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Autore: sheisonfire    27/01/2014    24 recensioni
Riflettori. Luci. Flash. E’ tutto quello che riesco a vedere.
Urla. Singhiozzi. Il ritmo della batteria. Le mie orecchie percepiscono solo questo.
Ma il mio cuore sta sentendo molto di più. Una cosa che ti avvolge fino a chiuderti lo stomaco, che ti toglie il fiato, che ti fa spuntare un sorriso genuino sulle labbra. Una cosa che ti fa sentire viva. Speciale. Utile.
E’ l’amore di milioni di persone.
Persone che ti seguono qualsiasi cosa tu faccia, in qualsiasi posto tu vada.
Questo solo perché ho un microfono in mano e un copione da seguire.
No. E’ di più.
La voce trasmessa da quel semplice apparecchio può far commuovere, dicono.
Delle battute scambiate davanti alla telecamera possono far ridere, dicono.
Ma io dico che non ho mai provato sensazioni così forti per gente che non ho mai visto né tantomeno conosciuto.
E’ facile. Loro ti donano il loro cuore, tu gli regali il tuo cuore…
Loro ti donano il loro supporto, tu gli regali la tua voce…
Loro ti donano il loro tempo, tu gli regali un sogno per cui combattere…
Ma una cosa che forse non sanno è che loro sono il mio, di sogno.
Genere: Azione, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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                                                                                                 Chapter 4
 


“Sì, mamma, tranquilla. Ho fatto tutti i vaccini”.  
La voce che quasi sbraita dall’ansia dall’altro capo del telefono mi chiede per l’ennesima volta se mi sono vaccinata prima di venire “in quella lurida baraccopoli!” e non si tranquillizza neanche dopo averle detto che il medico mi ha appena fatto l’ultimo controllo.
“Mamma, lo sai perché sono qui. Non chiamarla ‘lurida baraccopoli’ se non sai quel che succede e come si vive” il pensiero della bambina mi passa velocemente in mente.
“Ma tesoro, scherzavo! Non penserei mai cose brutte su quel posto ma… ci tengo alla tua salute! Perché  hai fatto quei controlli, vero?” dice in tono mieloso.
“Spero che tu ci tenga anche alla mia sanità mentale dato che non fai altro che domandarmi se mi sono vaccinata!”
Una risata resa più meccanica dal cellulare si sparge per tutto l’altoparlante,  sorpassando ogni altro movimento nella mia testa. E alla fine arriva. Una fitta, giusto all’altezza del petto, che attraversa tutte le migliaia di chilometri che ci dividono, ora concentrate dentro il mio stomaco.
So che sta pensando anche lei la stessa cosa.
“Mi manchi” pronuncio, con un brivido dietro la schiena.
“Mi mancano anche le altre. Diglielo.” Rivolgo lo sguardo al cielo, pensando a quante nuvole e a quanti venti ci tengono separate.
“Ci manchi anche tu” dice il telefono dopo una manciata di secondi.
La voce allegra che prima mi riempiva le orecchie non c’è più, e lo spazio telefonico fra noi due è vuoto come il mio battito.
Restiamo altri istanti in silenzio, poi invento che mi hanno chiamata per una passeggiata. Chiudo il telefono prima di lei e me lo metto velocemente in tasca.
Purtroppo questa tasca è troppo piccola, e penso che la nostalgia mi toccherà portarla in mano e riempirmi gli occhi di essa.
Cerco con lo sguardo e con l’anima sul balcone, giù nei campi, dentro di me qualcosa che abbia il sapore della parola ‘casa’.
Non c’è. I ricordi non bastano, le parole non servono. Ho bisogno che qualcosa al mio interno urli “Sei a casa!”, ma non arriva.
E non arriva neanche quando cinque giorni dopo mi trovo a contemplare un prato immenso dal finestrino di una costosa auto nera, un po’ insolita in una delle tante stradine di campagna di alcune cittadine vicino Belfast.
E neanche in quel verde, splendente sotto i raggi del sole, trovo qualcosa che sia io oppure mio.
Posso aggrapparmi solo ai miei ricordi, tanti e un po’ sfocati, fra cui uno più recente.
Cinque mesi fa mi trovavo in un prato simile, e al posto del mio attuale groppo in gola c’era uno smagliante sorriso, rivolto alle tre persone che avevo di fronte.
Mia madre, con il viso contornato dai suoi corti capelli marroni e gli occhi lucenti, raccontava una delle sue tipiche giornate scolastiche, facendo ridere continuamente noi tre con le sue eccellenti imitazioni.
In quel momento avevo per lei una tale stima, non solo perché era mia madre, ma perché sebbene il suo lavoro di insegnante a bambini capricciosi e urlanti fosse estremamente stancante, lei non aveva mai dato un cenno di pentimento nell’ averlo scelto. Faceva sempre tutto con cura e pazienza, e non lasciava mai che la gentilezza abbandonasse i suoi valori.
Mia zia rideva fortissimo e non riuscì più a scartare il cartoccio profumante che aveva fra le mani, così mia sorella maggiore, impaziente, lo fece al posto suo.
Ricordo ogni dettaglio di quel pic nic: mamma che rideva, zia Antonella che rideva ancora più forte, Annie che faceva la finta arrabbiata ed aveva un’ espressione imperscrutabile, ma sapevo che sotto sotto nascondeva un bel po’ di divertimento.
Quello è stato l’ultimo ricordo che ho di loro. Da quel giorno non ho più potuto assaporare gli abbracci, i consigli, le risate della mia famiglia.
Li ho nella mente troppo vividi, quei pomeriggi nella mia stanzetta, quelle serate a casa di mio padre, al Natale passato con tutti i miei parenti.
Quest’anno è stato diverso. A Natale sono dovuta andare a cantare per uno spettacolo natalizio in diretta, vestita di rosso, smalto rigorosamente rosso, atmosfera rigorosamente di festa, canti rigorosamente natalizi, io rigorosamente sorridente.
Così i miei parenti dalla lontana Campania, con un posto in meno a tavola e una punta di tristezza in più nell’anima hanno potuto seguirmi oltreoceano, mentre fingevo un sorriso al pubblico statunitense, barcollante da vodka sotto le mie note pulite.
Ed ora ho un tour mondiale da terminare, due interviste da rilasciare e tre incontri con i fans, ma il numero che voglio è quattro.
Quattro come io e la mia famiglia con la quale condividevo la quotidianità.
Quattro come i fratelli che ci saranno, secondo l’annuncio ricevuto poche settimane fa da mio padre.
Da quando avevo cinque anni lui si è rifatto una vita con un’altra donna che non è mia madre, includendo anche me ed Annie in questo suo mondo, fatto di ufficio, carte, cartacce, visite alle aziende, ancora carte, fascicoli, computer, ancora cartacce, soldi, un altro figlio con la nuova lei, auto che fanno girare gli occhi.
Eppure, eccolo ancora là: un ingegnere umile, gentile, divertente, scherzoso, che lavora troppo, colonna portante nella mia vita.
Ogni volta è lì a supportarmi e anche a sgridarmi, in caso di qualche errore.
L’errore penso l’abbia fatto lui diversi anni fa, ma in passato decisi di non importarmene. E’ successo quel che doveva succedere, e io sto benissimo così.
Certe volte mi chiedo se gli piaccia tutta questa fama, questo viavai sugli aerei, la distanza che incombe su tutto. Ma poi mi tranquillizzo, pensando che forse gli sta bene pure la Lamborghini che gli ho regalato questo Natale.
Entrambi i miei genitori hanno da sempre accettato la mia strada, e mai l’hanno contraddetta. Ovviamente mi hanno anche consigliato che passi fare, ma mai hanno imposto le loro idee su di me.
Italiani entrambi, occhi e capelli castani per tutti e due, e così eccomi qui, a osservare il mio riflesso nel finestrino. I tratti mediterranei del mio viso sono molto riconoscibili a tutti gli stranieri che incontro, mentre a me risultano usuali.
Due occhi marroni, che in passato erano neri. Me li ricordo eccome.
“Papà, ho gli occhi neri come i tuoi! E anche i capelli!” soleva gioire una bambina sostanzialmente mora. Ora è tutto più chiaro, a partire dalle mie idee.
Ma negli occhi, quando mi guardo allo specchio, posso notare delle linee nere attorno alla pupilla come se fossero dei raggi. E pensare che questo sole negli occhi è nero mi fa pensare ad una metafora un po’ miserabile, così involontariamente mi ritrovo a ridacchiare.
Quanto vorrei essere ancora quella morettina che vedeva il papà ogni due o tre giorni, che odiava i rimproveri della madre, mentre ora farei di tutto pur di sentirne uno dal vivo.
“Siamo arrivati?” chiedo con tono impaziente per l’ennesima volta, dopo aver tolto lo sguardo dal paesaggio fuori.
“No” ribadisce ancora l’autista, sicuramente stufo della mia domanda ripetuta troppe volte.
“E’ strano che ci sia il sole qui… Voglio dire, siamo in Irlanda, dove piove sempre!” dice Scott, seduto sul sedile anteriore.
Seccata da quell’ osservazione un po’ troppo stupida e scontata, mi accoccolo sul mio braccio poggiato vicino al finestrino, cercando di sonnecchiare. Devo recuperare il sonno perso in questi giorni. Forse è ora di mettere anche la mente –e soprattutto i ricordi-  a riposare.
Il mio sonno viene stroncato dall’ aprirsi del mio sportello, l’autista che mi rivolge una parola di scusa e che congedo immediatamente, e l’aria di Belfast che riempie ogni mio respiro.
Secondo Scott ho dormito per mezz’ora e mi avvisa anche di alcune mie parole borbottate nel sonno. Faccio spallucce, abituata a farlo sempre.
 
“Sara?” mi chiama una voce. E’ mia zia, di prima mattina già vestita di tutto punto.
Alzo gli occhi appannati dalla tazza nella quale il mio biscotto si frantuma.  Lo guardo, mentre affonda nel latte imperlato di briciole.
“Stanotte hai parlato nel sonno. Hai detto qualcosa come ‘Ti picchio! Lasciami stare, babbea!’”. La sua risata è troppo rumorosa per i miei timpani appena messi in funzione, così le rifilo un “Stai zitta”, solita frase che pronuncio la mattina a chiunque faccia troppo caos.
“E comunque muoviti, a scuola!” ribadisce poi, in tono più serio. E sparisce dietro il corridoio, mentre io ancora cerco il biscottino ormai sciolto in quel liquido bianco.
 
 
E’ nauseante. Il ricordo è così nauseante che non ce la faccio più. Il solo pensiero che mi devo sentir dire da un uomo che non fa parte della mia famiglia quello che facevo di solito con loro è disgustante. La voglia che sia mia zia a dirmelo di nuovo è così tanta che mormoro a Scott un rigido “Ti devo parlare”.
Lui non dice niente, ma sotto le sue Ray-Ban ha recepito il messaggio.
La guardia del corpo si avvicina per far portare a lui la borsa, ma rifiuto gentilmente il suo invito. So essere benissimo indipendente, e poi non voglio che i giornali abbiano un articolo per screditarmi con un titolo come “Si fa portare i bagagli! Che montata”.
Per fortuna l’auto ci ha lasciati proprio davanti all’albergo, così non vedo macchine fotografiche in giro.
La struttura è mastodontica: c’è un edificio dietro molto alto con innumerevoli finestre, mentre il davanti dell’hotel, che contiene l’entrata e sicuramente la reception,  è situato più avanti rispetto alla struttura delle stanze.
Una grande scritta recita a caratteri cubitali “Europa Hotel”. Non so perché, ma mentre mi avvio verso l’entrata lasciandomi la voce di Belfast alle spalle sento il buonumore che invade ogni mio centimetro di pelle.
A me viene affidata una suite al terzo piano, mentre Scott ne ha una al quinto. Da un lato sono davvero contenta di averlo di meno fra i piedi, ma dopo esserci ritirati ognuno nelle proprie stanze ed esserne usciti circa un’oretta dopo, so che vuole parlare anche lui con me.
Nella sala da tè dell’ hotel per fortuna ci siamo solo noi.
I quadri pieni di dettagli catturano la mia attenzione, ma che deve concentrarsi su qualcos’ altro. Mi invita a sedermi, e questo mi dà un immenso fastidio. Sono stata io a chiamarlo, e lui continua a comportarsi come se dovesse dire tutto lui. Faccio del mio meglio per non sbuffare. Mi accomodo sulla confortevole sedia rivestita di velluto mentre aspetto che cominci lui a parlare, ma non lo fa, così apro la bocca per prendere parola quando lui mi precede.
Che fastidio.
“Sei stata brava in quei giorni in Ghana” dice, con la voce ancora più lenta del solito.
Ricordo ogni momento di quelle settimane. Mi sembra ancora di stare nel backstage a Londra, il biondo che cominciava a parlare e poi finiva quell’altro, Harry.
La proposta era un viaggio in uno dei Paesi più poveri dell’Africa per raccogliere fondi per dei bambini malati e senza uscita dal tunnel della morte.
Ho accettato, in balìa al navigare del mio volere aiutare gli altri, ma non ho pensato alle conseguenze.
Conseguenze che hanno portato a farmi credere di star parlando con Niall Horan in un sogno, ad un’antipatia aggiunta nella mia lista (ultima stima: 287), alle amorevoli chiacchierate con gli altri del gruppo e anche a qualche gossip di flirt sui giornali.
Ma non importa, la cosa principale è che almeno cento di quei bambini siano riusciti ad avere abbastanza soldi per le cure necessarie.
“Hai instaurato un bel rapporto con i cinque. Hai mostrato al mondo la tua… ehm…”
Cosa vuole dire? Bontà? Gli dà così fastidio ammettere il mio altruismo verso tutti?
“Il tuo interesse per certe situazioni. Quindi ho pensato che potresti continuare a sentirti con Liam, Niall, Louis, Harry e Zayn.” Mi accorgo che una smorfia prende vita sulle mie labbra all’ultimo nome che pronuncia.
“Perciò, io e Jacques abbiamo pensato che tu avresti potuto… non so… mandare dei messaggi su Twitter…”
Queste parole sono inammissibili. Se si potesse disegnare la rabbia, in questo momento dovrebbero raffigurarmi. Faccio tre respiri, reprimendo l’istinto di alzarmi in piedi, e mi concentro sulle parole piuttosto che sui movimenti fisici.
“Se pensi che lo farò per pubblicità e per farti guadagnare soldi, ti sbagli di grosso” scandisco lentamente, guardandolo dritto in faccia.
Lui e il suo aiutante francese possono andare benissimo a quel paese, non serve il mio invito esplicitamente espresso. Entrambi sanno del mio odio verso di loro, e anch’io percepisco una certa nota di antipatia nell’atteggiamento di Scott quando è con me.
La sua espressione è dapprima turbata, non aspettandosi che avrei detto queste parole ad alta voce, ma poi cerca di mascherarla con l’indifferenza. Davanti a me, però, le persone sono tutti dei libri aperti. Figuriamoci un cinquantenne che non sa fingere e che passa la sua vita a contare i dollari e a fumare le Marlboro.
“Eppure pensavo ti piacesse quella casa a Manhattan…”  dice, in tono quasi angosciato.
Davvero crede di potermi compromettere con uno stupido ammasso di mattoni?
D’un tratto vedo tutto con rabbia. Non riesco neanche più a pensare, sento come un fuoco bruciante da dentro. Non mi capacito delle sue parole.
Quest’uomo ha il potere di farmi cambiare umore semplicemente aprendo quella boccaccia.
“Sì, è per questo che preferisco la mia in Italia. E con questo, buona giornata” dico con aggressività alzandomi. Cammino in fretta fuori dalla sala, lasciando da solo quell’uomo balordo.  
Lui vuole solo che gli procuri soldi e fama. Che gliene importa di me?
Che gliene importa del fatto che sono passati cinque mesi dall’ultimo abbraccio dato a mia sorella?
Che gliene importa se ieri notte ho pianto dallo stress?
Che gliene importa se i miei fratelli stanno crescendo senza di me?
Che gliene importa se la vita laggiù va avanti ma io no?
Che gliene importa se ogni volta che torno trovo un’ amica in meno?
Che gliene importa se ora sto versando l’ennesima lacrima?
Fermate questa giostra, voglio scendere.  

 
  
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