In the mosaic.
Because I see in you what you
yourself do not see.
Quella mattina
Amsterdam aveva ospitato la neve assieme ai
suoi soliti passanti, raggelati e di fretta. Amsterdam non era la
città che
tutti raccontavano, ma come ogni città che esiste al mondo;
non per niente la
gente dice “ogni città è
paese”. Amsterdam aveva parecchie storie da
raccontare…come
me ad esempio. Era domenica quella volta e con un sonoro sbuffo scesi i
gradini
e salii in macchina con malavoglia. Amavo i miei genitori, nonostante
erano
consapevoli di rubarmi l’unico giorno libero a mia
disposizione. Il mio
problema era sempre stato il non sapere dire di no, avevo sempre
accontentato
tutti e questo mio difetto, ebbene lo consideravo un difetto di quelli
peggiori
e ne avevo molti, molte volte mi aveva portato in un punto finito, dove
non c’era
nulla che io potessi fare o dire, dove mi ero persa nel mio famoso
bicchiere d’acqua.
Odiavo quel lato di me, odiavo anche me stessa il più delle
volte. Arrivai a
casa di mia madre alle undici, nonostante dovevo solo pranzarci, non mi
era mai
piaciuto arrivare a casa della gente per l’ora di pranzo,
potevo dare l’impressione
che fossi lì soltanto per mangiare. Mia madre era, come
sempre, indaffarata a
cucinare per un regimento di soldati, quando ogni volta eravamo sempre
i
soliti, io, lei, papà e Rose. Nemmeno Rose riusciva a dire
di no a mia madre,
il più delle volte persuasiva rivolto nei suoi confronti era
un eufemismo fatto
e finito. Mio padre era stravaccato sul divano a guardare i programmi
sportivi,
salii le scale e andai in quella che una volta era camera mia.
C’erano ancora
le fotografie dei miei vecchi amici, quelli che ho perso a causa dello
studio,
altri si sono trasferiti e altri ancora hanno preso strade opposte alla
mia.
Sfiorai con l’indice una foto che ritraeva me e Allyson, io
lei e Rose eravamo
ottime amiche, almeno fino al primo superiore. Ci rimasi di merda
quando si
allontanò definitivamente…e il mio cuore perse un
battito quando venni a
conoscenza di quello che fece della sua vita. Aveva abbandonato gli
studi,
nonostante io e Rosalie continuavamo a volerle stare accanto, anche se
aveva
uno spinello tra le mani, anche se lei ci guardava come se fossimo
delle
scolarette per il quale bisognava stare alla larga. Allyson batteva
nella
strada principale vicino all’aeroporto, Allyson aveva
abortito tre volte nel
giro di quattro anni, Allyson aveva perso l’orientamento che
conduce alla retta
via, Allyson amava la droga, lo sballo, Allyson si era allontanata da
noi e
aveva inconsapevolmente rovinato la sua vita. Ogni tanto la vedevo
girare nel
parco dove si affacciava il mio studio e, quelle poche volte, che il
nostro
sguardo si incontrava nei suoi occhi c’era puro odio. Mi
voltai vicino alla
finestra e mi incantai a guardare i fiocchi di neve che amabilmente
scendevano
dal cielo. Chissà perché in quel preciso istante
mi venne in mente Edward
Cullen. L’avevo visto solo due volte ed ero assolutamente
consapevole che
fossero poche, ma a essere sincera in lui non ci avevo ancora capito
una mazza.
Avevo solo capito che gli piaceva starsene in silenzio ed era in quei
momenti
che mi veniva in mente che pensavo: “che diavolo viene a fare
nel mio studio se
non parla?” non potevo fare niente con lui, fin quando non mi
diceva cosa in realtà
lo turbasse, avevo le mani legate. Il padre non si era fatto vivo e con
lui
nemmeno i suoi soldi, ma era amico di mio padre e quindi mi fidavo.
Anche se,
molte volte i soldi mi importavano meno di zero. In pochissime ore mi
ero
accorta di quanto quel ragazzo mi attraeva. Non appena si muoveva, il
mio corpo
era percosso da brividi, le sue mani…Dio le sue mani
riuscivano a scaturire in
me pensieri davvero poco puri che molte volte non facevano che farmi
vergognare
di me stessa. Edward mi piaceva e non poco, forse era anche per quello
che
volevo assolutamente sapere cosa c’era che non andava in lui,
dentro il suo
cuore e alla sua mente soprattutto. Scesi le scale con
l’espressione più
imbronciata che potessi fare e raggiunsi mio padre. Mi sedetti sul
divano al
suo fianco, nonostante lo spazio fosse ridotto a causa della sua
posizione da “oggi
sono libero e non mi va di fare nulla” e lo guardai, come
facevo sempre quando
volevo ottenere qualcosa da lui. La regola per volere qualcosa da mio
padre
era: pretendilo ma non farglielo capire.
«Dimmi Bells.» Infatti mormorò, con il
sorriso sulle labbra.
«Come va a lavoro? »
«Può sempre andare peggio…»
Disse sorridendomi. La maggior
parte dei clienti di mio padre avevano casi da grattacapo…si
vociferava che lui
fosse uno degli avvocati migliori della città e, in
automatico, tutte le
persone che avevano cause difficili da affrontare si rivolgevano a lui.
«Senti papà…»
«Bella, Carlisle mi ha detto che domani sul tuo conto avrai
mille euro accreditati, per le due sedute e per quelle che avverranno
in futuro…»
«Ma papà…sono venti sedute!»
«E?»
«Sono troppe! Soprattutto se la persona in questione non fa
nulla per risolvere dei problemi che in certi momenti non crede di
avere, e in
altri invece sì!» Sbottai arrabbiata! Ero io,
sempre e solo io, che decidevo il
numero delle sedute necessarie, soltanto io potevo rendermi conto se il
paziente fosse in parte tornato in sé. Potevano passare
settimane, mesi, anni…e
per Edward che non voleva essere aiutato, tendendo presente
ciò che lui stesso
mi aveva fatto intendere. Non costringevo nessuno, erano gli altri a
volere il
mio aiuto.
«Bella, ascolta…Carlisle ha bisogno di essere
aiutato con
Edward…vedi sono anni che è
così…così…disturbato…»
«Papà! Edward è sano! È
tranquillo! Cosa diamine vi fa
credere che lui non sia normale?» Urlai alzandomi di fronte a
lui che aveva
spento la tv e si era rivolto completamente verso di me.
«Bella…sua madre è morta quando lui era
piccolo, aveva solo
nove anni. Suo padre all’inizio sapeva che poteva prenderla
come uno shock,
così come per la sorella, Alice…fino ai tredici
anni Edward si comportava in
modo normale…ma non appena cominciarono le scuole medie, il
ragazzo cambiò.
Ricordo ancora quando all’inizio di tutto questo Carlisle si
confidava con me…Edward
aveva smesso di mangiare all’inizio,
tant’è che parecchie volte finì in
ospedale. Non parlava più, ogni tanto lo sentivano mormorare
nella sua camera
ma, mai sentirono realmente la sua voce, solamente i professori
riuscivano a
parlare con lui e, gli stessi, dicevano a Carlisle che non
c’era nulla di cui
preoccuparsi, che Edward era un ragazzo come molti, almeno
nell’ambiente
scolastico. Ricominciò a parlare con la sua famiglia il
giorno della sua
Laurea, il giorno dopo fece un disastroso tentativo di suicidarsi.
Carlisle da
quel giorno, oltre ad essere stato costretto dal primario del reparto
in cui
Edward era stato ricoverato a causa dei suoi maldestri tagli sui polsi,
decise
che comunque Edward aveva bisogno di uno psicologo. Ne girarono
un’infinità e
ogni volta che Carlisle mi avvertiva di aver fallito
l’ennesima volta io mi
sentivo in colpa. Conosco mia figlia, conosco il suo lavoro e,
soprattutto,
sono sicuro che solamente tu riuscirai ad aiutare realmente Edward.
Bella, io
la vedo in te, la voglia di aiutare la gente che ti parte dal profondo
del
cuore, la vedo la delusione quando pensi che qualcosa con i tuoi
pazienti
potrebbe andare storto…e la vedo anche adesso…la
voglia che hai di rompermi un
vaso in faccia perché sto affermando la verità.
Consigliai te a Carlisle e ora
siamo qui.» Disse con una strana agitazione in volto.
«Papà…io non credevo
che…senti, non ti prometto
nulla…solo…ci
proverò.»
«Bene.» Mormorò.
«Cerca di conoscerlo anche fuori dal lavoro…tipo
una cena…un
drink o…»
«Papà! »
«Insomma! Non puoi dire che sia un brutto ragazzo »
Esclamò
con la faccia fintamente inorridita.
«No…Edward è
bellissimo…» Sussurrai rendendomene conto solo
dopo colorando la mia faccia di rosso peperone. Mio padre si
schiarì la voce
imbarazzata e si alzò nello stesso tempo in cui
suonò il campanello. Sarà
Rosalie, pensai mentre andai in cucina. C’era il caos totale:
piatti impilati
per essere portati a tavola dappertutto, i bicchieri di cristallo che
mia madre
usava solo ed esclusivamente per ospiti speciali, teglie di cannelloni
ripieni
sul bancone, tre torte diverse, un tacchino intero con contorno di
patate e wurstel,
spinaci con mozzarella, pesce marinato.
«Mamma!» Esclamai con la tentazione di aggrappare
le mie
dita ai capelli.
«Bella, ascolta, abbiamo ospiti non possiamo fare certe
figure.»
«Mamma, è solo Rose.» Dissi prendendola
in giro mentre
afferrai una patata calda con le dita, bruciandomele assieme alla
lingua.
«No! Non so come mai non te l’abbia detto, Rose non
viene.
Abbiamo Carlisle Cullen e i suoi figli a pranzo…»
Mi sentì raggelare il sangue
senza conoscerne esattamente il motivo. Insomma cosa c’era da
preoccuparsi
tanto? Forse solo il fatto che vedere Edward in un posto che non era il
mio
studio era la cosa più eccitante del mondo? Sì,
forse era per quello. Sentii la
voce di Carlisle e feci un respiro profondo, una parte di me voleva
passare l’intera
giornata a contemplare la magnifica bellezza di
quell’uomo…un’altra parte invece
sperava che lui non ci fosse. Mi affacciai dalla soglia della cucina e
lo vidi;
era di spalle, indossava un paio di Jeans e una camicia di seta bianca
che
racchiudeva i muscoli delle sue braccia in modo meraviglioso. Il solito
calore
che mi coglieva di sorpresa ogni qualvolta che la mia mente vedeva o
immaginava
Edward mi colse anche quel giorno, in quel preciso istante. Avevo una
voglia
tremenda di fare la pipì, ma, ovviamente non era quello il
mio problema. Mi
avvicinai agli ospiti, tanto valeva farlo subito.
«Benvenuti!» Esclamai con finto entusiasmo, che,
dal sorriso
di mio padre significò messo in scena perfettamente.
«Isabella…» Sussurrò Edward
sorridendomi, sempre con quel
suo modo strano…quel modo che non contagia gli occhi, quel
modo che ha di voler
sorridere con tutto se stesso ma non poterlo potenzialmente fare. Erano
quelli
i momenti che il mio corpo e la mia mente erano ipnotizzati da lui, ero
sicura
al cento per cento che se in quel preciso istante mi avesse chiesto di
saltellare per tutta la stanza con una gamba sola io l’avrei
fatto. Abbassai lo
sguardo imbarazzata e mi
avvicinai al padre e a quella che doveva essere sua sorella: Alice.
«Che piacere dottoressa Swan.» Si
inchinò Carlisle io lo
guardai lusingata ma subito mi ridestai, non amavo quei trattamenti, o
forse
sì, solo che non riuscivo ad accettarlo. Alzai gli occhi al
cielo, rendendomi
conto ancora una volta della potenza della presenza di Edward in me,
avevo il
cervello in panne, non riuscivo a controllare i miei sentimenti e,
soprattutto,
non riuscivo a decidere cosa voler fare, era l’istinto che
comandava, ed io ero
pro alla ragione, su tutti i campi.
«Isabella, fuori dallo studio.» Mormorai tornando
in me. Alice
si presentò con il suo sorriso genuino e la sua voce
squillante, assolutamente
diversa dal fratello. Durante il pranzo, il quale ero seduta affianco a
Edward,
mi chiesi più volte se fossero davvero fratelli. Lei era
molto diversa, lei era
una persona apparentemente felice, tranquilla. Sorrideva, parlava
continuamente,
si interessava alle conversazioni intervenendo con la sua mente
brillante…Edward,
dal suo canto, se ne stava seduto in silenzio…fin quando,
mia madre, -che non
sapeva assolutamente nulla del nostro rapporto poiché, mio
padre mi aveva
assolutamente proibito di parlarne con lei con un motivo a me
sconosciuto –
parlò direttamente con lui.
«Cosa fai tu nella vita?» Chiese con la sua voce
calda e
affettuosa.
«Niente. Non mi chieda il perché. Non mi chieda
come mai non
lavoro se sono laureato in medicina, lo chieda a mio padre,
invece…» Disse con
la sua voce gelida, facendo tramortire mia madre, cosa che non accadeva
mai se
non una volta ogni cento anni.
«Scusami…io…non…»
Balbettò lei, avevamo consumato anche il
dessert, il pranzo era totalmente finito, mi venne la geniale idea di
alzarmi
dal tavolo, ma restai pietrificata, forse era solo la
curiosità…o forse era
solo il polo Edward ed io la calamita Bella.
«No. Mi scusi lei…ecco io…»
Balbettò anche lui che aveva perso
la sicurezza di poco prima. Vidi suo padre guardarlo torvo, mentre lui
aveva la
testa china, come se volesse scoppiare a piangere da un momento
all’altro. Non so
dove presi una certa sicurezza ma accadde, presi la mano di Edward
invitandolo
ad alzarsi e lo fece, come se fosse un cagnolino al guinzaglio, salimmo
le
scale e lo portai in quel posto dove potevo sentirmi me stessa,
potente, dove
riuscivo a calmarmi e a razionalizzare i miei pensieri quando ero solo
un’adolescente.
Questo era Edward per me, era un adolescente con una crisi
adolescenziale in
corso, sembrava un pulcino abbandonato e mai come quella volta mi fece
tanta
tenerezza. Accarezzai il suo braccio ed entrammo dentro la piccola
mansarda che
ospitava i miei vecchi giocattoli, libri, patti e bicchieri in eccesso,
coperte, stufe…c’era anche una piccola panca e ci
accomodammo restò in silenzio
fin quando non mi colse alla sprovvista. Mi abbracciò
così forte che mi parve
di soffocare per un istante, accarezzai i suoi capelli che
solleticavano il mio
collo e poi lo sentii, quel rumore che mi lacerò il cuore
quella e, tante altre
volte, i suoi singhiozzi, suoni acuti e terribili, sentii la mia gola
ardere di
rabbia senza averne motivo alcuno, e una lacrima solcò il
mio viso. Rimanemmo
in quella posizione per quelle che parvero due ore e non appena si fu
calmato
si addormentò con la testa sulle mie gambe. Non capii subito
il perché, ma
sentivo che forse questa non era la mia sconfitta, che forse potevo
aiutare
quest’uomo, che insieme ce l’avremmo fatta, che gli
sarebbe bastato dirmi solo
una piccola parte di ciò che lo tormentava e insieme saremmo
riusciti a farlo uscire
da questo limbo che non conosceva la pace. Edward era un uomo
internamente
solo, Edward non sapeva camminare eppure già pretendeva di
correre, Edward, ne
ero sicura, non aveva un semplice disturbo, c’era qualcosa
all’interno del suo
cuore che lo aveva marchiato, la sua mente possedeva un tarlo
più grande della
sua anima.
«Ce la faremo…» Mormorai bagnando il suo
bellissimo volto
con una lacrima. Avevo paura, lo avevo ammesso a me
stessa…eppure qualcosa mi
diceva che valeva la pena aiutarlo, lottare, andare avanti. Edward non
viveva
adesso, Edward più avanti lo avrebbe fatto. Ero
più tranquilla…ma, ovviamente
non ero consapevole che Edward sì che ce l’avrebbe
fatta, ma alzandosi lui
avrebbe fatto cadere qualcun altro.
I suoi occhi si aprirono e ci trovammo faccia a faccia, con
gli sguardi mescolati. Vedevo il suo tormento, vedevo che il sole da
quelle
parti non esisteva più, vedevo la felicità
lasciarlo solo in un prato, vedevo
il suo sorriso, quello vero, ormai estinto.
«Non dormivo…» Sussurrò
tranquillo. Lo guardai e non mi
preoccupai di quel piccolo dettaglio.
«Devi aprirti con me Edward, devi farlo. Se vuoi mettere
fino a questa situazione confusionale, devi farlo…se non ti
piaccio io puoi
sempre cambiare, ma ti prego, permetti a qualcuno di
aiutarti!» Dissi mentre la
mia voce si affievoliva piano piano.
«Con te non posso.» Disse spezzandomi il cuore
facendomi
intendere che non si fidava per niente di me e non riuscii ad
arrabbiarmi.
«Perché non puoi?» una lacrima
solcò il mio viso.
«Perché, sembra strano, sei importante
Isabella…»
«Bella chiamami Bella…» Pentendomi
immediatamente di averlo
interrotto, quando, forse, finalmente stava dicendo qualcosa che poteva
tirarmi
su il morale.
«Bella, non voglio trascinarti in questo schifo.»
«Non c’è niente di te che fa
schifo.»
«Sì…ma tu se testarda, me ne sono reso
conto subito, la
prima volta che ti ho visto.»
«Edward…io voglio aiutarti, io credo in
te.»
«Come fai a credere in me se nemmeno io ci credo?»
«Sai perché?» Dissi sicura come mai
nella mia vita,
prendendogli il viso tra le mani. «Perché io vedo
in te quello che tu stesso
non riesci a vedere.»
Eccomi!!!
Perdonate il ritardo, sono una cogliona -.-
Purtroppo ho avuto una settimana difficile, un lutto e cose
varie che non sto lì a buttar giù, annoiandovi
più di quanto non abbia già fatto
il capitolo :D
Spero con tutto
il cuore che continuerete a seguire questa
storia, per me davvero importante.
A
venerdì…I promise.
Roby <3