lo vedo. Io vedo nuvole nere, case disabitate e neve che cade
come
cenere dal cielo, mentre una vocina infantile mi dice tristemente che
non lo
volevo.
Arriviamo allo studio,
fuori c’è Alex che fuma e gli basta
un’occhiata per vedere che qualcosa non va.
Lui e Jack parlottano un attimo, poi è il frontman che
rimane con me.
“Cosa succede?”
“Niente.”
Lui mi indica il polsino.
“Fammelo vedere.”
Io alzo il braccio come se
il corpo non fosse il mio. Lui guarda il taglio e non dice nulla per un
po’.
“Non dovresti.”
“Perché?”
“Perché ti fai del male e
fai del male anche a Jack.”
“Io… Non sono così forte!
Da quando il bambino è morto mi sento come dopo la morte di
Jim: impotente,
inutile, un peso.”
“Non lo sei, non per Jack né
per nessuno di noi.
Non è colpa tua, Wendy. Ti
prego, credici.”
“Se l’avessi desiderato un
po’ di più…”
“Sarebbe morto lo stesso
perché – per quanto possa fare male –
era questo il suo destino.”
Io singhiozzo più forte, non riesco ad accettarlo, anche se
sarebbe meglio per
tutti.
“Dobbiamo entrare, forza.”
Mi prende per mano e mi
trascina dentro, io lo seguo docile come una bambola. Lui entra nel
locale
insonorizzato, io mi siedo su una delle poltroncine lì
fuori. Fisicamente sono
lì, psicologicamente sono ancora nel mondo in rovina in cui
non esiste nulla di
quello che conosco, solo dolore.
Non sento il loro chiasso
alle prove, né l’agognato nuovo album.
Nulla.
È come se non fossi lì e
forse non ci sono davvero, forse ormai ho imparato a staccare la mia
anima dal
corpo, come certi santoni indiani.
“Wendy?”
Mi ritrovo davanti il
volto preoccupato di Jack.
“Le prove sono finite,
vuoi venire a mangiare qualcosa con noi?”
Io non rispondo, si
avvicina Alex.
“Wen, vieni a mangiare con
noi, ti farà bene.”
“Ma lui?”
“Lui sarà felice di vedere
la sua mamma felice, è quello che vogliono tutti i bambini,
no?”
Davanti a questa
argomentazione mi alzo e mi butto tra le braccia di Jack, il mio porto
sicuro,
per farmi portare in macchina.
“Scusa se sono così
zombie.”
“Hai ricevuto un brutto
colpo, è normale che tu lo sia.
E tu?”
Lui rimane in silenzio.
“Io guardo i padri quando
me ne capita uno sott’occhio e mi chiedo se sarei in grado di
essere così e non
so cosa rispondermi. Se questo bambino o bambina fosse vissuto avrei
voluto
dargli un buon padre, non un ragazzino incerto e spaventato.”
Fa una piccola pausa.
“Anche se l’idea di una
piccola te mi piaceva molto, una a cui insegnare a suonare la chitarra
e a cui
nascondere i giochi di parole sconci che faccio fino ai quattordici
anni.
Forse non era ancora il
momento giusto.”
Finisce con voce
incrinata.
Anche lui, a suo modo, sta
soffrendo per questa perdita, solo che i maschi hanno un modo tutto
loro di
portare il lutto e di soffrire.
Un modo che io non posso
capire, ma sono certa della sofferenza di Jack, come sono certa della
mia.
Che schifo di vita.
“Forse hai ragione.”
Dico incerta.
“Vieni a mangiare con
noi?”
“Va bene.”
Non sono molto decisa, ma
forse è meglio stare in compagnia che da soli,
così do retta a Jack e cerco di
soffocare il mio senso di colpa.
I ragazzi hanno deciso di
andare in una pizzeria in centro, mi sento leggermente a disagio senza
trucco.
Il mio trucco nero è sempre stato qualcosa messo per
proteggermi dagli altri e
ora che non ce l’ho addosso mi sento più debole ed
esposta.
Forse in borsa ho una
matita e un ombretto, così una volta che i ragazzi si sono
accomodati al tavolo
cerco nella mia borsa e li trovo.
Cinque minuti dopo i miei
occhi sono contornati da uno spesso strato di nero e mi sento di poter
affrontare l’ambiente che c’è
là fuori.
Nessuno di loro lo
nota,ovviamente, i ragazzi non fanno mai caso ai piccoli accorgimenti
delle
ragazze, li danno quasi per scontati.
Seduta al tavolo, ordino
una margherita alla cameriera e la mia risulta la più
leggera delle pizze che
ci saranno a questo tavolo.
I ragazzi parlano
dell’album, io simulo un ascolto educato della conversazione,
non posso
intervenire molto, ma cerca di aggrapparmi a quelle parole come un
naufrago con
un pezzo di legno.
Se mi concentro su quello
che dicono il dolore non mi spinge così a fondo, anche se
non mi abbandona mai.
Temo che non mi abbandonerà, sarà
l’ennesima cicatrice nascosta, ma che
sanguina.
La cena finisce alle
dieci, sembriamo un gruppo di amici felici, nessuno immaginerebbe mai
cosa mi
sia successo.
In macchina mi lascio
andare a un sospiro tremulo, Jack mi guarda incuriosito.
“È difficile fingere che
tutto vada bene, quando dentro sei a lutto.”
Lui sospira, facendo eco
al mio di poco prima.
“Lo so, Wen, ma dobbiamo
andare avanti. Credo che nostro figlio vorrebbe che facessimo
così.”
“Nostro figlio avrebbe
meritato una madre migliore.”
Lui appoggia una mano
sulla mia coscia.
“Sono sicuro che saresti
stata una bravissima madre, questa è solo una sfortunata
coincidenza.”
Io tiro su con il naso, il
senso di colpa è tornato ad aggredirmi con una forza
sorprendente.
Non dico più una parola
fino a quando non torniamo a casa e nemmeno Jack osa interrompere
questo
silenzio.
È una cappa che ci
soffoca, ma nulla è così significativo da
riuscire a romperla.
Jack parcheggia la
macchina in garage, io scendo e lo precedo in camera a letto, lui entra
e mi
trova in intimo.
“Sei sempre bella, ma hai
bisogno di dormire.”
“Lo so, ma faccio molta fatica.
Troppi pensieri.”
Lui si spoglia, io lo
seguo attentamente con gli occhi, una parte di me vorrebbe fare
l’amore con
lui, l’altra non si sente pronta. Alla fine vince la seconda.
Lui si sdraia accanto a me
e mi abbraccia, sento il calore del suo corpo sul mio e –
malgrado tutto – non
posso fare a meno di sorridere.
Lo amo, lui è l’unico per
cui vado avanti.
Lui mi accarezza i capelli
e mi bacia le tempie, in qualche modo questo riesce a calmarmi e riesco
ad
addormentarmi.
Mi sveglio alle dieci
della mattina dopo, il letto dalla parte di Jack è freddo e
c’è un biglietto
sul cuscino. Mi dice che è alle prove e di non lasciarmi
andare.
Cosa potrei fare?
Mi chiedo mentre metto le
ciabatte, non ho voglia di fare nulla.
Scendo svogliatamente in
cucina e mangio una tazza di cereali, cercando di non pensare al dolore
e a
cosa fare.
Potrei andare al negozio
facendo visita a Holly, non sarebbe una cattiva idea visto che sono
secoli che
non ci vado.
“Va bene, Wen. Fai questo
tentativo.”
Dico a voce alta.
Mi metto gli stessi
vestiti di ieri sera e prendo un pullman che mi porta nelle vicinanze
del mio
negozio, fortunatamente ho un buon senso dell’orientamento.
Arrivo lì che sono ormai
le undici, Holly sta parlando con cliente – probabilmente gli
sta mostrando dei
caratteri sul pc o qualche soggetto – dall’altra
parte della tenda si sente il
ronzio famigliare della macchinetta.
Mi siedo sul divanetto e
aspetto pazientemente che Holly finisca e mi fa uno strano effetto, di
solito
sono io che faccio i tatuaggi.
Una volta finito con il
cliente Holly mi rivolge un sorriso smagliante.
“Sono felice di vederti
qui.”
Io le rispondo con quella
che è più una smorfia che è un sorriso.
“Beh, anche io. Sono qui
per vedere come ve la cavate senza di me e poi perché ho
bisogno di distrarmi,
anche se mi sembra una bestemmia.”
Il sorriso di Holly
svanisce.
“Non è una bestemmia. Jack
mi ha raccontato tutto, non devi sentirti in colpa. Capisco non sia
facile da
vivere, ma non puoi lasciare che ti ributti dov’eri finita
quando è morto Jim.
Non è colpa tua se il
bambino è morto, non è colpa di nessuno e
finché non lo capirai non riuscirai
ad andare avanti e tu merito di andare avanti.
So che sei una lottatrice,
Wen, tira fuori gli artigli.”
L’unica cosa che mi esce è
un sospiro.
Sì, sono una lottatrice,
ma ci sono certe cose che abbatterebbero persino la più
forte delle persone. Ci
sono serie di dolori che distruggono lentamente e poi tolgono la forza
di
rialzarsi.
“Holly mi abbraccia.”
“Forza e coraggio, io sono
qui e c’è anche la band. Non è come a
Baltimora, non sei sola, ci sono tante
persone che ti vogliono bene.”
Io annuisco e mi asciugo
una lacrima.
Niente pace per me, ancora
una volta devo lottare.
Non posso annegare i miei
demoni, sanno nuotare (*).
Angolo di Layla.
(*) traduzione esatta di "I can't drown my demons, they know how to swim", parte del testo di "Can you feel my heart" dei Bring Me The Horizon.
Onestamente, visto lo scarso interesse non so se pubblicare i seguiti vari, mi sembra semplicemente farlo. Ditemi voi.
Ringrazio Iloveyoug
per la recensione.