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Autore: Queila    29/01/2014    4 recensioni
Dal testo:
Dicono che il minimo battito d’ali di una farfalla possa provocare un terremoto dall’altra parte del mondo.
Un piccolo, insignificante dettaglio può cambiarti l’esistenza. Ripensi a come sei arrivata qui, a quando hai fatto la scelta che ti ha cambiato la vita, e ricolleghi tutto a quel misero, piccolo e insulto particolare che prima non avevi notato.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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BATTITO D’ALI
 
Dicono che il minimo battito d’ali di una farfalla possa provocare un terremoto dall’altra parte del mondo.
Un piccolo, insignificante dettaglio può cambiarti l’esistenza. Ripensi a come sei arrivata qui, a quando hai fatto la scelta che ti ha cambiato la vita, e ricolleghi tutto a quel misero, piccolo e insulto particolare che prima non avevi notato.
 
Piove. Un bel pomeriggio uggioso.
Non ho l’ombrello.
Decido dunque di prendere l’autobus.
Giornata perfetta per dirigersi all’università, insomma: maltempo, mal di testa e male di vivere, mix micidiale. Giornate come questa le vorrei passare al letto sotto il piumone a maledire il mondo e i suoi abitanti, ma mi costringo ad uscire, non posso perdere le lezioni di oggi.
L’autobus non passa.
Alla grande, oggi Roma ha deciso di mettersi contro di me in tutti i modi. Mentre aspetto mi guardo intorno per vedere le persone che mi stanno accanto, ogni tanto mi piace osservare la gente, capire da chi sono circondata .
Una ragazza super-truccata mastica svogliatamente la gomma facendo vedere il contenuto della sua bocca a tutti. A volte mi sento completamente estranea al mondo intorno a me, non sento di appartenere ad esso, eppure vi sono immersa . Sono così diversa dagli altri, mi sento diversa.
Finalmente un puntino compare all’orizzonte, e man mano prende le sembianze del mezzo di trasporto sul quale devo salire.
La gente è tanta, troppa, ma in qualche modo riesco a farmi spazio e a posizionarmi vicino alla ragazza di poco prima.
Mastica ancora la gomma, e il suono della sua lingua che scocca sul palato mi penetra nelle orecchie, il fastidio mi assale. Cerco di mantenere la calma, perché altrimenti la prendere a schiaffi facendole deglutire la gomma e la lingua.
Scendo dall’autobus una fermata prima del dovuto: davvero non riesco a sopportare quel rumore fastidioso e tutta quelle persone che mi schiacciano, facendomi sentire oppressa, troppo piccola in pianeta così grande.
Decido di fare a piedi quel che rimane del percorso. Piove anche meno forte.
Vedo un gattino nero, è troppo carino,  gira verso una strada che non conosco, ma decido di seguirlo, tanto indietro ci posso sempre tornare…
Mi conduce all’interno di una ragnatela di palazzi, un parte della mia città che non conoscevo.
Finalmente si ferma e vado ad accarezzarlo, fare questo genere di cose mi fa sentire meglio, coccolare animali sconosciuti e seguirli per vie sperdute mi dà un senso di appartenenza…
Alzo gli occhi verso il cielo e mi domando quante persone lo stiano osservando in questo momento come me. Rifletto e penso a tutte quelle persone che lo hanno contemplato in passato, loro ignorano me e io ignoro loro, ma sono sicura che perfino Cleopatra o Leopardi, almeno una volta nella vita hanno alzato gli occhi verso l’alto, proprio come sto facendo ora io.
Forse non sono così diversa dalle altre persone, forse, in fondo appartengo al mondo in cui sono nata.
Sento delle voci indistinte provenire da una stradina vicina, lascio il gatto a giocare con i rifiuti e mi avvio verso il rumore.
Un gruppo di ragazzi, sono tre, sono intorno a qualcosa.
Metto a fuoco la scena e mi accorgo che stanno picchiando una persona.
Il panico mi assale.
Il mio istinto di sopravvivenza mi dice di girarmi e allontanarmi, eppure…
Un nodo mi si forma alla gola per la paura e l’ansia, eppure…
I miei muscoli sono tesi, vogliono fuggire, eppure…
Eppure mi ritrovo, non so come, di fronte ad uno dei  ragazzi che si ferma di botto appena mi vede.
Faccio per parlare, in realtà non so neanche bene cosa dire, ma lui mi precede.
“Levate da mezzo, chicca…” mi grida a tre centimetri dalla faccia, è bello grosso: è alto il doppio di me e peserà come minimo il triplo.
“Questa è una via pubblica, o sbaglio?” ribatto, da dove mi esce fuori tutta questa spavalderia?
“Perché, che devi fa qua?” mi dice quello.
 Gli altri due si avvicinano a me distaccandosi dal mal capitato che ne approfitta per correre lontano.
Perfetto: sono sola, circondata da tre bestie.
Cominciano a tremarmi le gambe, ma cerco di darmi un tono, ho paura fino alla punta dei capelli, ma non posso farglielo capire o sarebbe peggio.
“Io volevo solo passare per di qua, non voglio fare niente”
“Ci hai fatto scappare il fango”
“Forse potresti sostituirlo, che dici?” mi si avvicina uno, faccio un passo indietro.
“Oh, Tito, vuoi menà  ‘na donna?” ribatte un ragazzo alto e magrissimo.
“’Sta qua s’è messa in mezza, secondo te voleva passare o far scappare il negro?” grida quello che si dovrebbe chiamare Tito a quanto ho capito, poi sputa a terra e riprende “ direi che’ na strigliata s’aa becca”
Si mette male, non va bene.
“E se chiamassi la polizia?” mi devo difendere in qualche modo, ormai sono talmente spaventata che non sento più nulla, dico e faccio cose senza accorgermene.
“Ah, bada le guardie” dice uno  con sguardo serio, ma di chi sta prendendo in giro.
Ma non passa nessuna in questa cavolo si via dimenticata da Dio?
“Sai, mio padre è colonnello dei carabinieri… “ Invento sperando che ci caschino.
“Lasciamo perde, damose…”
Ok, torno a respirare piano piano: forse è finita.
“Tanto se beccamo cara…” mi dice Tito “ l’amica dei negli è salva” aggiunge.
“Per ora” dice un altro e non so chi dei due rimanenti pronunci la frase che mi fa tremare di paura. Il tono era cattivo, perfido e dannatamente sincero.
Uno mi sputa sui piedi passando accanto e un altro mi dà un spallata.
Mi lasciano così: in mezzo al nulla, e si avviano dove era scappato prima quello che stavano picchiando, perché poi lo stavano infastidendo?
Ah, giusto:“amica dei negri”…
Certa gente non la tollero, ho fatto bene ad intervenire e tutto sommato mi è andata bene.
Quando non li vedo più all’orizzonte, tiro un sospiro di sollievo e collasso su me stessa.
Cado sulle ginocchia. Direi che per oggi faccio a meno dell’università.
Torno indietro, mi chiudo dentro casa cercando di far sparire dalla mia testa quegli attimi.
Sotto le coperte la mia testa corre libera verso pensieri inesplorati e mi accorgo di piangere solo quando ho il viso coperto di lacrime e il cuscino bagnato. La paura di quegli attimi mi assale tutta insieme e non so come, non so quando, ma ad un certo punto chiudo gli occhi e mi addormento, pregando di non sognare la faccia di Tito e di non riascoltare le ultime parole che mi hanno detto.
 
Il giorno dopo mi lascio convincere da quelli dell’università a prendere un aperitivo veloce dopo le lezioni.
Veloce: la parola chiave che non è stata rispettata.
Scendo dall’autobus che sono le undici passate, fortuna che devo camminare poco per tornare a casa.
Mi avvio verso casa il  più in fretta possibile, voglio far presto.
Chiudo la mente cercando di non pensare a cose tragiche o spaventose, essendone stata protagonista giusto il pomeriggio prima.
Penso che la macchina che accosta a pochi metri da me sia una coincidenza, penso che non ci sia nulla di preoccupante nella portiera che si apre e viene chiusa: penso male.
Sento dei passi dietro di me.
Mi volto, finalmente, e il terrore  si impadronisce del mio corpo e la mia mente si riempie di paura pura.
Sono tre.
Non so come faccio a saperlo, ma lo so: sono loro.
Indietreggio incerta di fronte ai tre incappucciati, poi il lampione illumina gli occhi che mi ero illusa di poter dimenticare.
Provo a scappare.
È inutile, lo so,  sento che qualcosa non va.
Mi giro appena in tempo per riconoscere gli occhi di Tito eccitati dalla violenza  che mi guardano con odio,e  avverto un colpo secco sotto il seno.
Sono senza fiato.
Crollo a terra e non provo alcun dolore, non sento nulla.
Ripenso a come sono finita in quella situazione.
Dicono che il minimo battito d’ali di una farfalla possa provocare un terremoto dall’altra parte del mondo.
Ripenso ai battiti d’ ali che hanno fatto scatenare questo terremoto: la pioggia, l’autobus, il masticare fastidioso della ragazza, il gatto nero…  l’aperitivo.
 La giornata di ieri e quella di oggi  mi scorrono  davanti gli occhi.
Comprendo piano piano come ho fatto ad arrivare a questo punto.
Qualcuno continua a colpirmi, ho smesso di lottare, non ho mai cominciato: non sono matura abbastanza per capire quando farlo.
Ho freddo, tanto, troppo freddo. Chiudo gli occhi e l’ultima cosa che percepisco è la sirena di un’ambulanza, poi il buio mi inghiottisce.
 
La storia partecipa al contest “Nemiciamici” di  (Gaea)
E al contest "Donne, Du Du Du!" di TheBlackStorm91  
Fatemi sapere che ne pensate J
Grazie e ciao a tutti!
  
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