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Autore: BlueSkied    22/01/2014    1 recensioni
La notte dell'Epifania del 1537 Alessandro de'Medici, detestato duca di Firenze viene assassinato dall'amico e congiunto Lorenzaccio de'Medici.
Tocca allora a Cosimo de'Medici, figlio del capitano di ventura Giovanni dalle Bande Nere ed erede del ramo popolare della famiglia, prendere il potere.
Tra raffinato mecenatismo artistico, nuove politiche e disgrazie familiari, condurrà la Toscana verso il Granducato, con la cauta inesorabilità del suo motto.
Note: mi sto documentando il più possibile, per rendere la storia verosimile, ma qualcosa potrebbe sfuggirmi, anche perché spesso le fonti si contraddicono.
Per finalità di trama, alcuni passaggi potrebbero essere violenti.
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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20.


Livorno - Pisa, Novembre - Dicembre 1562


Giovanni


Mi ricordo una volta, dopo una giornata come questa, io e Isabella ci siamo messi a ballare nel mezzo della sala, in villa.
Non importa quanto fossimo stanchi, e con le gambe indolenzite dalla sella: lei aveva imparato quella danza francese, e più di ogni cosa voleva far vedere al babbo quanto era brava.
" Se ci sarai anche tu" mi disse, con tutta la serietà dei suoi dieci anni " La mamma non mi sgriderà". Non faceva poi tanta differenza, nostra madre è sempre stata severa con tutti, ma in effetti, con un complice accanto, quella sua piccola trasgressione poteva sembrare meno colpevole. Così accettai. 
Il camino ardeva, e le serve facevano arrostire sulla fiamma viva delle bruciate per i signori riuniti attorno al tavolo da gioco. Una scena che ho visto uguale per anni, con le risate, l'abbaiare dei cani, le battutacce sguaiate di Morgante che dileggiava i perdenti. E fra questo, la voce di mia sorella quella sera si levò all'improvviso: " Babbo, mamma, guardateci!" e la sua piccola mano si strinse attorno alla mia, guidandomi nei passi e nei saltelli. Un gioco nuovo, nient'altro che questo. I nostri genitori ci osservavano, le balie ci guardavano mezze nella disapprovazione, mezze nel divertimento, i signori fecero qualche complimento di circostanza. Alla fine, il duca nostro padre ci accarezzò e regalò un dolcetto a testa, e noi eravamo felici, di aver scampato i rimproveri e di essere stati così bravi.
Era un giorno identico a oggi, ma di almeno dieci anni fa, e non so perché proprio questo ricordo mi si è affacciato alla mente, guardando i boschi cupi che inframezzano questa piatta distesa dorata dall'autunno, umida come ogni palude, ma ogni anno sempre meno. Una mantellina porpora non fa di me qualcuno di diverso, ma le cose sono ugualmente cambiate. Nessuno di noi ancora sapeva che i tempi della spensieratezza sarebbero finiti a breve. Isabella danza ancora nel suo castello, nei suoi palazzi, inattaccabile dal dolore, ma io non ho più potuto unirmi a lei. Sono cresciuto, mio malgrado, e i giorni identici uno all'altro non esistono più.
Devono essere questi i pensieri che affollano il letto di un malato, idee malinconiche più adatte a un vecchio, che a un ragazzo. Deve essere la febbre a rendermi tanto triste.  

Il cardinale aveva solo una febbre passeggera, così sembrò, così dissero. I suoi compagni l'avevano visto distratto, depresso nel morale durante la caccia, ma egli aveva replicato d'essere solo stanco. Ciononostante, la sera era stato allegro come sempre, spensierato nei suoi diciannove anni, e si era messo a letto chiacchierando con i suoi fratelli. La mattina rivelò quella febbre, non alta, ma fastidiosa. Il ragazzo accettò un salasso, certo di essere in piedi per il giorno dopo. Il duca gli fece compagnia, per distrarlo dalla noia, la duchessa lo accudì, ignorando il proprio cronico malessere, ma Giovanni stava peggio ogni ora che passava.
Conscio del suo dovere, chiese la comunione e si confessò. Ai fratelli fu vietato di fargli visita, mentre il duca tratteneva la furia che gli montava dentro verso i dottori, che continuavano a salassare il ragazzo e a ripetere che era solo febbre. Ma arrivarono il delirio e l'incoscenza. La notte del quinto giorno di malattia, il cardinale Giovanni diede l'ultimo respiro, in un sonno inconsapevole.

Garzia


Volevo una spada nuova. Sono andato dal mastro armaiolo e gliel'ho ordinata, tutta istoriata, adatta per combattere sulla tolda di una nave. Mi piace il mare, grande e incontrollabile. La prima volta che l'ho visto, ero talmente piccolo da non riuscire a vedere al di là del finestrino della carrozza. Così la mamma mi ha alzato sulle ginocchia e mi ha mostrato quella striscia blu, che a me pareva  una distesa di montagne piatte. Mi ha detto che era acqua salata, e che le navi ci viaggiavano sopra. Era un' immagine magnifica, come cavalli che correvano velocissimi su nuvole scure. A bordo di una di esse, pensavo, sarei stato più veloce e forte sia di Francesco, sia di Giovanni, un pensiero che non mi ha mai abbandonato.
Anche quando i miei maestri mi hanno messo in mano i primi stocchi di legno, diventati poi spade da addestramento, io sognavo le navi, e non mi sono mai sentito più in alto di quando mio padre mi portò a vedere quelle della flotta in costruzione. Nemmeno quando in chiesa, davanti a ufficiali e cavalieri investiti, il duca mi ha nominato Generale dell'Ordine di Santo Stefano. Sono il capo della marineria, adesso, e un giorno solcherò veramente il mare, ricoprendomi di una gloria che Francesco non conoscerà, che Giovanni...che Giovanni non potrà più conoscere.

A quindici anni, Garzia si era già rivelato difficile da gestire. Un'indole orgogliosa e incline alla violenza, accentuata ancora di più dall'età, aveva dato non pochi pensieri a suo padre. Ma era il terzo dei suoi maschi, la carriera militare spettava a lui. Forse la vita in mare avrebbe addomesticato la sua tempra.
Cominciò a star male quando suo fratello era prossimo a rendere l'anima. Altri del seguito si stavano ammalando, ma molti guarivano, e anche presto. Cosimo de'Medici non aveva ragione di credere che anche suo figlio non dovesse salvarsi. Con ancora la fascia nera del lutto intorno al braccio scrisse a Francesco, in Spagna, assicurandogli che Garzia e anche Ferdinando, malato come lui, si sarebbero ripresi.
La discesa di Garzia fu lenta, lasciando nei suoi occhi solo l'ardore malsano della febbre. Poi si arrese.

Eleonora


" Perdonéme, padre, porque..."  Non posso andare avanti. Non riesco quasi più a respirare, ogni boccata d'aria brucia come il fuoco e ho il petto a pezzi a furia di tossire. Il sapore metallico del sangue m'impasta la bocca, ma è troppo importante parlare. Sputo nel catino e ci riprovo, ma ho la voce flebile, tanto che il mio buon padre confessore deve chinarsi verso di me, il pannicello ben premuto sul viso. Gli dico che ho peccato: peccato di vanità, ira e superbia. Sono stata avida, non ho mai saputo perdonare, sono stata ambiziosa.
Ma gli dico anche che ho sempre confidato in Dio, e il respiro mi tradisce di nuovo e tutto il resto rimane nel profondo, solo per gli occhi e le orecchie del Signore. Lui vede e sente i volti e i nomi dei miei figlioli, sa che non ho vissuto che per loro, ch'Egli ha chiamato a Sé fin troppo presto. Pedricco, Anna e Antonio, volati al cielo prima ancora di alzarsi sulle gambe, la mia Maria, Lucrezia, sposa  morta prima di maturare un frutto suo,
il mio bel Giovanni e la luce dei miei occhi, Garzia.
Così Tu punisci le mie mancanze, mi Dios,e strappi la mia anima dall'albergo del suo bene terreno. Lo sento camminare fuori da questa stanza: mi ha lasciato col gesuita perché mi confessassi, ma è come se fosse davanti a me. Gli anni hanno gravato sulla sua figura, dei folti ricci non resta che una stempiatura, ma egli è forte, nulla si è spento nel suo sguardo.
Ora comprendo, Dio Onnipotente, perché mi vuoi per prima al tuo cospetto.


La duchessa era uno spettro, di quelli di cui vociferavano le vecchie invasate. Lo era da mesi, forse da anni, ma adesso suo marito la vedeva, con terribile chiarezza. La carne pareva svanita dal corpo che s'indovinava sotto le coltri, il viso era scavato e grigiastro, gli occhi infossati come pozzi oscuri. Giaceva malata da venti giorni, definitivamente abbattuta dal suo male e dalla morte del cardinale. Non le aveva detto di Garzia, ma la sera che era morto, ignara di tutto, era scoppiata in lacrime sfinite.
Da allora era diventata quieta, quieta e lucida come solo chi è già steso nella tomba. Con le poche forze che le restavano si confessò e comunicò, poi fece testamento. La morte era l'ultimo affare da sbrigare, una tenuta da amministrare, un ordine da impartire. Vegliandola in questa disposizione d'animo, Cosimo comprese ragionevolmente di doverla perdere.
Quando uno dei dottori gli disse, con molto rispetto, che Sua Eccellenza non avrebbe visto l'alba del giorno dopo, il duca si limitò ad annuire. Sedette al capezzale della moglie e le prese la mano, sentendole il polso ormai debolissimo.
- Eleonora - la chiamò, visto ch'ella teneva lo sguardo al baldacchino sopra di lei, ma si voltò subito.
- Dovete affidarvi a Dio, mia signora. Lasciate senza angoscia questa vita, i figlioli e me, perchè Nostro Signore, nella Sua misericordia, vi accoglierà e vi renderà la salute e la pace - le disse, con delicata fermezza.
- Così sia - rispose lei, con calma rassegnazione. Mosse appena le dita scheletriche nella mano di lui, quasi ad assicurarsene la presenza, e rinsaldò la presa sul crocefisso che stringeva al petto. Mise sé stessa nelle braccia delle sue uniche guide. Fu sveglia e presente fino all'ultimo momento, quando l'estremo spasmo di vita le sfuggì dalle labbra in un sospiro.
Cosimo precipitò. Sentì distintamente la sua esistenza scivolare verso il basso come una cappa male allacciata, ma niente sul suo volto cambiò, né nei suoi atteggiamenti. Fissò a lungo, con compostezza, le spoglie inerti dell'amata consorte, cosìcché i presenti credettero che pregasse. In realtà, ricordava. Ricordava la ragazza che aveva sposato, non la duchessa. Quella che sapeva ridere delle peggiori scurrilità e amava il gioco d'azzardo, che era contenta come una bimba quando acquistava un nuovo gioiello, che faceva smorfie ai bambini per farli ridere, che coi capelli sciolti e in camicia avrebbe fatto invidia alle cortigiane oneste di Tiziano.
Il dolore che provò fu talmente profondo da non poter essere espresso. Per questo non pianse e non sacramentò.
L'opera di Dio era sempre intesa al bene, e il duca confidò in una speranza: sarebbero stati riuniti, tutti, un giorno.




Note:

Oddio, che parto è stato questo capitolo. Ho cambiato lo stile narrativo perché mi pareva adatto alla circostanza. Devo confessare che è stata dura lasciare andare tre personaggi in un colpo solo così, ma è storia.
Nell'autunno 1562 Cosimo si recò con i figli Giovanni, Ferdinando, Garcia e Isabella e la moglie in Maremma, per controllare i lavori di bonifica da lui ordinati. Nel giro di un mese i maschi e la duchessa, già affetta da tubercolosi, si ammalarono, probabilmente di malaria. Solo Ferdinando si salvò.
Ho cercato di raccontare l'evento con precisione, avendo letto diversi documenti, tra cui lettere autografe, che lo riportano. Ho voluto mettere le parti in prima persona per dare una specie di addio a questi personaggi. Forse lo farò ancora, non so, ma spero il salto di stile non sia fastidioso.

Le bruciate sono le caldarroste.



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