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Autore: itsonlyme    26/01/2014    6 recensioni
Se ti ritrovi a correre a perdifiato in un tunnel, di cui non vedi neanche uno spiraglio di luce ad indicarti l'uscita, ma poi trovi una scorciatoia che ti conduce ad un posto nuovo, cosa fai?
Dal primo capitolo:
Mossi l’aria che ci circondava. Il suo profumo mi entrò nelle narici, forte e dolce contemporaneamente.
Lui, sentendo la mia presenza, si girò a guardarmi per due secondi.
In quei due secondi mi rivolse un accenno di sorriso che mi fece perdere un battito, mancare la terra da sotto i piedi, poi tornò alla lettura, senza nemmeno darmi il tempo di ricambiare.
[ziam/side pairing larry]
Genere: Fluff, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Liam Payne, Louis Tomlinson, Niall Horan, Zayn Malik
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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When you feel my heat
Look into my eyes
It’s where my demons hide
It’s where my demons hide
Don’t get too close
It’s dark inside
It’s where my demons hide
It’s where my demons hide
 
 
 
Quella domenica decisi di andare a trovare i miei genitori a Wolverhampton; erano due anni che non ci mettevo piede, erano sempre venuti loro a trovare me. Mi ero sempre rifiutato, nonostante l’insistenza di mia mamma che, alla fine, però, mi aveva fatto cedere.
Arrivai lì per ora di pranzo, la giornata era nuvolosa e fresca. La tavola era apparecchiata per un esercito, come sempre. Mia mamma non badava a spese quando l’uomo di casa –dopo papà, naturalmente- tornava a casa.
Salutai i miei genitori e le mie sorelle con un abbraccio, il loro affetto mi era mancato.
Le chiacchierate con loro erano infinite, nonostante si evitasse di parlare di ciò che mi era successo.
Dopo un sostanzioso pranzo, Ruth mi propose di andare a fare una passeggiata per le stradine poco affollate della città in cui avevo abitato fino ai vent’anni. Accettai, anche se riluttante.
Wolverhampton contava poco più di 250 mila abitanti, fra i quali quattro che mi stavano poco a cuore.
Non avevo più avuto loro notizie, mi ero estraniato da quel mondo, li avevo cancellati dalla mia vita, anche se era rimasto l’alone nella mia mente. Come quando si cancella il gesso dalla lavagna con le dita.
Mi parve strano passeggiare per quelle stradine dove ero cresciuto ma che non facevano più parte di me. Le classificai nel passato, casa mia ormai era Chelsea. Naturalmente riconobbi ogni cosa, ma mi sentivo strano, tutto quello non mi apparteneva più. 
Passai davanti al parco giochi dove mio padre mi portava sempre quando andavamo a fare la spesa, alla scuola elementare, alla biblioteca dove mi ero rinchiuso per ore e ore e calai la testa quando arrivammo davanti al liceo. Non avevo fiatato, né Ruth aveva fatto domande. Lei sapeva, anche se non capiva, cosa stava scatenando dentro me quella semplice passeggiata.
 Rabbrividii quando notai quell’edificio dalle mura bianco sporco, circondato sempre dal solito giardino. Mi sorpresi nel trovarlo un po’ più curato, con qualche margherita selvatica qui e lì. Mia sorella seguì il mio sguardo e sorrise amaramente.
«E’ così da quando sei via. Il nuovo preside ha fatto sistemare il giardino e ha messo nuovi sistemi di sicurezza, ci sono anche le telecamere» spiegò, indicandomi uno degli aggeggi elettronici piazzato in alto del cancello d’entrata. Annuii e abbassai il capo, fissandomi i piedi e calciando qualche sassolino. Continuai a rimuginare in silenzio, incapace di proferir parola.
«Liam, tu stai bene?» domandò. Non sollevai lo sguardo.
«Non ti dirò una bugia. Non so come sto. Sto e basta».
«Avrei voluto fare qualcosa per te, Liam. Ma non sapevo cosa. Sapevo che c’era qualcosa che non andava. Sono stata la prima a scoprire ciò che ti facevano, avevo una paura marcia».
Il mio silenzio la incitò a continuare.
«Me ne accorsi un giorno, quando entrai in camera tua per dirti di scendere a mangiare. Eri a torso nudo e notai subito i lividi violacei all’altezza delle costole e il terrore mi frenò tanto da non farmi parlare. Non parlavi più, non uscivi più. Stavi sempre per conto tuo nella tua stanza, sembravi inesistente in casa. E per questo mi sento in colpa, se io avessi fatto qualcosa prima forse t..»
«Ruth, basta, basta. Non devi sentirti in colpa per qualcosa che è passato. È successo, nessuno può farci più niente. Stop. Chiuso il discorso» la interruppi e la mia voce dura la spaventò.
«Liam..» la sua voce era spezzata da un nascente singhiozzo.
Non volevo succedesse, non volevo vederla piangere.
Ci fermammo di botto e la abbracciai, spingendole la testa sul mio petto per soffocare i suoi singhiozzi. «Liam, mi dispiace così tanto» sbiascicò.
La incitai a stare in silenzio, per stabilizzare la frequenza dei suoi battiti cardiaci e del suo respiro già vistosamente accelerati.
 «Dispiace a me, di averti risposto male».
Avevo voglia di una sigaretta, per rilassare i nervi. Ero troppo agitato, quell’aria non mi faceva bene.
Ancora con Ruth fra le braccia, alzai lo sguardo triste verso la scuola.
L’angoscia prese possesso del mio cuore, gli occhi cominciavano a pizzicarmi e tirai su col naso.
Forte, Liam, devi essere forte. Anche per loro.
Ero forte, ma come potevo dimenticare tutto quello?
Solitamente i brutti ricordi vengono accantonati solo quando vi si sovrappongono nuovi ricordi, più belli. E l’unico ricordo che potessi associare a quelli piacevoli era l’incontro con quel ragazzo coi grandi occhi color cioccolato.
Ricordai ancora una volta gli innumerevoli calci ricevuti e mi mancò il fiato; mi sentii come rinchiuso in una stanza le cui mura, fatte di ricordi, si stringevano, mi venivano incontro per schiacciarmi, sopraffarmi, togliermi l’aria.
Poi pensai che avevo risparmiato dolore a qualche altro ragazzo. Il vecchio preside, grazie ai ricorsi di mia madre, era stato licenziato, poiché non aveva fatto nulla dopo esser venuto a conoscenza della presenza di atti di bullismo fra le mura della sua scuola. Il nuovo preside aveva provveduto a mettere sistemi di sicurezza, aggiungere qualche punto al regolamento d’istituto e a curare le zone che favorivano le violenze.
Il conflitto nella mia mente si placò solo quando la testa bionda di mia sorella si sollevò dal mio petto.
Mi guardò con una strana espressione stampata in viso, sembrava che stesse per esplodere. Mi asciugò le lacrime con due dita.
Sulla strada del ritorno la lasciai parlare, aveva bisogno di sfogarsi e mi chiese ancora scusa, per tutto: per non aver agito subito, per non avermi capito all’inizio, per non essermi stata accanto come avrebbe dovuto, anche per il pianto e per avermi portato lì. Tacqui mentre parlava, nel frattempo riflettevo sul fatto che quello a dover chiedere scusa fossi anche io.
Quando arrivammo a casa, tutti notarono la tensione nei nostri sguardi ma nessuno fece domande.
E fu in quel momento che mi arresi al pensiero che il mio passato, il dolore fisico e psicologico subito, mi avrebbero marchiato per sempre. Non avrei mai potuto scrollarmeli di dosso.
Mi sarei sempre guardato allo specchio con indifferenza, leggendo nei miei occhi la paura.
Avrei sempre camminato svelto, più vicino possibile al muro, per non farmi notare e controllandomi sempre le spalle.
Terrore.
Quella brutta sensazione che avverti sulla pelle, che non ti molla neanche un secondo.
Avrei potuto per sempre vivere in quel modo, con l’ansia addosso, con la sensazione di un pericolo reale anche se ormai lontano?
 
 
Tornato a casa, mi stesi sul letto. Stanco fisicamente per il viaggio ma soprattutto stanco di pensare, cercai di dormire ma l’unica cosa a cui andai in contro fu altro caos nella mia mente. Di certo non avevo scordato Zayn, ma altri pensieri prepotenti lo sovrastavano.
Avevo bisogno di una pausa, ero stanco di tutto: della solita vita monotona, stanco persino di essere stanco. Avrei voluto tirare la spina e farla finita, ma non ci riuscii e rimuginai ancora e ancora.
Capii che il pianto di Ruth era stato causato dal troppo nervosismo accumulato negli ultimi anni, dal suo senso di colpa e, per ultimo, come goccia a far traboccare il vaso, dalla mia risposta tagliente. Ero stato profondamente egoista.
Egoista non solo con lei ma con tutta la mia famiglia.
Avevo pensato solo a me stesso, a ciò che quell’ultimo anno di liceo aveva provocato in me, non avevo mai guardato la situazione dall’esterno.
Ero profondamente cambiato, il ragazzo debole e sempre gentile e disposto a tutto si era nascosto del tutto per lasciar emergere la parte  più determinata e forte di me, che mi aveva portato a non accorgermi di ciò che mi circondava, bendandomi.
Eravamo rimasti io e il mio dolore, che non mi permetteva di guardare in faccia nessuno, che non mi permetteva di essere gentile e meno scorbutico, che mi imponeva di odiare, di provare sempre terrore, di allontanare tutti, di avere una mente quasi malsana. Avevo dovuto sopportare troppo, in un anno. Ma gli altri, cosa e quanto avevano dovuto sopportare per me?
Gli occhi dolci di mia madre, pensai a quelli. Karen. La rividi davanti a me con lo sguardo vitreo quando, per la prima volta, venne a sapere dell’accaduto. Le pupille dilatate, gli occhi colmi di lacrime trattenute per troppo tempo. Era successo quasi a fine anno, quando per la seconda -e ultima- volta, quei quattro ragazzi dai pantaloni a vita bassa, con le mani conficcate dentro,  in compagnia del freddo di una lama tra le dita, mi avevano fatto finire in ospedale. Mi avevano aspettato all’uscita da scuola, scortato fino al retro, dentro un magazzino puzzolente e inutilizzato, vicino scuola. Mi avevano spintonato, avevo sbattuto violentemente la testa su una cassetta degli attrezzi arrugginita. La lama del coltellino che si portavano sempre dietro mi aveva scalfito la pelle delle braccia e del viso e quando avevo perso i sensi per la commozione cerebrale, mi avevano lasciato lì dentro steso senza forze, forse anche loro un po’ spaventati, forse si erano resi conto di aver perso il controllo, di avere esagerato, di essersi spinti davvero troppo oltre.
La porta di quel ripostiglio era rimasta aperta, come l’avevano lasciata quei quattro codardi.
Dopo avermi cercato per circa un’ora, mio padre, preoccupatissimo, mi aveva trovato ancora senza sensi e mi aveva portato all’ospedale più vicino. Mi aveva raccolto come un gattino ferito sul ciglio della strada e non mi aveva più lasciato, stringendomi forte la mano. Era quello uno dei motivi per cui io non avevo mollato: l’affetto che avevo percepito negli occhi e nei gesti dei miei genitori, anche dopo aver saputo la verità. Le innumerevoli ferite e i numerosi esami ed accertamenti mi avevano costretto in ospedale per qualche giorno e, naturalmente, quando mi ero ripreso avevo dovuto raccontare tutto a mia madre e mio padre.
 Gli avevo raccontato ogni cosa dal principio, partendo da quando avevo scoperto che ad attrarmi erano gli uomini. La cosa non li aveva scossi, mia madre si era avvicinata a me e mi aveva stretto la mano, con mio padre al suo fianco. Da quella dichiarazione avevano intuito cosa, poi, mi era successo, ma io avevo già deciso di aver tenuto per troppo tempo tutto dentro e che loro dovessero sapere ogni cosa.
E lì avevo conosciuto mia madre veramente, in tutte le sue sfumature: la paura, la debolezza, la rabbia, l’impotenza, furono ciò che lessi nel suo sguardo, nei suoi movimenti, nei suoi passi, nei suoi gesti, nella sua inappetenza e nel morboso affetto nei miei confronti.
Egoista Liam, sei un egoista.
La testa mi doleva, pesante. Me la presi fra le mani sperando di attutire i rumori, mi rigirai fra le coperte muovendo nervosamente le gambe sul materasso, sfregando i talloni sul lenzuolo per coprire quella voce fastidiosa insidiatasi nella mia mente.
L’imposta della finestra dello studio sbatté violentemente, facendomi sussultare.
Il mio cellulare si illuminò.
Afferrai il cellulare dal comodino, aprii la casella dei messaggi ricevuti.
-Mi manchi. Domani di nuovo insieme. Ah, verrai a prendermi in aeroporto, alle dieci.
E se te lo stai chiedendo, no. Non è una domanda. Ti voglio bene. H-
Tirai un forte sospiro, deciso a dormire.
Quella notte, sognai di pianti, tante lacrime, rumori, dolore e un paio di mani che riuscii a collegare solo a Zayn.
 
 
                                                                                                                                                                                              But with you
(I’m feeling better since you know me)
I feel again
(I was a lonely soul but that’s the old me)
Yeah with you
(I’m feeling better since you know me)
I can feel again
(I was a lonely soul)
 
 
 
 
Quel lunedì mattina dovetti rinunciare alla mia corsa perché dovevo andare a prendere Harry.
Uscii di casa alle nove, controllai la cassetta della posta trovandoci una busta bianca col mio nome sopra, la misi in tasca ripromettendomi di aprirla nell’attesa dell’arrivo del volo.
L’aeroporto di London City distava poco più di mezz’ora da casa mia, ma la pioggia era sempre causa di traffico quindi avevo preferito anticipare. L’imponente struttura dai muri chiari e dalle innumerevoli vetrate blu si presentò sotto ai miei occhi giusto quaranta minuti dopo e l’insegna che indicava ‘LondonCityAirport’ mi diede conferma che ero arrivato. Dopo aver trovato parcheggio mi spostai all’interno, dove numerose persone aspettavano i propri cari davanti le porte scorrevoli che lasciavano vedere poco, tanto per aumentare l’ansia. Fremevo, ero impaziente e, per occupare il tempo, osservai il tabellone dei voli in arrivo con le rispettive provenienze e gli orari previsti.
Gli aeroporti mi erano sempre piaciuti, quasi mi appassionavano.
Quando ero piccolo fremevo all’idea di andarci anche solo per andare a prendere qualcuno di cui neanche mi importava; avevo sempre amato vedere gli aerei volare.
 Ad ali spiegate, alla libertà, a colori, ad aquiloni, alla felicità, a quello pensavo quando ne vedevo uno risaltarmi all’occhio fra le nuvole.
Ricordai quando, all’età di sei anni, mano nella mano con mia madre, ero sfuggito alla sua presa ed ero corso ad appiccicare il naso sulla vetrata che si affacciava alla pista, solo per vederne uno decollare da più vicino.
Il lento spostarsi dell’aereo sulla pista, il rumore forte generato dal motore e la corsa per il decollo, con le ruote a stridere sull’asfalto. Quello mi era sempre piaciuto, e mi era sempre piaciuto fotografarlo. Tenevo la mia Nikon in fondo all’ultimo cassetto del mio comodino, non la prendevo in mano da troppo tempo, ma ciò che mi era successo mi aveva fatto accantonare tutto ciò che prima ritenevo importante.
 Ma quella volta collegai il tremore alle mani con l’ansia che avevo nel rivedere il mio migliore amico dopo settimane. Ricordai che tenevo ancora la busta bianca nella tasca destra del giubbotto.
Infilai la mano in tasca e la tirai fuori. La aprii, notando immediatamente la semplicità del foglio di carta che tirai fuori. Due cuori uniti in cima e subito sotto la stampa nera, senza sbavature, in corsivo, che riportava due nomi, uno dei quali apparteneva a Luke, il figlio del mio principale, nonché mio collega e amico, il secondo era quello di una donna, Rose, anche lei un’amica. Un invito al loro imminente matrimonio.
Sorrisi. Leggendo il resto dell’invito, scoprii che fosse solo una settimana dopo –era passato un po’ di tempo dall’ultima volta che avevo aperto la cassetta delle lettere- e che si sarebbe tenuto nella chiesa di Our Lady of the Holy Souls, non molto lontano da casa mia.
Mi distrassi solo quando una mano, che conoscevo fin troppo bene, mi toccò la spalla facendomi sussultare.
«Voglio venirci anch’io a questo matrimonio».
Mi voltai verso quel viso che avevo sperato di vedere da un po’. Riconobbi immediatamente i suoi grandi occhi smeraldo, le sue labbra rosse e i suoi ricci ribelli. Stesi le braccia verso di lui e lo abbracciai. Harry, il fratello che non avevo mai avuto, mi era mancato parecchio.
Non mi importò della gente che ci fissava, era tornato ed ero felice.
«Carenza d’affetto, Payne?» domandò, quando ci fummo staccati.
«Nah, mi mancavi e basta, ho tante cose da raccontarti, andiamo» dissi, riponendo la busta nella mia tasca e circondandogli le spalle con un braccio, dopo avergli tolto uno dei due trolley dalle mani.
In macchina lasciò parlare me tutto il tempo.
Quello che più mi piaceva di lui era che mi permetteva di parlare a ruota libera, fermandomi solo quando aveva da pormi qualche domanda. Mi dimostrava davvero d’essere interessato a me, mi ispirava fiducia, e non potevo che concedergliela. Gli raccontai dell’incontro con Zayn, della ragazza dell’Heaven e di quella frase che era rimasta impressa nella mia mente, delle mie continue ansie e pensieri, della passeggiata a Wolverhampton con mia sorella, del suo pianto e di tutto ciò che mi aveva turbato nelle ore seguenti.
«Ecco perché quelle occhiaie, Liam. Almeno la notte dovresti dormire invece di rimuginare» sentenziò.
Annuii, tenendo lo sguardo sulla strada. «Non è vero che sei egoista. Ti crei anche problemi che non esistono, non credo che i tuoi genitori pensino questo di te; per cui, non dovresti pensarlo neanche tu».
Forse aveva ragione, mi stavo addossando certi problemi inutili quando ne avevo già troppi da superare.
I miei genitori mi avevano consigliato uno psicologo ma io avevo rifiutato, Harry mi bastava. In meno di un ora mi aveva già tolto un peso dalla bocca dello stomaco.
Lo lasciai a casa con la promessa che ci saremmo rivisti il giorno dopo, nel pomeriggio. Lui aveva bisogno di riposare dopo il viaggio e io avevo bisogno di rilassare i miei nervi, lasciare entrare Zayn fra i miei pensieri e, magari, spolverare la macchina fotografica che era rimasta per troppo tempo sotterrata fra i miei indumenti.
 
 
Il resto della settimana trascorse normalmente, solo con qualche indumento in più addosso poiché l’inverno alle porte si faceva sentire.
Ogni tanto mi lasciavo trasportare dai soliti brutti pensieri, gli incubi cominciavano a lasciarmi un po’ di pace per dormire, anche se facevano spesso capolino durante il mio sonno.
Non vidi Zayn durante quella settimana; ero entrato tutti i giorni al parco nella speranza di intravedere il suo ciuffo e incontrare quegli occhi bellissimi, ma non successe. Immaginai che avessimo orari diversi per andare al parco, e mi preoccupai soprattutto del fatto che avrei potuto non rivederlo più.
 
Era ormai venerdì sera, fortunatamente non avevo il turno serale all’Heaven quindi avevo invitato Harry a casa mia per passare un po’ di tempo insieme.
Passammo la maggior parte del tempo a divertirci con Fifa, a lanciarci popcorn e caramelle gommose e a ridere fra le chiacchiere. Naturalmente mi domandò di Zayn, sorprendendomi dato che avevo creduto che fosse passato sopra quell’argomento, sottovalutandolo. Mi ritrovai imbarazzato, ma felice: il mio migliore amico era tornato, la mia quotidianità era tornata.
Il giorno dopo, sabato, mi alzai verso le 9:30, dopo la mia corsa feci una doccia ed uscii di per andare dal barbiere per un taglio di capelli e passare a prendere il mio completo nero in tintoria.
Uscii di casa per le 15:30, la cerimonia sarebbe iniziata per le quattro e, nonostante il fatto che per arrivare ci avrei messo meno di un quarto d’ora, preferivo sempre essere puntuale.
Come previsto, arrivai circa con quindici minuti d’anticipo. Parcheggiai non molto lontano dalla chiesa, scesi dalla macchina e chiusi lo sportello. Osservai il mio riflesso nel vetro dell’auto, aggiustai la mia cravatta e iniziai a camminare verso l’imponente struttura. Salii le scale che mi separavano dall’ingresso, quando entrai rimasi sorpreso. L’ampio spazio era quadrato, con numerose panche in legno scuro divise in due file ai cui margini erano stati legati dei piccoli bouquet con ortensie bianche e spighe, legati con tessuti d'organza. Il tappeto rosso lungo la navata centrale era ricoperto da petali bianchi, l’aria sapeva di fiori, e mi faceva pensare alla primavera. L’abside era decorata con gli stessi bouquet delle panche: era tutto molto elegante. Gli invitati erano già numerosi. Preferii sedermi in una delle ultime panche per aspettare Louis, che sarebbe dovuto arrivare. Continuai a guardarmi in torno; c’era gente in piedi che chiacchierava, donne che osservavano e indicavano estasiate le decorazioni suntuose. Qualche minuto dopo arrivò Louis, che si sedette al mio fianco, e, subito dopo, arrivò lo sposo seguito dalla madre. Luke era visibilmente nervoso, io e Louis lo salutammo e gli porgemmo i nostri auguri, suggerendogli di respirare. La sposa, come sempre, era in ritardo. Arrivò una decina di minuti dopo l’orario previsto. Il chiacchiericcio si affievolì solo quando davanti l’enorme porta d’ingresso spalancata, fecero capolino i fotografi e i loro immancabili flash.
La sposa fece il suo trionfale ingresso a braccetto col padre, preceduta dalla damigella e dal paggetto con in mano il bouquet e le fedi nuziali. Quando la marcia nuziale partì, la donna che Luke aspettava all’altare attraversò la navata sotto gli sguardi dolci, attenti e curiosi di tutti. Rose era molto bella, anche lei visibilmente tesa. Le sorrisi quando passò vicino a noi e lei ricambiò affettuosamente.
 
La cerimonia stava per volgere al termine, quando la porta d’ingresso della chiesa si spalancò e fece capolino un ragazzo esile e ansante. Non se ne accorse quasi nessuno dei presenti, mi girai io e qualche altro nelle ultime file. Indossava il completo nero con la giacca sbottonata e la solita camicia bianca, i capelli castano scuro erano tirati indietro col gel e qualche ciuffo cadeva sui lati e aveva il papillon slegato sul collo. Era più che bello. Poi osservai il suo volto e il mio cuore balzò nella cassa toracica.
Non avevo visto qualcuno di così bello tranne… Zayn.
Era lui, era lì, a pochi metri da me.
Istintivamente afferrai e strinsi il braccio di Louis al mio fianco, che armeggiava con la sua digitale. Si girò di scatto e mi osservò. Io non avevo staccato gli occhi da Zayn che cercava disperatamente di non fare rumore e di farsi notare da meno gente possibile. «Liam, che ti prende?» mi domandò in un sussurro.
Seguì istintivamente il mio sguardo e inizialmente non capì, aggrottando le sopracciglia. Poi notò il ragazzo e, grazie alle mie innumerevoli descrizioni, intuì e sorrise maliziosamente.
«Zayn, vero?»
Annuii furiosamente.
«Forse dovrei.. uhm..», Louis mi interruppe.
«Smettere di fissarlo?» completò la frase per me. Mi costrinsi a non guardarlo. Louis rise ancora.
«Liam innamorato, oh che carino!» scherzò.
Gli lanciai uno sguardo truce.
«Non sono innamorato, so a malapena il suo nome».
«Cerca un posto, il ragazzo. Può sedersi qui. Ora ci penso io» disse, spingendomi con un fianco.
«No, Louis, no. Sta’ fermo» dissi, afferrandogli un braccio inutilmente.
Il mio migliore amico, piuttosto che ascoltarmi, si sporse fuori dalla panca verso Zayn, che stava un paio di metri dietro di noi.
«Amico» attirò la sua attenzione, «se cerchi posto, puoi sederti qui».
Avrei voluto prendere una pala, scavarmi una fossa e saltarci dentro per evitare l’imbarazzante momento.
Evitai di voltarmi verso Zayn e non sentii alcuna risposta, mi limitai a sussurrare a Louis una minaccia.
La coppia di signori alla nostra destra si voltò a guardarci e io arrossii ancora di più, se fosse stato possibile.
Pochi secondi dopo Zayn era accanto a Louis, ancora col fiatone e il papillon slegato sul collo.
Non sapevo se fingere di non vederlo, lui probabilmente neanche si ricordava più di me.
Finsi di provare interesse per gli sposi che firmavano il registro, mentre combattevo con tutte le mie forze per non guardarlo.
«Liam».
Voltai la testa in un semplice e rapido movimento, e trovai i suoi occhi vicini, solo Louis ci divideva.
«Zayn» sussurrai, a corto di fiato e parole.
Avrei voluto dirgli che lo trovavo bellissimo, che avevo pensato che non mi avesse riconosciuto e che non ci saremmo più rivisti e chiedergli cosa ci faceva lì,  ma le mie corde vocali e il mio cervello stavano complottando per non farmi fiatare.
Allargò le labbra in un sorriso e non potei fare a meno di ricambiare, sperando che il rossore sulle mie gote fosse sparito. Louis ci fissava con un ghigno. «Uh, ehm.. lui è Louis» dissi, indicando il mio amico che istintivamente gli porse la mano. Il moro gliela strinse, poi tornò con gli occhi su di me.
«Parliamo fuori di qui» disse, cercando di sistemarsi disperatamente i capelli. Io annuii, incapace di aggiungere altro.
Da quel giorno tutto potevo aspettarmi, tranne che quell’incontro.
Il mio cuore sembrava impazzito, dovevo decisamente darmi una calmata. Louis ghignava ancora e non sapevo se ringraziarlo o prenderlo a calci.
La cerimonia terminò, ci spostammo tutti all’esterno della cappella e aspettammo che gli sposi andassero via.
Avevo perso di vista Zayn, così proposi a Louis, che era venuto a piedi da casa, di andare in sala con la mia auto.
«Io ti aspetto qui, c’è Calvin, devo dirgli se può cambiarmi il turno di domani, voglio fare il turno con te» spiegò, io annuii e cominciai a camminare verso la macchina.
Arrivato davanti il mio BMW osservai il mio riflesso, per vedere in che stato ero. Il mio colorito era tornato normale, fortunatamente. Alzai una mano a toccare il filo di barba sulla mascella.
«Ti sta bene la barba» disse qualcuno alle mie spalle. Zayn.
«Tu si che sai come sorprendermi» dissi, trovando una dose infinita di coraggio.
Sorrise, alzando un angolo delle labbra.
«Vieni qui, ti aggiusto quell’affare» dissi, riferendomi al papillon.
Pensai immediatamente d’aver dimenticato di aver staccato la spina al filtro cervello-bocca.
Si avvicinò, così tanto che potei sentire il suo profumo; era proprio come lo ricordavo.
Lo superavo in altezza di qualche centimetro, sentivo il suo respiro caldo sul viso.
Allacciai l’ultimo bottone della sua camicia, e feci il nodo con mani tremanti. Lui sorrideva.
Quando finii, lo raddrizzai e feci un passo indietro.
«Grazie» disse, specchiandosi.
«Come stai?» mi domandò.
Nella mia testa frullavano tante di quelle cose che, per dirgli che stavo bene, persi qualche secondo.
«Sto bene, e tu?»
«Bene. Ho creduto che non ci saremmo più rivisti» fu sincero.
«Anche io. Sono entrato tutti i giorni al parco, ma non ti ho visto» fui sincero anch’io, volevo esserlo.
Di’ sempre quello che pensi, Liam.
Lui annuì.
«Liam, credi nel destino?» domandò di getto, cambiando argomento.
Non ci avevo mai pensato, ci credevo?
«Io.. forse. Tu?»
«Non lo so neppure io, ma destino o meno, siamo qui e sono contento di esserci».
Il mio cuore balzò, ero visibilmente contento anche io.
«Già, anch’io».
Lui annuì e sorrise ancora una volta. Giurai sentire il mio cuore sprofondare, il suo sorriso era bellissimo. Lui lo era e mi stava parlando, era a due spanne da me. «Zayn, sei bellissimo».
Lo dissi senza pensarci, senza fare due più due, senza pensare alle conseguenze che avrebbero potuto farlo scappare. Impiegò qualche secondo a rispondere, in quel lasso di tempo che ai miei occhi apparve una vita. Un nodo mi strinse la gola; forse avevo esagerato.
Sei il solito paranoico.
«Anche tu sei bellissimo» rispose, alla fine.
Provai un fremito, un brivido, un qualcosa di piccolo ma forte. Risposi con un semplice sorriso.
Poi ricordai che Louis mi aspettava davanti la cappella e che probabilmente mi avrebbe ucciso.
«Bene, Louis mi aspetta. Ci vediamo dopo, in sala?» domandai, celando la speranza nel mio quasi naturale tono di voce.
 «Certo, a dopo».
 
Louis salì in macchina sbuffando.
«Avrei potuto vedere un’altra messa, nel frattempo» scherzò.
«Sta’ zitto, ho parlato con Zayn» spiegai.
«Oh, i piccioncini. Che vi siete detti?» mi punzecchiò.
«Non sono affari tuoi» scherzai io.
«Ah si? Ok, Lee, ok» si finse offeso.
Pochi secondi dopo iniziai a raccontargli della chiacchierata.
Rise quando gli raccontai del ‘sei bellissimo’ che avevo detto senza pensarci.
«Sei stato molto coraggioso. Mi sorprendi, Payne e questo mi piace» disse, dandomi una pacca sulla coscia.
Sorrisi, tenendo ancora lo sguardo sulla strada. Mi sorprendevo da solo.
Nei piccoli momenti di silenzio, durante la strada in macchina, mi concessi di lasciare entrare Zayn fra i miei pensieri.
Zayn che, dopo Harry e Louis, nonostante conoscessi pochissimo di lui, sembrava così vicino a me più di chiunque altro e mi chiedevo come fosse successo.
Dovevo andarci piano, dovevo tenere i piedi saldi per terra e non assicurarmi un decollo che sarebbe terminato, poco dopo, con un brusco atterraggio.
 
Quando arrivammo al locale, c’era già qualcuno degli invitati. Io e Lou, scesi dall’auto, ci concedemmo di osservare il panorama oltre la ringhiera in legno. Sotto i nostri occhi si estendeva un tramonto di fuoco, di un arancio sgargiante, mischiato col giallo. Il sole stava lentamente calando dietro le rocce e illuminava e riscaldava flebilmente tutto lo spazio circostante. Sulla nostra sinistra, non molto distante, c’era una piccola isola rocciosa dove i gabbiani si posavano per riposarsi. Era splendido. Istintivamente estrassi la mia macchina fotografica dalla custodia, e scattai una foto a quella meraviglia.
Mi piaceva immortalare attimi di paradiso.
Mi voltai, ancora con la digitale fra le mani, quando sentii delle ruote stridere sull’asfalto.
Riconobbi Calvin al volante dell’Audi A4 con accanto la sua fidanzata. Mi salutarono con un cenno che ricambiai e, quando ci raggiunsero, entrammo all’interno del locale.
Venimmo accolti dai soliti uomini stretti nella formale divisa in bianco e nero, che ci indicarono i nostri posti.
Entrammo in una sala di forma esagonale, prevalentemente bianca. Il corridoio centrale era libero e i tavoli sparsi sui due lati della sala erano rotondi; ognuno aveva al centro una boccia in vetro con due bellissime ed eleganti ortensie bianche, contornata da petali di rosa che rendevano l’aria profumata.
Io e Louis stavamo al tavolo con Calvin, la sua ragazza e altre due colleghe.
Quando iniziarono a servire, non ero ancora riuscito a beccare Zayn.
Pensandoci, non sapevo neppure cosa ci faceva lì.
 
Quando finimmo di mangiare il secondo, parlammo fra noi del più e del meno.
Improvvisamente, Louis mi diede un calcio sotto il tavolo. La mia espressione cambiò repentinamente e mi voltai verso di lui con uno sguardo truce. Se voleva farmi notare qualcosa non c’era bisogno di amputarmi una gamba.
«Ahia, mi hai fatto male» sussurrai a labbra strette, lui rise e capii con gli occhi che avrebbe voluto dirmi ‘poi mi ringrazierai’. Una mano si posò sulla mia spalla. Mi voltai e stiracchiai le labbra in un sorriso; sapevo a chi apparteneva. Alzai gli occhi sul suo viso.
«Ti va se usciamo a fare due chiacchiere?» domandò, spostando la mano dalla mia giacca. Io annuii senza voltarmi, sapevo che tutti ci stavano fissando e mi alzai, iniziando a camminare verso l’uscita della sala.
Rispetto all’interno, fuori la temperatura era molto bassa. Soffiava un vento freddo che entrava nelle ossa. Mi strinsi nella mia giacca che mi parve improvvisamente troppo leggera.
Ci fermammo in uno stretto cortile, con dei divanetti semplici in vimini. Mi sedetti su uno di quelli e lui di fronte a me. Estrasse dalla tasca un pacchetto di sigarette e un accendino, si mise una sigaretta fra le labbra e velocemente la accese.
«Come mai sei qui?» domandai.
«E’ un matrimonio, sono stato invitato, come te» scherzò.
«Intendo..» iniziai.
«Lo so che intendevi» mi interruppe. «Rose. E’ una mia amica d’infanzia, anche se ultimamente ci eravamo un po’ persi di vista, mi ha invitato.» spiegò. Io annuii.
Iniziammo a chiacchierare, facevo domande a lui e lui a me. Mi sentivo a mio agio, stavo bene.
Mi sentivo sollevato da tutti i miei pensieri e dalle mie ansie. Passammo circa mezz’ora insieme, fuori, e riuscimmo a parlare di moltissime cose.
Certo, Zayn era un ragazzo parecchio misterioso e anche complicato.
Da certe sue frasi e allusioni, avevo intuito che anche il suo passato non era stato dei migliori, ma non ci eravamo spinti fino a raccontarci ciò che in quel momento ci aveva resi ciò che eravamo. E sperai che potessimo avere altro tempo per conoscerci meglio.
In quel poco tempo che avevamo passato insieme mi ero reso conto di adorare le sue labbra, il suo modo di parlare, di sbiascicare le parole, il suo accento.
Quando rientrammo ci separammo di nuovo. Dovetti sopportare le frasi provocatorie di Louis, ripromettendomi di fargliela pagare. La serata finì e fra dolci, balli e cocktail mi sentivo sfinito e volevo andare a casa.
Quando uscimmo la notte era ormai calata portandosi dietro il gelo. Prima di salire in macchina, fermai Zayn per salutarlo.
«Bé, io vado, Zayn».
«Anch’io sto andando a casa. Ci sentiamo Liam, no?»
Avrei voluto rispondergli di sì ma mi chiedevo come avremmo fatto. Avevo ormai la mente offuscata, la stanchezza e l’alcool avevano fatto il loro lavoro, ma la serata non sarebbe potuta andare meglio.
«Facciamo così, lasciami il tuo numero» disse, io annuii e gli passai il mio cellulare in modo che memorizzasse il suo numero e si annotasse il mio.
Neanche mi rendevo conto di ciò che stava accadendo. Forse perché non ero più abituato a persone che mi facessero sentire così bene a primo impatto e ne ero davvero sorpreso.
«Zayn, ti va se scattiamo una foto insieme?» domandai, ancora una volta sfacciato.
Annuì sorridente. Velocemente scattai la foto, e ne scattai una solo a lui, senza che se ne accorgesse.
Ci salutammo con un sorriso e un semplice ‘buonanotte’.
Dopo aver lasciato Louis a casa, arrivai al mio appartamento.
Indossai il pigiama, senza curarmi d’aver lasciato tutti i vestiti in giro per casa. Mi gettai sul letto, esausto.
Esausto, sì, ma mai abbastanza da non pensare.
Mi resi conto, incredulamente, che ciò che era successo in poche ore stava facendo emergere una minuscola, ma visibile, parte della mia persona: quella che avevo sotterrato.
Prima di scivolare nel sonno, presi in mano la mia Nikon. Fra le numerose foto del giorno, c’era naturalmente anche quella di Zayn. La aprii: alla luce dei lampioni della strada i suoi occhi luccicavano e, forse, anche per l’alcool. In quel momento, capii che mi piaceva davvero immortalare attimi di paradiso.











Le canzoni sono 'demons' degli Imagine Dragons e 'feel again' degli OneRepublic.



Ciao belli/e. (si, mi illudo ci siano anche ragazzi)

In questo capitolo troviamo un Liam che torna a Wolverhampton, l'immergersi nel suo passato gli mette addosso altri dubbi e lo turba ancora di più, lo fa star male tanto che decide di non tornarci davvero più. Poi, fortunatamente, Harry torna e gli mette un po' la testa a posto, santo ragazzo.
Col matrimonio (idea strana) rincontra Zayn, e Louis fa un po' da cupido. E lo farà ancora (lol).
Nel prossimo capitolo, troveremo delle novità per quanto riguarda la vita di Liam, naturalmente per gli ziam e per i larry *coff coff*....... 

Ora vado a dormire, rischio d'essere uccisa da mio padre.
Non ho riletto quindi, se ci sono errori, fatemelo notare, per favore.

Ringrazio chi ha recensito, messo fra le seguite e fra i preferiti. Se mi lasciate un parere qui, non mi dispiace, ewew.
Spero a presto, 
-Chiara. 
:*





 
  
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