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Autore: Ely79    19/01/2014    2 recensioni
Vorreste trasformare la vostra ridicola Urbanhare in un mostro capace di far sfigurare le ammiraglie del Golden Ring? Cercate più spinta per i vostri propulsori a vapore compresso? Spoiler e mascherine su disegno per regalare una linea più aggressiva al vostro mezzo da lavoro? Una livrea che faccia voltare ogni testa lungo le strade che percorrete? Interni degni di una airship da corsa, con quel tocco chic unico ed inimitabile?
Se cercate tutto questo, grande professionalità ed un pizzico di avventura, allora siete nel posto giusto: benvenuti alla "Legendary Customs".
[Ambientazione Steampunk]
Genere: Avventura, Commedia, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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L.C. - Cap. 28
28

Quando avevano portato quel veicolo per una riparazione d’urgenza, a Clayton erano cascate le braccia. Non aveva voglia di mettere mano ad un rottame di utilitaria mentre nell’officina riposavano mezzi infinitamente più gloriosi e degni d’attenzione, ma si trattava di un cliente abituale, una brava persona che usava l’airship per lavoro ed aveva sempre saldato i conti, non poteva negarglielo.
La Dumil era nota in tutto il mondo come una delle airship più rognose in assoluto. L’imbecille che l’aveva progettata era stato riconosciuto quale Re degli Incapaci, avendola infarcita d’errori progettuali oltre il ragionevole limite di meccanica decenza. Per non parlare del blocco dell’alternatore - centro del problema -, modellato in maniera tale che per mettervi mano era necessario essere dei contorsionisti, oltre che santi dotati d’infinita pazienza.
«Ancora qui?»
Si stupì di udire la voce di Scorch. Era convinto avesse imboccato l’uscita con gli altri un paio d’ore prima, invece stava lì, le maniche della camicia arrotolate sopra i gomiti e delle occhiaie da far spavento.
«Già. E tu?» grugnì raddrizzandosi a fatica.
I muscoli ruggivano di dolore per le troppe ore passate sotto sforzo e il gomito aveva ripreso a fargli un male d’inferno, ma avrebbe tenuto duro. Stava vivendo il miglior periodo della sua vita lavorativa e l’avrebbe sfruttato al massimo, a costo di finire smontato dalla fatica.
«A casa non ho questo gran daffare, sai? E ho degli arretrati qui. Anni di arretrati» precisò, ingollando una lunga sorsata da una capiente tazza di ceramica.
«Adesso ti sbronzi di caffè?»
Scorch poggiò un occhio sul contenitore e cominciò a ridere in maniera idiota facendo smorfie. Per un attimo sembrò tornare il solito ubriacone, ma l’impressione svanì non appena si ridiede un contegno.
«Avresti ragione se fosse caffè, ma Maria Pilar ha trovato qualcosa di meglio. Una roba che sa di caffè ma non è caffè» sorrise trangugiando un nuovo sorso.
«Sarebbe?»
«Tisana alle erbe. Non chiedermi quali, non ne ho idea. Credo la faccia lei, quindi potrebbe esserci dentro qualsiasi cosa cresca tra qui e casa sua. È da quando sono tornato che ha cominciato a rifilarmela. Dice che la prende per rilassarsi e schiarirsi le idee, e…» s’interruppe guardando intorno, quasi temesse di veder sbucare Charlotte, per poi esclamare a voce più bassa: «cazzo, Clay, dovresti provarla! Questa brodaglia è una  fottutissima bomba! All’inizio mi faceva quasi vomitare le budella…»
«Ma che bellezza» sbuffò.
«Sì, sì, lo so. Però col passare dei giorni mi sono accorto che non era così male. E non era per via dell’alcol che se ne andava, è buona davvero. Certo, il peggiore dei caffè batte quest’intruglio a mani basse, e la notte non dormo per niente come invece sosteneva Maria, ma mi piace. Mi fa sentire pieno d’energia, positivo. E posso berne quanta voglio, male che vada devo correre al cesso. Vuoi assaggiare?» disse allungandogliela.
Clay diede una rapida annusata prima di rituffare la testa calva e sudata tra le lamiere. L’odore in effetti ricordava un espresso, anche se più dolciastro e speziato. Aveva persino un vago sentore di biscotti.
«Passo» rispose scostando un fascio di cavi.
Sotto al groviglio emerse una flangia. I bulloni erano piuttosto sporchi e smussati, ma pareva che finalmente avesse raggiunto il bandolo della matassa.
«Vuoi una mano?» chiese Scorch poggiando la tisana e avvicinandosi.
«Perché? Ti ricordi come si usa una di queste?» sogghignò mostrandogli una chiave inglese.
«Ehi, marmocchio, non sono così decrepito da non saper distinguere una da un pollice e mezzo dal manico di una scopa!» sbottò togliendosi la camicia. «Allora? Che ti serve?»
Il capofficina si voltò a guardarlo, genuinamente sorpreso.
«Vuoi farlo davvero? Conciato così?» fece additando il bel paio di pantaloni che indossava sopra le scarpe di vernice.
«Dammi qua o dirò alla tua cara ex-moglie che sei ingrassato ancora» malignò strappandogli di mano l’attrezzo e pungolandolo al fianco.
«Senti chi parla! Tra un po’ farai compagnia a Pancake!» gli rinfacciò indicandolo a sua volta, rendendosi conto solo in quel momento di come quell’uomo avesse un aspetto più sano e robusto rispetto a quello che aveva raccolto sul pavimento dell’appartamento a Cenelia.
Rimossero con cautela il tratto di tubazione primaria che serpeggiava disegnando ben due gomiti sopra l’alternatore, badando a non intaccare i cavi. Misero mano al carter che lo ricopriva, svitando boccole e allentando morsetti, stando attenti che la protezione, crepata in più punti, non andasse definitivamente in pezzi.

***

Avelan li fissava con uno strano ghigno nascosto nella barba. Rigirava tra le dita il calice di champagne, insolitamente taciturno, quasi assente. Con il pollice sfiorava l’anello d’onice che indossava sull’indice, premendo il polpastrello sulle graffe del castone con tanta forza da far sbiancare l’intera falange.
«Per l’amor del cielo, Ostap, non t’azzardare!»
L’esclamazione improvvisa di Sandy lo fece sobbalzare sul divanetto.
«Come, prego?»
Lei lo incenerì con lo sguardo, accavallando le gambe così che il tacco a stiletto arrivasse a minacciargli il ginocchio.
«Non verrai a dirmi che sei geloso di Aris! Mi bastano le lamentele di Clay, non ti ci mettere pure tu!» sibilò.
«Io? Geloso? Dò quest’impressione? Thomas, benedetto ragazzo, sto diventando davvero tanto equivoco?» domandò sgranando gli occhi sulla guardia del corpo, che si limitò a replicare con uno sguardo vago.
La donna si lasciò cadere indietro, esasperata dai modi infantili del cliente. Ne aveva abbastanza di uomini che si comportavano peggio di suo figlio quando combinava qualche guaio.
«Sandy, temo tu abbia frainteso. Non sono affatto geloso di Aris! Magari gli invidio la forma fisica perfetta, quel completo color oro pallido che io non potrei mai indossare con tanta grazia e la parte di introiti che gli derivano dall’essere un astuto pubblicitario, ma non ne sono affatto geloso. Non nel senso sentimentale del termine» puntualizzò, seguendo con la coda dell’occhio l’abito ambrato che volteggiava sulla pista. «Semplicemente sono in pensiero per la nostra Charlotte. L’ultimo loro incontro non si è risolto nel migliore dei modi e qui attorno ho visto l’odioso guardaspalle che l’ha spaventata a morte. Ho sperato che Aris mostrasse più giudizio nello scegliere i suoi assistenti, ma sono stato disatteso».
Clench si aggirava per il salone, facendo capolino di tanto in tanto tra la folla di invitati. Gettava occhiate in direzione del suo capo, ma non pareva intenzionato ad avvicinarlo. Perse addirittura tempo con Mac Gregor: il giovane rideva sguaiato e lo scrollava, richiamandolo appena tentava di allontanarsi, tanto che il tirapiedi aveva difficoltà a liberarsene.
Nel frattempo, sulla pista da ballo lo sguardo di Charlotte era catturato dai variopinti luccichii del bastone da passeggio di Aris, il quale non l’aveva abbandonato durante il ballo e lo sorreggeva tra l’indice e il medio, senza per questo lasciare che la mano di Charlotte si posasse altrove. Nel cristallo del pomello si mescolavano sprazzi del suo abito e di quello del suo cavaliere, riverberi opalini e scintille.
«Vi incuriosisce?» le domandò ad un tratto.
Lei si riscosse, sentendosi piuttosto sciocca.
«Scusate, non volevo sembrarvi invadente» si schermì, volgendo altrove lo sguardo.
«Non lo siete. Attira più attenzione di quanto si possa supporre» ammise gettando indietro i lunghi capelli biondi con un elegante cenno della testa.
«Il fatto è che non mi pare ne abbiate bisogno, le vostre gambe si muovono senza problemi. Mi chiedevo se si trattasse di un vezzo da gentiluomo» sorrise educatamente.
«Solo in parte. In realtà mi è d’aiuto a sostenere ben altri equilibri che quello fisico» replicò, osservandola con un piglio tale che pareva contasse le perle sulla sua acconciatura. «La mia mente spesso si perde per vie curiose e stringere quest’artefatto mi è di enorme aiuto per tornare a poggiare piedi sulla terra. Diversamente, sarei altrove anche in questo momento e voi pensereste che sono un terribile maleducato».
«Una lavorazione molto raffinata e originale» sviò abilmente Charlotte.
A dispetto della cortesia, qualcosa nelle parole di Goundoulakis l’aveva fatta sentire a disagio al punto da causarle un paio di dolorosi singulti.
«In questo mi rispecchia. Ambisco al meglio, allo splendore derivante da ciò che esiste di più alto e perfetto. Ora permettete che sia io ad essere indiscreto?» domandò allontanandola quel tanto da permetterle di eseguire la lenta piroetta richiesta dalla danza. «Vorrei conoscere la natura del rapporto che la lega ad Avelan. L’altra volta ho compreso a mie spese che non è invaghito di voi, ma la sua solerzia nel soccorrervi mi ha colpito».
«Conosco il signor Avelan da circa cinque anni. Una sua società acquisì quella per cui lavoravo allora, salvandola dal fallimento. Mi prese in simpatia e da allora ci siamo visti spesso».
«In che settore operava la società?» s’informò.
«Industria cartaria».
Aris non parve affatto stupito, anzi.
«E pur tessendo di continuo le vostre lodi, non ha fatto in modo d’avervi al suo servizio. Non lo trovate bizzarro?»
«Non più di tanto. Tempo fa mi offrii io stessa di lavorare per lui, ma rispose che i suoi affari avrebbero potuto rivelarsi dei “colossali agglomerati d’indisciplinata follia, capaci di far perdere il senno alle montagne”, e che solo lui e pochi altri del suo staff fossero in grado di gestirli senza dover ricorrere a sotterfugi» rise, leggermente stordita dal vortice delle danze.
«Sotterfugi come l’alchimia?» ipotizzò distrattamente Aris, lanciando uno sguardo al suo omologo ancora seduto accanto a Sandy. «Dopo tutto, la Russia ha una lunga tradizione di studi esoterici».
Charlotte perse un tempo, irrigidendosi.
«Questa è un’insinuazione assurda, signor Goundoulakis! Il signor Avelan non farebbe mai nulla del genere!» protestò impallidendo più per la mano dell’uomo posata sulla sua schiena all’altezza del cuore che per l’illazione in sé.
Nonostante la spessa gabbia del corsetto la proteggesse da qualunque contatto, temeva che le vibrazioni degli ingranaggi del cuore artificiale potessero trapassare l’imbottitura.
«Perdonatemi. Come immagino sappiate, mi diletto nello studio di questa materia, e di riflesso finisco col supporre di non essere il solo» si giustificò, stringendo leggermente la presa attorno al suo busto mentre si abbassavano per attraversare il tunnel formato dalle braccia degli altri ballerini. «Quindi, vi tiene lontana dai suoi affari per tutelare la vostra salute?»
«Così parrebbe» ansimò.
«Molto premuroso. E saggio» soggiunse scrutando di sottecchi il magnate russo.
Le ultime note del brano lasciarono posto all’appaluso dei presenti. Charlotte ringraziò d’aver concesso un solo ballo a Goundoulakis: cominciava a provare una strana sensazione, un timore denso, gelido e opprimente.
Mentre Aris la riaccompagnava a bordo pista, scambiò con Ostap un’occhiata silenziosa.
«Vi siete divertiti?» domandò Sandy, annoiata dalla lunga permanenza sul divanetto.
«La signorina Vernet è una buona ballerina, ma temo abbia bisogno di una pratica più costante. Queste variazioni di ritmo la provano oltre misura ed è un vero peccato» rispose Aris, mostrando d’aver preso per affanno i lunghi respiri affannati della donna.
«Su Charlotte, vieni» sospirò alzandosi in un turbinio di lustrini. «Ho bisogno di darmi una rinfrescata prima di andare a salutare il Governatore».
Charlotte fece per seguirla, ma il suo partner la trattenne.
«Spero perdonerete la mia scortesia di poco fa. Non era mia intenzione rovinarvi la serata» bisbigliò baciandole la mano.
«Ne… ne sono certa» rispose intimorita, provando la sgradevole sensazione d’essere in trappola.
Gli occhi scuri che la fissavano ricordavano quelli di un serpente, ugualmente fissi e imperscrutabili.
«Uomini! Devono sempre giocare a chi l’ha più grosso!» sbottò irritata Alexandra trascinando via l’amica.
Ostap e Aris non le guardarono allontanarsi, presi da un muto confronto.
«Ritieni di avere una buona mano da giocare, caro Aris?» domandò infine il primo.
«Preferisco gli scacchi alle carte, dovresti saperlo» ribatté alzando il bastone per ammirarne lo scintillio.
«Chiedo venia. Sia come desideri, allora. Pensi di aver fatto le mosse giuste per accaparrarti la corona del re?»
«Ebbene sì, ora che so dove scovare la regina. Una volta privato della sua presenza, il re sarà alla mia mercé» dichiarò con vaga soddisfazione.
Il russo si alzò sfoggiando un gran sorriso, chiudendo la mano sul pomello di cristallo. Una nube di cupe sfumature prese a vorticare all’interno.
«Attento Aris. La Grande Madre Russia non ha dato i natali solo a pericolosi alchimisti. Annoveriamo anche i migliori scacchisti del mondo. Non si può dire altrettanto dell’assolata Grecia».

***

Erano passate le undici quando Clay e Scorch uscirono dall’infermeria. Armeggiando con il carter avevano finito per procurarsi diversi graffi su mani e braccia, che avevano medicato solo a lavoro ultimato. Era stato come tornare indietro nel tempo, ai loro primi passi nel mondo dei motori, quando trascorrevano ore e ore infilati in cofani simili a fauci di mostri abissali, intralciandosi a vicenda nello svitare, tirare, martellare, tagliare e serrare, sporchi fino al midollo di limatura di ferro, grasso e combustibile.
Mentre disinfettavano le abrasioni tra risolini ebeti e inutili ostentazioni di machismo, Clayton aveva osservato con attenzione il cugino come suggerito dal medico, e ciò che vide lo stupì. Sembrava guarire ad una velocità fuori della norma, quasi che la sola idea di chiudere col passato gli stesse restituendo parte di quel che aveva perduto. I profili delle costole si vedevano a malapena e la pancia che sporgeva in maniera imbarazzante sopra la cinta era quasi svanita. La psoriasi e i lividi che si procurava sbattendo ovunque erano poco più che vaghi aloni sulla sua pelle. Persino il suo colorito aveva recuperato una tonalità più solare e sana.
«Ti va una birra? L’“Archituono” dovrebbe essere ancora aperto» propose Niklas, abbottonando rapidamente la camicia spiegazzata.
Far scomparire alla vista l’ustione sul suo petto era qualcosa che gli procurava enorme sollievo. Nella sua testa equivaleva a zittire le accuse scomode e odiose che non sopportava più di sentirsi rinfacciare, sebbene morisse dalla voglia di mostrarla a Charlotte per dirle che senza quell’enorme errore e tutto ciò che ne era conseguito, probabilmente non si sarebbero mai incontrati. Era una cosa melensa e svenevole, ma era convinto avrebbe colpito nel segno, soprattutto ora che la vedeva bisognosa di una persona forte cui appoggiarsi e lui si sentiva pronto ad impersonare il cavalier servente.
Clay lo fissò aggrottando la fronte.
«Una birra? All’“Archituono”? Tu?»
«Calma, cuginetto. Ho chiesto se a te va una birra. Io mi faccio un bel bicchiere di seltz con un paio di fette di limone. E magari butto giù un boccone: avvitare quella robaccia mi ha messo appetito» chiarì. «Sono diventato un bravo ragazzo, ricordi? Nien-te-al-col» scandì entrando in ufficio.
Clay lo seguì scuotendo la testa.
Nella stanza regnava un ordine rigoroso: non c’era traccia di bottiglie vuote né di bicchieri sporchi e scheggiati, i libri e i documenti erano stati raccolti e riordinati, i gessetti per la lavagna e la cancelleria erano riposti con cura in scatole e portapenne. Maria Pilar era riuscita a trovare il coraggio per mettere piede lì dentro e spolverare ogni angolo, sicura di non correre il rischio di sentire Scorch dare di matto.
«Cos’è questa roba?» chiese, raccogliendo una cartellina dalla scrivania.
«Scarabocchi» rispose il progettista facendo spallucce.
«Lo vedo: non si capisce niente di quel che hai scritto. Però questi sono nuovi di zecca» insisté prendendone alcuni con la data del giorno prima per osservarli meglio. «Di che si tratta? Una commessa o  progetti tuoi, di quelli che facevi una volta?»
Parlare di quegli schizzi era per Scorch croce e delizia. Poteva perdersi per ore nei dettagli, raccontando di calcoli, teorie, materiali, linee di forza, flussi aerodinamici e potenze. Lui vedeva le airship materializzarsi nella sua testa, ne sentiva il rombo, le vibrazioni; conosceva i difetti prima ancora di accertarli sulla carta. Diventava incredibilmente loquace e noioso per chi l’ascoltava, ciononostante Clay si divertiva un mondo a stuzzicarlo.
«Sì, ecco… non ho mai smesso. Non del tutto» ammise. «Sogno ancora di realizzarne una».
Progettare airship da corsa era la sola cosa che i galloni d’alcol ingeriti negli anni non gli avevano tolto. Creare una belva divoratrice di strade, figlia della velocità e del metallo, qualcosa che avrebbe lasciato un segno nella storia. Era certo sarebbe riuscito a realizzarla, un giorno.
«Sembra derivata dalla Stormbreaker, il modello uscito una quindicina d’anni fa, ma è più affusolata e sulla linea di galleggiamento ha questi… alettoni?» domandò indicando una serie di linguette rettangolari che dal muso si ripetevano fino alla coda.
Il progettista prese il disegno abbozzando un sorrisetto.
«Stabilizzatori a contrasto di pressione. Si aprono nelle curve strette, sfruttando la differenza di pressione dell’aria lungo le fiancate per mantenere il mezzo in assetto, visto che è di cinque piedi più lungo del modello originario. E ho invertito la disposizione dei contrappesi, per limitare le scodate in partenza».
Clay rimase a bocca aperta.
«Niente male. Dico sul serio» si complimentò. «È un peccato che in questo momento non possiamo buttarci su queste cose. Non ci siamo mai riusciti» soggiunse dispiaciuto.
«Considerali un mio divertissement fino a quando potremo tradurli in pratica» suggerì.
Era un sogno che languiva nel cassetto fin dalla loro infanzia, quando realizzavano modellini di latta e cartoncino, sicuri che costruire un’airship fosse un gioco dove l’unica risorsa indispensabile si chiamasse fantasia.
«Se riuscirò a sopravvivere» sbadigliò Clayton massaggiando il gomito.
«Dovrei dirlo io, non tu».
«Tu hai la pelle dura e hai superato cose peggiori».
Niklas gettò i fogli nel cassetto della scrivania e lo chiuse a chiave.
«E il divorzio? Vorresti farmi credere che è stata una passeggiata? Mi rincretinisci ancora adesso sul quanto è difficile vedere così poco i ragazzi, sopportare di non avere Sandy nel letto o poterti solo sognare il pasticcio di tua suocera!»
Il cugino gli mostrò il medio, infastidito dalla consapevolezza di avergli realmente ripetuto quelle cose miliardi di volte.
«È tutta la faccenda del contratto con Avelan che mi sta facendo impazzire. E i bambini, i clienti, la banca, i fornitori, le spese, gli avvocati, la pubblicità, i giornalisti, Avelan, Pancake che rompe i coglioni da mattina a sera… quel maledetto figlio di puttana di Aris! Sandy non basta più a sostenere tutto questo e neanche Charlotte. Rischio di veder crollare tutto sul più bello e non voglio succeda» sospirò premendo le mani sulla faccia.
Scorch fece una smorfia, annuendo stancamente. Sapeva di cosa stava parlando: ubriaco o no, lui aveva distrutto con le sue stesse mani la prima “Legendary Customs” lasciandosi sommergere dalle responsabilità e dagli eventi, cercando aiuto nella bottiglia e in forze che non possedeva.
«Pensavo una cosa» proseguì Clay, grattandosi la mascella. «Forse è prematuro. Insomma, ti stai mettendo in sesto solo da… cosa sono? Due settimane?»
«Quattro» rimbrottò sistemando la camicia nei pantaloni.
«Quattro?» esclamò strabuzzando gli occhi e premendo una mano sulla bocca. «Cazzo… sembravano meno. Ho perso il senso del tempo».
«Clay, non voglio dormire qui. Dove vuoi arrivare?» lo incitò Niklas, dandogli le spalle mentre infilava la giacca.
Non avendo specchi nell’ufficio, usò l’effetto riflettente che il buio dava alla finestra per rendersi presentabile prima di uscire.
«Vorrei farti rientrare come socio alla “Legendary”» buttò lì il capofficina, come se parlasse del tempo.
Il cugino rimase di sasso, un braccio allungato nell’aria e la giacca indossata a metà.
«S-socio?» balbettò.
Nonostante la vertigine non riuscì ad impedirsi di sorridere. E l’immagine che gli restituì il vetro scuro era interrotta dal traverso proprio all’altezza delle labbra, spezzando la sua vera espressione. Finì di vestirsi e si voltò a guardarlo, attendendo chiarimenti.
Clay si stiracchiò, controllando se da qualche graffio tornava a gocciolare sangue.
«Non una cosa impegnativa, sia chiaro, anche perché dubito che la banca sarebbe d’accordo a farti rientrare con una parte importante dopo i tuoi disastri dell’altra volta; dobbiamo dare un minimo di garanzie alla stabilità dell’azienda. Pensavo al cinque percento, dieci al massimo. Così, per iniziare. Magari tra un paio d’anni rivediamo la cosa, aumentiamo la quota… intanto puoi riprendere la mano con i “piani alti”, imparare di nuovo a gestire delle responsabilità che non riguardino solo i progetti».
In piedi all’altro capo della stanza, Scorch prese un profondo respiro passando le mani fra i capelli chiari. Stava lottando contro una voce che solo lui poteva sentire, il desiderio di tornare in possesso di un pezzo della sua vita che ancora gli sfuggiva. Infine scrollò le spalle voltandosi verso di lui.
«Hai ragione: è troppo presto» tagliò corto, facendo per andarsene.
«Niklas».
Reagendo all’abituale minaccia nascosta nella chiamata, l’uomo si fermò. Tuttavia lo sguardo dell’altro era ben lungi dall’essere incattivito.
«Pensaci» insisté guardandolo da sotto in su. «Non serve che tu dica subito di sì se non te la senti, ma almeno considera la proposta. So che tieni alla “Legendary” più di quanto dai a vedere».
L’ingegnere rimase dov’era, lo sguardo fisso sul cugino sebbene la sua mente guizzasse frenetica sulle parole che componevano la proposta. Clayton sapeva bene di aver messo sul fuoco un pezzo di carne delle dimensioni di un cargo zeppelin sperando di riuscire ad ingolosire la preda, e si augurava che l’azzardo pagasse.
«Ci penserò quando mi offrirai di tornare a capo di tutta la baracca» scherzò Scorch assestandogli una pacca sulla spalla. «Adesso alza il culo e portami a casa. Grazie a quel catorcio ho perso l’ultimo omnibus per Cenelia».


Writer's Corner.
Mi spiace non riuscire a tenere il passo delle solite pubblicazioni. Cercherò di riprendere la cadenza settimanale al più presto.
Ben arrivato a windshade. Aspetto il tuo contributo!
Grazie agli altri lettori e recensori: Shade Owl, pheiyu, Wild_Demigods, Akainu magma, blood_mary95, maddampini, Ernesto507, LibertyStyle, Heven Elphas, tortuga1, vita17, TheWhiteDoll, AleGritti92, VersoLUniverso, John Spangler, Nikolas P/Aurelianus.
   
 
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