CAPITOLO
QUARANTACINQUE
Stavano
camminando da ore ormai, erano stanchissimi
e quel che era peggio avevano l’impressione di non star
andando da nessuna
parte ma di star girando continuamente attorno. Erano sperduti in mezzo
ad un
bosco, o meglio, sembrava più una foresta tropicale, piena
di alberi e l’erba
era talmente alta che faticavano a camminare.
John
si fermò per riprendere fiato e si asciugò il
sudore dalla fronte. Portò lo sguardo al cielo, scorgendo il
sole attraverso i
rami degli alberi.
“Stai
bene?” gli chiese Frank, in piedi dietro di
lui.
Il
ragazzo si riscosse d’un colpo e si voltò a
guardare il padre, annuendo debolmente. “Sì,
sì”.
“Vuoi
che la porti io?” si offrì l’uomo,
indicando
lo zaino che il ragazzo aveva sulle spalle.
“No,
ce la faccio”.
Il
biondino riprese il cammino seguendo gli altri che
erano davanti. James, con la carta in mano, apriva la fila e dietro di
lui c’erano
Harry e Sirius che l’aiutavano a capire qual era la strada da
prendere e subito
dopo procedevano Joel e John e Frank. Quest’ultimo,
però, fece una rapida corsa
e in poche falcate raggiunse i due uomini davanti.
“Ragazzi,
dovremmo fare una pausa”, disse “e
mangiare qualcosa”.
James
arrestò il cammino e rifletté sulle parole
dell’amico; effettivamente non aveva tutti i torti, anche lui
sentiva un certo
languorino. Durante tutto quel tempo aveva continuato a camminare per
inerzia e
i piedi gli dolevano.
Alla
fine decisero di fermarsi per un po’ e trovarono
riparo sotto ad un albero, accomodandosi per terra o sulle rocce, e
tirarono
fuori quello che avevano portato da mangiare.
“Siamo
sicuri che sia la strada giusta? A me sembra
che stiamo girando in tondo”, fece John, addentando un pezzo
di pancetta.
“La
mappa dice che è questa”, lo rassicurò
Potter
senior, frugando nel suo zaino.
“Sempre
se la stai tenendo nella posizione corretta”,
lo prese in giro Frank mostrandogli un sorrisetto malizioso.
“Spiritoso!”
Dopo
quel breve scambio di battute, restarono a
mangiare in silenzio, ognuno perso nelle proprie riflessioni. Evitavano
persino
di guardarsi, forse anche per la troppa stanchezza.
Emmie
lesse velocemente i procedimenti che seguivano
nella ricetta per i souflè, mescolando con energia la crema
contenuta in un
pentolino. Non aveva scelto dei pasticcini semplici, però
aveva bisogno di
distrarsi un po’ e di sfogare in qualche modo la sua ansia. E
poi JamesRemus
adorava i soufflè e, siccome non riusciva a mangiare niente,
magari con quelli
ci sarebbe riuscito, a mettere qualcosa nello stomaco, oltre che a
farsi venire
il buon umore.
Tirò
fuori le piccole ciotole in cui avrebbe
infornato i dolcetti e osservò se la sua crema fosse pronta.
Magari un altro
paio di rimestamenti potevano starci, con i soufflè
bisognava stare attenti.
In
quel momento venne raggiunta in cucina da Teddy
che, senza dirle una parola, si accasciò su una sedia con
aria piuttosto
stanca. Come biasimarlo? Quella notte c’era stata la luna
piena e ancora
soffriva i postumi della trasformazione.
Emmie
fece finta di niente, non voleva disturbarlo
con domande inutili e di certo non gli avrebbe chiesto come stava, la
domanda
era più che scontata. Così continuò a
rimescolare la crema, sentendosi lo
sguardo del fratello addosso.
“Fai
i soufflè?” le chiese lui.
“Sì,
per James. Ma magari li mangia anche qualcun
altro”.
“Sei
gentile”.
La
ragazza gli sorrise teneramente e poi posò la
crema per accendere il forno. Rilesse un’ultima volta la
ricetta per
controllare di non aver scordato niente e infine riportò di
nuovo lo sguardo
sul fratello.
“Sei
andato a trovare James?”
Teddy
abbassò lo sguardo mentre un certo senso di
colpa lo pervadeva. No, non ci era ancora andato e non ne aveva il
coraggio. Gli
faceva male vederlo soffrire e, soprattutto, ciò gli avrebbe
acceso
immediatamente la consapevolezza che… che… no,
non doveva pensarci. Gli altri
erano tutti sicuri che si sarebbe salvato, perché non poteva
crederci anche
lui? Perché doveva essere sempre così pessimista?
“Dovresti
andarci. Gli farebbe piacere”, lo
incoraggiò la sorella, infornando i soufflè.
Il
ragazzo decise di seguire il suo consiglio,
perciò, prima di ripensarci, si alzò dalla sedia
e corse su per le scale.
Arrivato
in camera di JamesRemus, trovò l’amico
seduto sul letto, appoggiato a molti cuscini, intento a scrivere
qualcosa su un
blocchetto. Il licantropo esitò sulla soglia per osservarlo
un po’ da lontano.
Ad un tratto il moro alzò lo sguardo e, quando lo vide
lì, inarcò le
sopracciglia.
“Guarda
che puoi entrare, non ho la lebbra”,
scherzò, allargando le labbra nel suo tipico sorriso
malandrino.
Allora
Teddy si avvicinò al letto e ci salì sopra,
sedendosi accanto all’amico a gambe incrociate.
“Stai
scrivendo una nuova canzone?” chiese a bassa
voce.
“Ci
sto provando, ma ho un po’ di nausea”.
“Vuoi
che scriva io?”
James
lo guardò dritto negli occhi color caramello. “No,
non serve. Tanto non ho ispirazione”. Scivolò sui
cuscini andando a sdraiarsi
un po’. “Pensavo che non saresti venuto. Mancavi
solo tu al mio capezzale”. Tentò
di sdrammatizzare con una risatina, ma tutto quello che ne
uscì fu un colpo di
tosse.
“Mi
dispiace”. Teddy abbassò lo sguardo, sentendosi
gli occhi pungere per le lacrime. Non era uno che piangeva di solito e
in parte
era anche colpa del suo essere licantropo. A volte si sentiva peggio di
una
donna incinta.
“Ehi!”
lo chiamò l’amico, allungando una mano verso
di lui. “Non ti sto accusando”, lo
rassicurò. “Era una battuta. Dai vieni
qui”.
James alzò un braccio per fargli spazio, in modo che
l’altro potesse
stenderglisi accanto e poggiare la testa sulla sua spalla. Il
Metamorfomagus
non se lo fece ripetere due volte e si strinse forte al moro. Gli
piaceva
stargli vicino e spesso avevano dormito abbracciati, fin da quando
erano
piccoli. E lo stesso valeva per James; il corpo di Teddy era caldo e
terribilmente comodo.
“Mi
prometti una cosa?” gli chiese Black.
“Cosa?”
“Ti
prenderai cura di Ariel e Joel?”
Teddy
esitò un attimo prima di rispondere. Non voleva
fare quella promessa perché ciò avrebbe
significato che accettava una cosa che
non avrebbe mai voluto accettare, ma allo stesso tempo voleva
accontentarlo.
Aveva sempre immaginato che sarebbero cresciuti insieme, che sarebbero
rimasti
amici per tutta la vita e che avrebbero raggiunto la vecchiaia insieme,
sostenendosi nei momenti felici e tristi della vita. E poi era persino
certo
che lui sarebbe morto prima di James.
Però erano in guerra e in guerra poteva succedere di tutto.
“D’accordo”,
rispose infine, cercando di tenere la
voce il più ferma possibile. Ma la verità era che
le lacrime avevano preso a
scorrergli lungo le guance e non aveva certo intenzione di farlo capire
all’amico.
Come avrebbe fatto senza di lui? Non riusciva nemmeno a
pensarci…
Charlie
e Severus si materializzarono nel salotto di
Grimmauld Place, trovando solo Victoire che sedeva su una poltrona e
leggeva un
libro.
“Ciao,
Vicky”, la salutò il ragazzo un po’
frettolosamente. “Abbiamo portato la pozione”.
“Bene.
Mettetela in cucina”.
Il
professore si diresse subito verso la porta della
cucina, con la pozione ben stretta in mano. Charlie invece rimase con
l’amica,
sedendosi sul divano.
La ragazza poggiò il libro sul tavolino e si
scostò i lunghi capelli biondi.
“Come
sta?” chiese il moro, senza specificare a chi
si stesse riferendo ma era chiaro.
“Per
ora resiste”, rispose lei. “Ma spero che i
ragazzi arrivino presto.
“Lo
spero pure io”.
“Sei
preoccupato?”
“Tu
no?”
Victoire
rimase a fissarsi le mani pensierosa. Tutta
quella situazione rendeva nervosa anche lei. Ne avevano viste di cotte
e di
crude nel loro tempo, ma nessuno di loro aveva rischiato la vita
né comunque si
era ritrovato sul punto di morte.
E aveva paura…
Si
erano rimessi in cammino già da un’ora e
finalmente si erano liberati di quella foresta e quell’erba
che arrivava fino
alla vita per giungere però a una zona in salita. Quindi non
è che la cosa
fosse cambiata tanto. Però almeno si erano riposati e
avevano mangiato un po’.
“Ehm…”,
bofonchiò John, cercando di attirare l’attenzione
degli altri.
“Che
c’è?” gli chiese Harry, preoccupato che
ci
fosse qualcosa che non andava.
Il
biondino assunse un’espressione mortificata. “Devo
fare la pipì”.
Sirius
si sbatté una mano in fronte e gli altri
sospirarono. “Non potevi farla durante la pausa?”
lo rimproverò Joel.
“Ma
prima non mi scappava”.
“D’accordo,
d’accordo!” esclamò Frank prendendo in
mano la situazione prima che gli altri si mettessero a litigare.
“Falla qua”.
John
mise a terra lo zaino e si avvicinò a un
cespuglio slacciandosi i pantaloni. Gli altri restarono ad aspettare,
non
mancando di guardarsi un po’ attorno. Non avevano ancora
ricevuto nessun
attacco e non avevano incontrato trappole e questo li preoccupava
assai. Quando
qualcosa filava tutto liscio allora non era mai un buon segno.
Quando
il ragazzo ebbe finito e si fu pulito le mani
sui jeans, James guardò un’ultima volta la mappa e
la chiuse. “Adesso dovrebbe
esserci un ponte. Voi ne vedete uno?”
Sirius
alzò una mano indicando un punto non molto
lontano. “Quello è un ponte?”
Gli
altri guardarono nella direzione che l’uomo
stava indicando, constatando che sì, si trattava di un
ponte.
Corsero in quella direzione ma quando lo videro, rimasero un
po’ raggelati: il
ponte non era proprio stabile, anzi, il vento lo stava facendo
oscillare
pericolosamente e mancavano un paio di assi qui e là. Per
non parlare del fatto
che era lungo, almeno tre metri, e copriva il passaggio che andava da
una
sponda all’altra, tra le quali turbinava un fiume impetuoso,
spinto da una
forte corrente.
“Bene”,
commentò Frank, controllando che non ci fosse
una via d’uscita più sicura.
“Direi
che ora ci tocca sfidare la gravità”.
“E
se attraversassimo uno alla volta?” propose
Sirius.
“Ci
metteremmo troppo”.
“Allora
andiamo due alla volta”.
Decisero
che quella era la soluzione migliore,
perciò i primi ad avviarsi furono John e Joel. Ma appena
ebbero attraversato
mezzo metro, il vento si alzò ancora più forte
facendo dondolare il ponte
instabile ancora di più. I due cercavano di reggersi alla
ringhiera, ma stare
sul bordo del ponte non era proprio un’idea saggia.
Si muovevano a piccola passi, attenti a non mettere un piede in fallo,
ma ad
ogni asse si sentiva scricchiolare qualcosa e temevano che presto o
tardi il
ponte avrebbe ceduto. Cosa che infatti successe: Joel mise un piede su
un asse
rotta e quella crollò sotto di lui, facendo precipitare il
ragazzo di sotto che
scomparve in un battibaleno.
“Joeeeeeeel!”
gridò
John, gli occhi spalancati e il vento che fischiava nelle orecchie.
MILLY’S
SPACE
Ce
l’ho fatta!
Lo
so, lo so, è veramente da tanto che non aggiorno
questa fanfiction, ma vi confesso che ero poco ispirata a mandarla
avanti. Sono
anche stata presa da un’altra storia, nel fandom di Sherlock
(si intitola “It’s
elementary, Watson. The fact that I love you”, se volete
darci un’occhiata),
però mi dispiace aver aggiornato così tardi.
Tenterò di non farlo più
succedere.
Va
bene, non sto a rompervi troppo.
Spero mi lascerete qualche recensione e vanno bene anche minacce di
morte ^^
Un
bacione,
Milly.
FEDE15498:
wow, sono contenta che le mie storie ti facciano questo effetto ^^
spero non
fosse niente di brutto la cosa che ti ha spaventata. Ahaha, John
sarà anche un
pirla ma noi lo adoriamo proprio per questo, vero, Charlie? ^^ Charlie:
“Eh?
John? Io non adoro John”.
Sese… va be’ ^^ un bacione, M.
PUFFOLA_LILY:
oddio, spero tu non ce l’abbia con me per questo mega
ritardo. Scusa, davvero.
*si fustiga da sola* Purtroppo per James e Jolie dovrai aspettare il
prossimo
capitolo, mi sa… ma arriveranno anche loro, non ti
preoccupare.
Fammi sapere, un bacio. Milly.
POTTER_92:
guarda che ti vedo lo stesso anche se entri di soppiatto ^^ James,
Jolie,
accuccia! Purtroppo nemmeno io mi sono fatta sentire per un
po’, I’m so so so
so so sorry. Tuttavia, spero di aver rimediato con questo capitolo.
Che cosa ne pensi?
Un abbraccio stritolaossa. Milly.