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Autore: Layla    19/01/2014    5 recensioni
“È Jack, che adesso si sta facendo una doccia. Appena ti ha visto è come impazzito, continuava a urlare “È lei, l’ho ritrovata!”.”
Io lo guardo con la bocca spalancata, sono così scioccata che ho paura che la mascella mi si stacchi da un momento all’altro e se ne vada a fanculo.
Qualche minuto dopo, il signorino che ha tanto richiesto la mia presenza fa la sua comparsa con solo un asciugamano addosso alla vita e mi punta un dito addosso.
“Tu! “Lost in stereo” è stata scritta per te!”
Io mi indico sconvolta.
Lost in stereo per me.

Tratto dal primo capitolo.
Genere: Drammatico, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alex Gaskarth, Altri, Jack Barakat, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
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22)No rest for the wicked they say

 

Ci sono segreti che pesano sul cuore.
Ci sono parole non dette che uccidono.
Jack non sta ancora del tutto bene, così io e Alex abbiamo deciso che è meglio che non sappia della notizia fino a quando non si sarà del tutto ripreso.
La sua influenza da stress ha superato i due giorni, anche se ora sa di essere Jack Barakat e non un elfo di Gran Burrone e che Alex non è Frodo o Samvise.
Il dottore dice che in un paio di giorni si sarà del tutto ripreso, tra due giorni dovrò dirgli tutto e sento il mio cuore esplodere alla sola idea.
Per ora il mio solo conforto è Alex e devo dire che si è dimostrato sensibile e comprensivo, sta facendo del suo meglio per tirarmi su di morale. Io però non ci riesco, quando sono nella stanza di Jack devo sorridere per forza, appena esco la maschera cade e divento uno zombie apatico.
Holly mi ha accompagnato al raschiamento e ha tentato anche lei di consolarmi, ma non ce l’ha fatta, non mi sentivo così male e così colpevole dalla morte di Jim e so che non è un bene per me.
Ho iniziato a tagliarmi seriamente dopo la sua morte e sento che adesso sto camminando su un terreno minato che rischia di farmi cadere di nuovo in un problema che credevo superato.
Dio, perché non posso avere un po’ di pace?
Forse ho combinato qualcosa nella mia vita precedente e sto scontando adesso sotto forma di disgrazie continue.
L’unica cosa che mi dà un po’ di pace – e allo stesso tempo mi distrugge dentro – è dormire con Jack, che non sa nulla di tutto questo.
Vorrei che rimanesse malato ancora un po’, perché non mi va che si senta meglio per poi ricevere una notizia come questa. Forse per lui non sarà così terribile, ma nono credo nemmeno che gli farebbe piacere.
E intanto in questi due giorni la vita va avanti, Jack inizia a mangiare cibi più solidi e a girellare per casa, la febbre almeno alla mattina non l’ha più.
Due giorni dopo sta benissimo, si è ripreso completamente e tra poco arriverà il momento in cui dovrò distruggere questa felicità posticcia.
Sto cucinando svogliatamente quando lui si presenta in cucina, ha una faccia seria.
“Wendy, tutto bene?
Hai un’aria strana.”
Io spengo il gas e mi siedo davanti a lui: il momento è arrivato.
“Effettivamente ho un’aria strana.”
Esordisco.
“E come mai ce l’hai?”
“Mentre eri malato sono successe alcune cose.”
“Del tipo?”
Io abbasso gli occhi.
“Del tipo che ho fatto un test di gravidanza.”
“E sei incinta?”
Mi chiede lui con gli occhi spalancati.
“Sì e no.”
“Non capisco.”
“Dopo il test ho fatto delle analisi di laboratorio, ero incinta, ma il feto era morto.
Ho fatto un raschiamento due giorni fa.”
Lui mi guarda senza parole, poi si alza e mi abbraccia, muto.
Nemmeno lui sa cosa dire, non ha nemmeno una parola da spendere su questa cosa, non so cosa ne pensi.
“Io, Wen… Piccola, mi dispiace!
Io non so cosa dire, è tutto… troppo grande per me, per noi.”
“Ti sarebbe piaciuto essere padre?”
Gli chiedo con voce spenta.
“Non lo so, non ci ho mai pensato.”
“E non ci penserai ancora per un po’, lui si è accorto che non lo volevo e se n’è andato.
È colpa mia se è morto!”
Scoppio a piangere tra le sue braccia, lui mi stringe forte.
“Wendy, non è colpa tua. Sono cose brutte, ma succedono  e nessuno ne ha colpa.
Non fare così, non voglio vederti piangere.”
“Tu l’avresti voluto?”
“Penso di sì, alla fine. Sarebbe stato il frutto del nostro amore, non avrei voluto perderti.”
Io continuo a piangere per un po’, poi mi fa sedere al tavolo e mi prepara un the. Una volta che ho in mano quello – forte e zuccherato – mi sento un po’ meglio, almeno lui lo sa.
“Mi dispiace di non esserti stato accanto.”
“Eri malato e poi c’erano Alex e Holly a darmi una mano.”
“Alex lo sapeva prima di me.”
“Non arrabbiarti, è stato un caso. Quando sono arrivata a casa dopo il risultato delle analisi ha visto che non stavo bene e mi ha chiesto perché.
Tutto qui.
Avrei dovuto fingere un po’ meglio.”
La sue espressione corrucciata si distende.
“Tranquilla, hai fatto bene. Dovevi parlarne con qualcuno e visto che io non c’ero Alex va benissimo.”
Io sospiro di sollievo, non volevo offenderlo con quello che ho fatto o che fargli pensare che Alex vale più di lui.
“Non sono stati giorni facili per te, vero?”
“No e credo che nemmeno i prossimi saranno facili. Mi sento vuota.”
Taccio sul mio timore per l’autolesionismo, non voglio farlo preoccupare ancora di più.
Non è detto che ci ricada, anche se mi sembra difficile riuscire a mantenere il controllo sui miei nervi e impulsi in questa situazione.
“Domani devo tornare allo studio, non fare cose stupide in mia  assenza.”
“Ok.”
Rimaniamo un attimo in silenzio.
“Finisco io di preparare il pranzo, anzi ordino qualcosa dal cinese.”
Io annuisco, senza forze, al  momento non mi importa molto di quello che mangerò e se non mangiassi sarebbe probabilmente lo stesso.
Non ho molta fame.
Sono poche le cose di cui ho voglia ultimamente, in ogni caso io e Jack mangiamo la roba del cinese in silenzio, poi lui torna a letto e io lo seguo.
Se mi sembra di stare bene solo tra le sue braccia è lì che starò finché posso.
 

Il giorno dopo lui va alle registrazioni di malavoglia.
Mi saluta con un lungo bacio e poi bacia anche la mia mano ferita.
“Cerca di stare tranquilla, non fare nulla di avventato, io arriverò il più presto possibile.”
“Va bene.”
Rispondo spenta, poi me ne torno a letto e dormo dalla parte di Jack, almeno il suo odore mi rilasserà.
Dormo fino alle undici, poi me ne vado in bagno e mi guardo a lungo allo specchio. La ragazza dai capelli azzurri che sfumano in un verde acido ha un’aria spenta e trasandata, è pallida e con le occhiaie, nonostante il sonno.
Sospiro  e torno in camera, in fondo a un  cassetto – nascosto da tutto e da tutti – c’è un pacchetto di lamette che mi sono portata da Baltimora e sono una grande tentazione.
Ne porto una in bagno e me la rigiro tra le mani, ho promesso a Jack di non fare nulla di stupido, ma io non ce la faccio. Mi sento morta e l’unico modo per capire se non lo sono è vedere se sanguino come gli altri esseri umani.
Lo so che è sbagliato e che sto infrangendo una promessa, ma non posso farne a meno. Incido un piccolo taglio sul polso ed esce un po’ di sangue, premo un altro po’ e ne esce di più.
Conosco il sorrido che mi si forma quando mi taglio, lo conosco e lo odio, ma non ne posso fare a meno.
Me lo medico e lo bendo, poi lo nascondo sotto il solito polsino, pulisco anche il bagno per evitare che rimangano tracce.
Scendo in cucina e mi mangio una tazza di cereali, mi sento lo stesso vuota, ma il calore del sangue e della ferita mi consola.
Jack sarebbe furioso, ma io non so come reagire. Mi viene da piangere e mi raggomitolo sul divano, è così che mi trova Jack.
Lui si precipita da me e mi alza il volto.
“Wen!”
“Ciao, Jack!”
“Cos’hai?”
“Esisto, il che è un bel problema.”
Lui mi guarda senza capire.
“Una persona come me non dovrebbe vivere.”
“Non dire cavolate.”
Io taccio, lui guarda il polsino e lascio che me lo tolga, così nota subito il taglio nuovo.
“Non avresti dovuto farlo.”
Io continuo a non parlare.
“Perché Wen?”
“Perché non merito di vivere.”
“Non è vero.”
“Ho ucciso il nostro bambino.”
Lui mi prende le mani tra le sue e mi guarda dritto negli occhi, vorrei evitare di farlo, ma il loro potere ha la meglio sulla mia debole volontà e mi perdo in quegli occhi castani.
“Non hai ucciso nessuno, adesso ti cucino qualcosa e poi vieni alle prove con me.”
“A cosa ti servirei?”
Lui sospira.
“Almeno sono sicuro che non ti taglierai. Ho paura che un giorno tornando a casa ti troverò in un lago di sangue nel bagno di casa nostra e non voglio, capisci?”
“Forse sarebbe meglio perte.”
“No, non lo sarebbe. Lascia decidere a me cosa è meglio per me e stare senza di te non è una buona cosa.”
Io annuisco debolmente, lui mi lascia andare e lo sento trafficare in cucina, poco dopo torna con un piatto si uova strapazzate e del bacon. Meglio di niente.
Mangio in silenzio sotto lo sguardo preoccupato del mio ragazzo.
Finito, mi costringe a salire in camera e a vestirmi. Io indosso un paio di pantaloni scozzesi che mi arrivano a malapena sotto il ginocchio e una maglia nera con un teschio e una rosa, mi metto un paio di anfibi e sono a posto.
Non ho voglia di truccarmi, non ho nemmeno voglia di uscire.
Jack mi prende per mano e mi fa salire in macchina, io eseguo tutto come un automa, non mi importa dove sono al momento.
La macchina si muove, fuori c’è una bella giornata, Los Angeles ci sta regalando il suo meglio, ma io non lo vedo. Io vedo nuvole nere, case disabitate e neve che cade come cenere dal cielo, mentre una vocina infantile mi dice tristemente che non lo volevo.
Arriviamo allo studio, fuori c’è Alex che fuma e gli basta un’occhiata per vedere che qualcosa non va. Lui e Jack parlottano un attimo, poi è il frontman che rimane con me.
“Cosa succede?”
“Niente.”
Lui mi indica il polsino.
“Fammelo vedere.”
Io alzo il braccio come se il corpo non fosse il mio. Lui guarda il taglio e non dice nulla per un po’.
“Non dovresti.”
“Perché?”
“Perché ti fai del male e fai del male anche a Jack.”
“Io… Non sono così forte! Da quando il bambino è morto mi sento come dopo la morte di Jim: impotente, inutile, un peso.”
“Non lo sei, non per Jack né per nessuno di noi.
Non è colpa tua, Wendy. Ti prego, credici.”
“Se l’avessi desiderato un po’ di più…”
“Sarebbe morto lo stesso perché – per quanto possa fare male – era questo il suo destino.”
Io singhiozzo più forte, non riesco ad accettarlo, anche se sarebbe meglio per tutti.
“Dobbiamo entrare, forza.”
Mi prende per mano e mi trascina dentro, io lo seguo docile come una bambola. Lui entra nel locale insonorizzato, io mi siedo su una delle poltroncine lì fuori. Fisicamente sono lì, psicologicamente sono ancora nel mondo in rovina in cui non esiste nulla di quello che conosco, solo dolore.
Non sento il loro chiasso alle prove, né l’agognato nuovo album.
Nulla.
È come se non fossi lì e forse non ci sono davvero, forse ormai ho imparato a staccare la mia anima dal corpo, come certi santoni indiani.
“Wendy?”
Mi ritrovo davanti il volto preoccupato di Jack.
“Le prove sono finite, vuoi venire a mangiare qualcosa con noi?”
Io non rispondo, si avvicina Alex.
“Wen, vieni a mangiare con noi, ti farà bene.”
“Ma lui?”
“Lui sarà felice di vedere la sua mamma felice, è quello che vogliono tutti i bambini, no?”
Davanti a questa argomentazione mi alzo e mi butto tra le braccia di Jack, il mio porto sicuro, per farmi portare in macchina.
“Scusa se sono così zombie.”
“Hai ricevuto un brutto colpo, è normale che tu lo sia.
E tu?”
Lui rimane in silenzio.
“Io guardo i padri quando me ne capita uno sott’occhio e mi chiedo se sarei in grado di essere così e non so cosa rispondermi. Se questo bambino o bambina fosse vissuto avrei voluto dargli un buon padre, non un ragazzino incerto e spaventato.”
Fa una piccola pausa.
“Anche se l’idea di una piccola te mi piaceva molto, una a cui insegnare a suonare la chitarra e a cui nascondere i giochi di parole sconci che faccio fino ai quattordici anni.
Forse non era ancora il momento giusto.”
Finisce con voce incrinata.
Anche lui, a suo modo, sta soffrendo per questa perdita, solo che i maschi hanno un modo tutto loro di portare il lutto e di soffrire.
Un modo che io non posso capire, ma sono certa della sofferenza di Jack, come sono certa della mia.
Che schifo di vita.
“Forse hai ragione.”
Dico incerta.
“Vieni a mangiare con noi?”
“Va bene.”
Non sono molto decisa, ma forse è meglio stare in compagnia che da soli, così do retta a Jack e cerco di soffocare il mio senso di colpa.
I ragazzi hanno deciso di andare in una pizzeria in centro, mi sento leggermente a disagio senza trucco. Il mio trucco nero è sempre stato qualcosa messo per proteggermi dagli altri e ora che non ce l’ho addosso mi sento più debole ed esposta.
Forse in borsa ho una matita e un ombretto, così una volta che i ragazzi si sono accomodati al tavolo cerco nella mia borsa e li trovo.
Cinque minuti dopo i miei occhi sono contornati da uno spesso strato di nero e mi sento di poter affrontare l’ambiente che c’è là fuori.
Nessuno di loro lo nota,ovviamente, i ragazzi non fanno mai caso ai piccoli accorgimenti delle ragazze, li danno quasi per scontati.
Seduta al tavolo, ordino una margherita alla cameriera e la mia risulta la più leggera delle pizze che ci saranno a questo tavolo.
I ragazzi parlano dell’album, io simulo un ascolto educato della conversazione, non posso intervenire molto, ma cerca di aggrapparmi a quelle parole come un naufrago con un pezzo di legno.
Se mi concentro su quello che dicono il dolore non mi spinge così a fondo, anche se non mi abbandona mai. Temo che non mi abbandonerà, sarà l’ennesima cicatrice nascosta, ma che sanguina.                                                                                                                                                                                                                                                                                                         
La cena finisce alle dieci, sembriamo un gruppo di amici felici, nessuno immaginerebbe mai cosa mi sia successo.
In macchina mi lascio andare a un sospiro tremulo, Jack mi guarda incuriosito.
“È difficile fingere che tutto vada bene, quando dentro sei a lutto.”
Lui sospira, facendo eco al mio di poco prima.
“Lo so, Wen, ma dobbiamo andare avanti. Credo che nostro figlio vorrebbe che facessimo così.”
“Nostro figlio avrebbe meritato una madre migliore.”
Lui appoggia una mano sulla mia coscia.
“Sono sicuro che saresti stata una bravissima madre, questa è solo una sfortunata coincidenza.”
Io tiro su con il naso, il senso di colpa è tornato ad aggredirmi con una forza sorprendente.
Non dico più una parola fino a quando non torniamo a casa e nemmeno Jack osa interrompere questo silenzio.
È una cappa che ci soffoca, ma nulla è così significativo da riuscire a romperla.
Jack parcheggia la macchina in garage, io scendo e lo precedo in camera a letto, lui entra e mi trova in intimo.
“Sei sempre bella, ma hai bisogno di dormire.”
“Lo so, ma faccio molta fatica. Troppi pensieri.”
Lui si spoglia, io lo seguo attentamente con gli occhi, una parte di me vorrebbe fare l’amore con lui, l’altra non si sente pronta. Alla fine vince la seconda.
Lui si sdraia accanto a me e mi abbraccia, sento il calore del suo corpo sul mio e – malgrado tutto – non posso fare a meno di sorridere.
Lo amo, lui è l’unico per cui vado avanti.
Lui mi accarezza i capelli e mi bacia le tempie, in qualche modo questo riesce a calmarmi e riesco ad addormentarmi.
Mi sveglio alle dieci della mattina dopo, il letto dalla parte di Jack è freddo e c’è un biglietto sul cuscino. Mi dice che è alle prove e di non lasciarmi andare.
Cosa potrei fare?
Mi chiedo mentre metto le ciabatte, non ho voglia di fare nulla.
Scendo svogliatamente in cucina e mangio una tazza di cereali, cercando di non pensare al dolore e a cosa fare.
Potrei andare al negozio facendo visita a Holly, non sarebbe una cattiva idea visto che sono secoli che non ci vado.
“Va bene, Wen. Fai questo tentativo.”
Dico a voce alta.
Mi metto gli stessi vestiti di ieri sera e prendo un pullman che mi porta nelle vicinanze del mio negozio, fortunatamente ho un buon senso dell’orientamento.
Arrivo lì che sono ormai le undici, Holly sta parlando con cliente – probabilmente gli sta mostrando dei caratteri sul pc o qualche soggetto – dall’altra parte della tenda si sente il ronzio famigliare della macchinetta.
Mi siedo sul divanetto e aspetto pazientemente che Holly finisca e mi fa uno strano effetto, di solito sono io che faccio i tatuaggi.
Una volta finito con il cliente Holly mi rivolge un sorriso smagliante.
“Sono felice di vederti qui.”
Io le rispondo con quella che è più una smorfia che è un sorriso.
“Beh, anche io. Sono qui per vedere come ve la cavate senza di me e poi perché ho bisogno di distrarmi, anche se mi sembra una bestemmia.”
Il sorriso di Holly svanisce.
“Non è una bestemmia. Jack mi ha raccontato tutto, non devi sentirti in colpa. Capisco non sia facile da vivere, ma non puoi lasciare che ti ributti dov’eri finita quando è morto Jim.
Non è colpa tua se il bambino è morto, non è colpa di nessuno e finché non lo capirai non riuscirai ad andare avanti e tu merito di andare avanti.
So che sei una lottatrice, Wen, tira fuori gli artigli.”
L’unica cosa che mi esce è un sospiro.
Sì, sono una lottatrice, ma ci sono certe cose che abbatterebbero persino la più forte delle persone. Ci sono serie di dolori che distruggono lentamente e poi tolgono la forza di rialzarsi.
“Holly mi abbraccia.”
“Forza e coraggio, io sono qui e c’è anche la band. Non è come a Baltimora, non sei sola, ci sono tante persone che ti vogliono bene.”
Io annuisco e mi asciugo una lacrima.
Niente pace per me, ancora una volta devo lottare.
Non posso annegare i miei demoni, sanno nuotare (*).

Angolo di Layla.

(*) traduzione esatta di "I can't drown my demons, they know how to swim", parte del testo di "Can you feel my heart" dei Bring Me The Horizon.

Onestamente, visto lo scarso interesse non so se pubblicare i seguiti vari, mi sembra semplicemente farlo. Ditemi voi.

Ringrazio Iloveyoug per la recensione.

   
 
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